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Novelle (Bandello)/Seconda parte/Novella XXV

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Seconda parte
Novella XXV

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Un geloso fuor di proposito per téma del fuoco


salta giú da alto e morendo lascia la moglie erede universale.


Quando s’è, signora mia, detto e ridetto, io non conosco in questa nostra vita cosa piú pestifera a l’uomo e a la donna com’è il morbo de la gelosia, perciò che dove egli s’attacca discaccia subito ogni contentezza e v’introduce ogni male; e poi che voi imposto m’avete ch’io dica il mio parere circa se si può amar senza gelosia e se chi è geloso o gelosa ama, io vi dirò liberamente ciò che me ne pare e quanto ne sento, sottomettendomi al giudizio di chi piú sa e forse ha di me meglior parere. Dico «parere» e non «giudicio» o «sentenza», perché se altri diranno la cosa non star cosí, che forse potrebbero dir la veritá, non potranno almeno ragionevolmente dire che questo non sia il mio parere, affermando io che cosí mi pare. Dico adunque con ogni debita riverenza che a me pare che quelli che tengono che amore senza gelosia non possa essere, non abbiano buona openione, anzi che grandemente errino, ancor che cotal openione sia nel petto di molti tanto radicata che a sbarbarla ci voglia la forza d’Ercole. Onde saper devete che in quei cori ove gelosia s’annida non può in modo alcuno vero amore albergare, perciò che non può con effetto durar amore ove egli non ritruovi cibo convenevole per nodrirsi. E chi lo ciba, lo mantiene e lo nudrisce credo io che sia la confortatrice e sollevatrice d’ogni afflitto e tribulato, che si chiama «speranza». Per questo tutto quello che danneggia e guasta la bella vertú de la speranza è mortal nemico e fiero guastatore de la conservazion de l’amore. E che cosa è questa gelosia? Ella in vero è un gelato timore che i meriti e la vertú d’altri, che a noi par che sormonti e vinca il nostro valore, non ci levino fuor de l’animo de la donna amata, la quale noi come nostro ultimo fine bramiamo d’ottenere. Non sará l’uomo geloso del suo rivale, se quello non crede e stima valer molto piú di quello ch’egli vale. Il perché la gelosia ammazza quella poca speranza, tronca quei pochi ramuscelli che in noi germogliavano e disperge il fiore sovra cui noi ci fondavamo di venir al godimento de la cosa amata, e porta ogni speme nel valore e beni del nostro concorrente o sia rivale, di tal maniera che a poco a poco quello che noi credevamo che fosse amore, come la speme è perduta, va in fumo come nebbia al vento, o vero che si converte in rabbia e furore e in sdegni, che non altrimenti ardeno e consumano quella benevoglienza che a la cosa amata portavamo, che si faccia la devoratrice fiamma il cottone poi che l’oglio o la cera che lo nodriva è mancato. Quindi procede che, morta la speranza, muore il desiderio e con quello l’amore, e niente altro questo veleno nei petti ove entra produce se non che l’avvelenato tutto il dí vede che il suo rivale gli par molto piú ornato di vertú, di costumi, di valore e d’ogn’altra grazia che non è egli medesimo. Saranno forse alcuni i quali diranno che la gelosia ove s’appiglia sará cagione che il geloso si sforzerá, per avanzar il rivale, di crescer ogni dí in vertú a megliorar di costumi e adornarsi di tutte quelle parti che lo ponno render grato ed accetto a la cosa amata. Ma questo non vale, perciò che se non avesse quella gelata paura ed agghiacciato timore d’esser vinto, egli non si prenderebbe cura né s’affaticheria per farsi piú perfetto ed acquistar nuovi meriti. Ora, come giá ho detto, questo non fa a proposito né milita contra me, perciò che questo stimolo e sprone, che lo punge e sferza a voler divenir megliore, non è nativo ed essenziale a la gelosia ma per accidente, ché se le fosse proprio, sarebbe un’altra cosa. Ditemi un poco: non avete voi veduto bene spesso il male esser stato talora cagione d’alcun bene? Direte voi per questo che il male sia bene? non è egli la infermitá alcuna volta cagione de la sanitá? Sí, è ella, per quanto si vede, certissimamente, perciò che l’uomo che conosce essersi infermato per disordini, per cattivi cibi ed altri inconvenienti che infiniti sono ne la vita nostra, se sará savio, per l’avvenir quei disordini aborrirá e fuggirá come il morbo. Nondimeno il male non è mai bene e l’infermitá non è sanitá. Sí che il piú de le volte il mal fa male e le infermitá ancideno gli uomini, come per isperienza tutto ’l giorno con nostro gran dispiacere veggiamo. Potrebbe forse alcuno dire non esser cosa cattiva la gelosia, ma deversi chiamar segno d’amore, con ciò sia che non si potrá mai trovare che sia nessuno geloso di quella cosa che non ama. Chi adunque, se un geloso convien per forza che d’alcuna cosa che ama geloso divenga, se non amasse averia cagione di temere? Onde il nostro ingegnoso sulmonese disse amore esser cosa piena di sollecito timore, e questa sollecita e diligentissima téma altro non è che gelosia. Ma questo punto non mi rimoverá dal mio fermo proposito. Io non niego che amore non stia insieme con gelosia, anzi lo confesso e vi dico che dove è gelosia è anco amore. E qual è l’amore che con la gelosia alberga? Egli è veramente amore imperfetto, tronco, infermo, dubioso e d’alcune parti di ver amore manchevole. Si potrá bene con la veritá in mano conchiudere che in quel petto, o sia d’uomo o sia di donna, dove amor perfetto e vero ha collocato il suo seggio, gelosia non può aver luogo. Adunque come la febre è segno di vita, perché ella non ha albergo in un corpo morto, la gelosia è segno d’imperfetto amore. Chi sará che presuma di dire che dove è perfetta e sana vita ci sia febre? Egli si sa pure che la febre non può aver luogo, come s’è detto, se non in corpo vivo; nondimeno ella non resta di tormentarne e piú tosto a morte che a vita ci mena, se l’uomo non usa i convenevoli rimedii. Il medesimo fa la gelosia, la quale com’è abbarbicata nel core d’un amante ed egli la lascia dominare, il piú de le volte lo guida ad odio piú tosto che ad amore. Onde si può veramente dire che il regno d’amore in tutti i suoi confini non ha piú orrendo mostro, piú pestilente aere né serpe piú velenoso di questo morbo e di questa gelosia. E qual in effetto è piú fastidiosa e tormentata vita di quella d’un geloso? Egli non solamente s’afflige, si crucia, si rode e sempre dimora immerso in continovi travagli e dolori, perdendone il cibo e il sonno e ogn’altra quiete; ma tormenta e perturba ognora quella persona che dice amare piú che le pupille degli occhi suoi, e a quella con sue agre rampogne, con suoi rammarichi, con invenzion nuove ed amare querele, con gran sospiri e gelate paure mai non lascia aver un’ora di quiete. Or vedete se questo pestifero morbo è fuor d’ogni misura penetrativo e crudele e se acceca in tutto col suo veleno il core ove egli può penetrare, ché il misero geloso sofferirebbe piú tosto di veder la sua amata esser mendíca e andar d’uscio in uscio cercando il pane per vivere, che vederla fatta reina col favor e mezzo del suo rivale. Non vi par egli che questo sia un bello e buon amore? Da questo disordinatissimo volere misurate tutto il resto. Insomma egli è tale l’amor del geloso che ei non vorrebbe che la sua donna piacesse a nessuna persona del mondo eccetto a lui solo, e non può patire che parli con altri, che rida, che scherzi e che mai si prenda piacer alcuno se non con esso lui. Credete voi che egli ami quelle vertú e quelle doti che sono in lei, per le quali esso la sente a questi e a quelli lodare, commendare e celebrare, non essendo egli buono a far nessuna di queste opere? Certamente ei punto non le vede né ode volentieri, e meno l’ama, anzi odia, e vorria che da tutti fosse sprezzata e fuggita come il morbo. Cotali adunque sono gli effetti che genera la gelosia. Ma per il contrario il vero e perfetto amore cria ne la mente de l’amante questo generoso e lodevol desiderio e ve lo nudrisce tuttavia, perché egli brama che la sua donna sia da tutti lodata, riverita, celebrata e stimata la piú bella, leggiadra, vertuosa e costumata donna del mondo. Avete anco a sapere che dove è il compíto e da ogni banda perfetto amore, v’è anco una ben salda e ben fondata speme che, di continovo viva e verde, discaccia e rompe ogni téma, perché la perfetta caritá manda il timor fuori e mai non gli lascia far radice né che in modo alcuno possa germogliare. Per questo il vero amante gode, giubila e trionfa quando ode che altri la donna sua magnifica ed essalta, ed egli stesso va cercando i lodatori che la celebrino e la levino con gli scritti loro sovra le stelle. Si può adunque ragionevolmente conchiudere e con la chiara veritá in mano affermare che il piú fiero, crudele, inumano e barbaro nemico non farebbe peggio ad una donna di quello che facesse un geloso, il quale, se possibil fosse, vorrebbe veder l’amata sua ne l’abbisso d’ogni calamitá e miseria e da ciascuno a morte odiata, a ciò che ella a lui solo s’umiliasse, né altro avesse che soccorso le porgesse se non egli. Ora per finir questo proposito ed entrar in altri ragionamenti piú piacevoli, vi dico non esser cosa al mondo che piú convenga al viver de l’uomo quanto si faccia l’amicizia e conversazione de le persone. Di questa giá s’è detto che il geloso priva l’amata, perché non vuole che con persona parli, che si domestichi con nessuno e che solamente con lui conversi. Chi vorrá dunque dire che un ammorbato di gelosia ami altrui né se stesso? Certo, che io mi creda, nessuno. Ma veggiamo un poco una strana novella che in Provenza ad un geloso avvenne, per quello che giá mi narrò un nostro provenzale essendo io in Avignone. Fu adunque in una cittá di Provenza un gentiluomo, dei beni de la fortuna abondevolmente ricco e quasi il primo de la cittá. Egli ancor che avesse alcune castella, nondimeno, contra il commun costume de la patria, dimorava assai piú volentieri ne la cittá che fuori. Pigliò costui per moglie una gentildonna de la contrada, giovane molto bella ed avvenevole e a cui piaceva troppo lo star in compagnia e scherzar con tutti, perché, essendo scaltrita e parlando bene, e molto ricca di propositi, le pareva trionfare ogni volta che ella veniva a parlamento con chi si fosse, e lo proverbiava e motteggiava. Era poi facetissima, e se talora se le lava da alcuno la baia, ella punto non la rifiutava, ma sforzavasi con qualche bel motto rintuzzar l’acutezza de la proposta, e se non le veniva fatto, se la legava, come si dice, al dito ed aspettava il tempo di vendicarsene piacevolmente. Insomma ella volentieri dava il giambo e lo voleva. Il marito a cui punto non piacevano i modi de la moglie, parendo a lui che ciascuno che parlava seco ne fosse innamorato e chi la mirava volesse rubarla, divenne sí fieramente di lei geloso che giorno e notte mai non riposava, e di continovo l’era a lato, né senza lui permetteva che quella facesse un passo od a chiesa o dove andar volesse. La donna conoscendo la gelosia del marito e giudicando che da altro non nasceva se non da una dapocaggine che in lui era, perché nei servigi de le donne nulla valeva ed una volta ogni dui mesi a pena le rendeva il debito matrimoniale, deliberò di pagarlo di quella moneta che egli meritava. E perché è la costuma del paese che tra gli uomini e le donne s’usa grandissima domestichezza, come anco vedete far in queste bande, era il geloso da ciascuno biasimato e fu anco da molti agramente ripreso. In casa poi ogni dí con grandissimo romore erano a le mani, ed altro che gridar non si sentiva, perché il marito non averebbe voluto che ella fosse andata fuori, ed ella a mal grado di lui andava ove piú le piaceva, e ragionava e scherzava con tutti, seguitandola perciò sempre il marito. Tutta la famiglia teneva con la donna, perciò che il viver del padrone dispiaceva a tutti, che non solamente con la moglie ma con il resto de la casa era fuor di modo fastidioso. Ora la donna, deliberatasi di non stare in sí noiosa vita senza qualche trastullo, mise gli occhi a dosso ad un giovine nobile de la contrada, che in Francia «cadetti» si chiamano, perché restando i primogeniti signori, gli altri che «cadetti» sono nomati hanno certa parte del patrimonio, chi piú a chi meno secondo le varie consuetudini e leggi de le provincie. Era il detto giovine molto costumato e vertuoso, ed oltra le buone lettere si dilettava mirabilmente de la musica, cantava bene la sua parte e sovra d’ogni strumento. Questi mirabilmente a la moglie del geloso piacque, la quale in breve con cenni, atti e parole gli fece conoscere che volentieri seco si sarebbe domesticata. Il giovine, che avveduto era e a cui la donna molto piaceva, punto non la recusò, ma cominciò piú de l’usato con lei a conversare e parlar di secreto, di sorte che scopertosi insieme i lor amori, altro non attendevano che aver alcuna comoditá di poter ingannar messer lo geloso, il quale di rabbia e di stizza si consumava veggendo questa insolita domestichezza dei due innamorati. Egli piú volte ne garrí la moglie, ma cosa che dicesse o facesse niente montava. Aveva il geloso un servidore in casa del quale piú che di niuno altro si confidava, e a lui lasciava tener la notte le chiavi de la porta de la casa. Parve a la donna se trovava modo di corromper costui, che di leggero le verrebbe fatto di ritrovarsi col suo amante. Il perché cautamente data la commissione a l’amante che tal ufficio facesse quando il servidore andava per la cittá a comprar le cose per il viver di casa, ne seguí il desiderato effetto, perché con san Giovanni bocca d’oro in mano l’amante l’indusse a far il tutto. E cosí la notte l’amante era in casa intromesso, e la donna, quando sentiva il marito dormire, chetamente da lato a lui levavasi e andava in una camera a ritrovar il suo amante, e una e due ore con lui si trastullava: durò questa pratica qualche mese con gran piacer di tutti due, ed essendosi tanto insieme domesticati, la domestichezza crebbe di modo che piú e piú volte a la presenza del geloso facevano degli atti che averebbero dato sospetto a ciascuno, non che al geloso che era il sospetto stesso. Onde fatti certi pensieri tra sé con poco discorso e men giudizio, il tutto con il servidore conferí, che stimava esser fidatissimo. Egli a l’amante il caso comunicato, e da lui a la donna detto, attendevano che il geloso il suo sciocco pensiero mandasse ad effetto. Aveva il geloso deliberato di nascondersi sovra il granaro fingendo di voler andar ad un suo luogo fuor de la terra, e poi la notte discendere a veder a l’improviso ciò che la moglie faceva, perché tra sé s’aveva fatto questo pensiero, che non l’abbandonando mai di giorno né di notte, ella non potesse far cosa alcuna, ma che solamente potesse dar ordine se il marito non ci fosse di far qualche cosa. Ora levatosi una mattina per tempo, disse a la moglie: – Egli mi conviene cavalcar fuori per tre o quattro giorni per alcuni affari che sono occorsi. Tu attenderai bene a le cose de la casa, ed avvertisce a non andar in vicinanza, ma starai ne la tua camera. Ed anco se vien nessuno a vederti, fa dir loro che tu ti senti male. – Disse la donna che farebbe il tutto e non si mosse di letto. Il buon geloso, mandate fuor tre dei servidori e imposto loro ciò che voleva che facessero, andò a chiudersi sovra il granaio ed ordinò al servidore di cui si fidava che non chiavasse l’uscio, ma lo lasciasse senza fermarlo. La donna, levatasi, cominciò andar per la casa dicendo che poi che il marito non ci era, voleva il debito che ella avesse buona cura de la casa. Andando adunque in questo luogo e in quello come se ben diligente madre di famiglia divenuta fosse, pervenne a l’uscio del granaio, e dato de la mano in quello e trovatolo aperto, disse ad alta voce a ciò che il marito la sentisse, una gran villania al servidore che le chiavi teneva. – A la mia fé, – disse, – dapoi come monsignor venga, io gli farò intender il tuo buon governo che tu hai de le cure nostre. Da’ qua queste chiavi, uomo da poco che tu sei. – E dato de le mani a le chiavi che egli a cintola aveva, quella gli levò, dicendo che le voleva tener fin che il marito tornasse. E quivi di nuovo fattogli un grandissimo romore in capo, chiavò l’uscio e se ne venne giú. Messer lo geloso, sentendo questi rumori, giudicò la moglie esser da bene e diligente e molto si rallegrò. Da l’altra banda non sapeva come farsi a desinare e meno come uscir fuori del granaro, perché non avendo il suo servidore le chiavi non gli poteva, come aveva ordinato, recar il mangiare né aprirgli. L’amante de la donna quel dí venne a desinar con lei vi stette tutto il giorno e la notte, dandosi il meglior tempo del mondo e ridendo insieme con il servidore del geloso, che non aveva che mangiare se non mangiava il gran crudo. Sapendo poi la donna e cosí il servidore come il geloso era sovra modo pauroso del fuoco e che cosa al mondo tanto non temeva, volle che il dí seguente a buon’ora tutti i letti de la casa si rinovassero di paglia nuova, allegando che la vecchia era piena di cimici. Il che subito si fece. Ed avendo fatto gettar i pagliarecci vecchi a basso nel cortil de la casa, volendo che i cimici s’abbrusciassero fece porgli il foco dentro. Era di buon matino, ed avendo il geloso male la notte dormito, essendosi gettato sovra una quantitá di grano che era in un cantone, cominciò alquanto a riposare; ma ardendo la paglia e lo splendor del fuoco entrando per le finestre del granaio, fu cagione che il geloso si destasse. Egli, come vide questo, a la finestra corse, e veggendo tutto il cortil ardere né sapendo discernere che cosa fosse, credette che tutta la casa s’abbrusciasse. E sapendo che l’uscio era chiavato e che non poteva uscire, dubitando non abbrusciare colá dentro né occorrendoli ciò che potesse fare, affacciatosi a una de le finestre che su la strada aveva la vista, volse piú tosto porre a rischio di rompersi le gambe o fiaccarsi il collo che star a discrezione del fuoco. Onde saltò giú ne la strada, ed essendo il salto grande, si ruppe una gamba ed un braccio e tutto di dentro in modo si scosse che quasi alora morí. Passavano alcuni per la contrada, i quali, veduto questo, picchiarono a la porta e dentro lo portarono. La moglie mostrandosi la piú dolente donna del mondo, piangendo e gridando, mandò a chiamar i medici, i quali giudicarono che essendo tutto di dentro sfondato, che poco poteva campare e che s’attendesse a l’anima, poi che il corpo era perduto. Il misero geloso fece testamento e, non avendo figliuoli, lasciò la moglie universal erede di tutto, e confessato se ne morí. La donna, passato l’anno, nel suo amante si maritò, col quale buon tempo fin che vissero si diede. Cotale adunque fine ebbe chi s’era fuor di modo ingelosito.


Il Bandello a la molto magnifica e vertuosa signora


la signora Argentina d’Oria e Fregosa salute


Si leggeva a la presenza de la sempre con prefazione d’onore meritevolmente da esser nomata, la valorosa ed umanissima signora Ippolita Sforza a Bentivoglia l’opera latina de l’eloquente messer Giovanni Simoneta, che egli giá compose dei fatti ed opere militari del glorioso Francesco Sforza, primo di questo nome duca di Milano, che con l’arme a singolar prudenza a sé e ai suoi che vennero dopo lui partorí quell’amplissimo dominio, se i figliuoli a nipoti avessero saputo imitar i vestigii e modo di quello. E chi l’opera leggeva era messer Girolamo Cittadino, molto ne la lingua latina a volgare essercitato. Ora, nel processo del leggere, si venne ad un generoso e notabil atto da esso Francesco fatto quando egli guerreggiava prima che s’avesse acquistato il ducato di Milano. E l’atto fu tale, che essendogli stata dai suoi soldati condutta al padiglione una bellissima giovane da quelli ne le terre dei nemici presa, a ciò che con quella si prendesse amorosamente piacere, essendo egli uomo bellissimo e a le dilettazioni veneree molto inclinato e disposto, e giá quella avendo cominciato lascivamente a basciare, sentendosi svegliare il concupiscibile appetito, nondimeno dando il senso luogo a la ragione da quella s’astenne. Era la giovane, come s’è detto, bellissima di corpo ed oltra a questo, vergine; la quale veggendo che il signore giá s’apparecchiava voler giacersi con lei, dinanzi a quello s’ingenocchiò e teneramente piangendo, con le braccia in croce, gli disse: – Signor capitano, io ti priego per amor de la gloriosa vergine Maria e del suo unico Figliuolo le cui figure qui vedi dipinte, (ché soleva sempre il capitano sforzesco nel suo padiglione tener al capo del letto un’anconetta), che tu non mi voglia levar l’onore e tormi la verginitá, la quale né tu né altri con quanto tesoro sia al mondo mai piú non mi potreste restituire. – A queste pietose parole in un tratto il libidinoso appetito in tutto nel signor Francesco s’estinse; e fatta levar in piede la lagrimante giovanetta, quella con buone parole confortò, essortandola a por fine a le lagrime ed assicurarsi che piú né da lui né da altri sarebbe molestata. E cosí alor alora chiamati alcuni suoi soldati dei quali molto si confidava, consegnò loro la giovane ed ordinò che bene ed onestamente accompagnata la restituissero ai parenti suoi; il che quello stesso giorno fu essequito. Parve a tutti cosa mirabile che un giovine a cui le donne meravigliosamente piacevano, avendo in poter suo una bellissima giovane, cosí di leggero se la lasciasse uscir di mano e sapesse a la presenza di sí vago obietto frenar il suo concupiscibil appetito; cosa in vero da esser sommamente commendata. Di questa continenza fu senza fine il capitano sforzesco lodato, e molte cose in commendazion sua furono dette da diversi. Si ritrovò quivi il discreto e vertuoso messer Lorenzo Toscano, cittadino milanese, il quale alora governava le cose del cardinal del Carretto di Finario, che poi abbiamo veduto vescovo di Lodeva in Francia. Egli poi che vide che ciascuno si taceva, disse: – Veramente non si può se non dire che il duca Francesco e per questo e per molte altre degne parti che in lui erano, che a tutti il rendevano ammirabile, non meriti grandissima lode, ché per certo la merita. Ma a me non par cosí gran cosa che un cristiano, e massimamente uomo di qualitá e di giudizio, sentendosi scongiurar per amor de la intemerata Reina del cielo a del suo Figliuolo, s’astenesse da un suo piacere di pochissimo momento, devendosi ragionevolmente da ogni altra importantissima cosa astenere. E chi non sa che il duca fece il debito suo astenendosi da un atto libidinoso ed illecito, che piú tosto recar gli poteva danno che utile e renderlo a molti odioso, dove egli, che a grandissime cose aspirava, cercava di acquistar la benevoglienza di ciascuno? Ma che diremo noi di quel colmo d’ogni vertú, Publio Scipione Affricano, che da la possessione d’Italia revocò Annibale ed in Affrica lo vinse? Egli guerreggiava in Spagna contra i cartaginesi e spagnuoli, onde avvenne un giorno che si fece un bottino di molte cose, tra le quali era una bellissima giovane fatta cattiva la quale era stata sposata da Luceio che era il principal gentiluomo tra i celtiberi. Veggendola Scipione tanto bella che ciascuno a lei per contemplarla, tratto da la incredibil bellezza di quella, si voltava, non solamente non si volle amorosamente con lei giacere, ma come sorella propria onestissimamente la fece guardare, e fatto a sé a Cartagenia il di lei sposo sotto la fede venire, a quello la restituí, e l’oro che i parenti de la giovane avevano recato per recuperarla, gli donò sovra la dote. Che direte voi qui? Non fu Scipione aggiurato per vertú d’alcun dio, non fu da la giovane né da altri pregato, e per sola generositá d’animo, per amor solo de la vertú, volle e si seppe volontariamente dagli abbracciamenti de la bellissima giovanetta astenere. Non era Scipione cristiano, né so se idolatro lo debbia chiamare. E quando avesse voluto libidinosamente goder l’amor de la giovane, non ci era chi biasimato l’avesse, perciò che appo i romani non si reputava peccato, e se era tenuto mal fatto, non ci era pena, perciò che la giovane non era vergine vestale. Sí che per mio giudicio, quale egli si sia, io crederei che il mio Scipione meriti piú d’esser ammirato a commendato che il vostro duca, rimettendomi perciò tuttavia a chi sa piú di me. – Cosí questionandosi variamente secondo che gli affetti degli uomini sono diversamente inclinati, e nondimeno lodando tuttavia il capitano sforzesco e Scipione come nel vero in simil caso meritano esser lodati, la signora Ippolita, che fin a quell’ora era sempre stata intenta ai ragionamenti che si facevano, tutta ridente disse: – Se a me, che donna sono, fosse lecito, tra tanti elevati spiriti quanti qui sono, di dir il mio parere, so ben io ciò che di questi dui eccellentissimi uomini direi. – Il signor Giacomo Gallerate, che quivi era, subito soggiunse: – Signora mia, se io fossi messer Lorenzo Toscano, io non vi vorrei per giudice, ma vi allegarei per sospetta, perciò che voi sète troppo in questo caso interessata, essendo stato il duca Francesco avo del signor Carlo Sforza vostro padre. Potria ben forte avvenire che voi fareste come fanno i nostri cacatocci di Milano, i quali proverbialmente si suol dire che per parer savii danno contra i suoi. – Risero tutti a questo motto, e la signora altresí ridendo disse: – Io dirò pur il parer mio, non da passione o d’altro mossa, se non perché cosí mi pare che la ragione voglia. Dico adunque che se Scipione usò quella continenza, non per altra cagione lo fece se non per beneficio de la patria e suo. Egli primieramente fu, come di lui si scrive, continentissimo, e si trovava straniero in una provincia ove poco innanzi erano morti il padre suo e lo zio, a bisognava che s’acquistasse amici. Onde intendendo che la giovane era sposa di Luceio, per acquistarsi con quel mezzo il favor di quei popoli, gli rese la donna. E vennegli assai ben fatto il suo dissegno, perché Luceio, tratto da questa liberalitá, ed indi a pochi giorni, oltra l’aver tra i suoi popolari predicato la beneficenza di Scipione, se ne venne in aiuto de’ romani con mille quattro cento cavalli. Ma mio avo o bisavo, come si sia, per sola vertú e per amor di Dio s’astenne da giacersi con la bella giovanetta; cosa che forse non fareste voi, messer Giacomo mio. – A questo tutti di nuovo risero e dissero che la signora aveva una gran ragione. E parlandosi pur di questa materia, messer Nicolò Giustiniano, cittadino genovese, giovine costumatissimo, non si scostando dai ragionamenti che si facevano, entrò a ragionare e, pigliata l’opportunitá, narrò una bellissima istorietta avvenuta a Genova, la quale a tutta la brigata molto piacque. Onde io, che a quei ragionamenti era presente, la scrissi e riposi per alora tra l’altre mie scritture. Ora riveggendo gli scritti miei cosí in prosa come in versi, m’è venuta questa istorietta a le mani ed holla trascritta per metterla con le mie novelle. E sovvenendomi di voi, m’è paruto farvene un dono, ancor che sia picciolo al desiderio de l’animo mio, che vorrebbe di molto maggior cosa onorarvi. Ma che altro posso io donarvi che carta ed inchiostro? Tanto piú volentieri poi ve la dono, quanto che il signor Paolo Battista Fregoso vostro figliuolo, giovane di molta aspettazione, piú volte m’ha pregato che per ogni modo una de le mie novelle volessi donarvi. Questa adunque; che ne la cittá e patria vostra a persone genovesi avvenne, degnerete accettare con quella vostra singolar cortesia ed umanitá che a tutti vi rende riguardevole. State sana.