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Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XII

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Terza parte
Novella XII

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Arguta invenzione d’un eccellente predicatore per confutare


una grandissima menzogna d’un altro predicatore.


Noi siamo, padri miei osservandi, in questo amenissimo luogo per luogo per goder questa frescura tanto odorata e soave, appo questo limpidissimo ruscello; ove, assisi su questa minutissima erbetta sparsa di tante varietá di colori, sí dai fiori che ella produce come anco dai, caduti da questi arbuscelli, naranci, limoni, cedri ed altre odorate piante, penso che non sará se non bene d’intrattenersi con alcuno onesto e piacevol ragionamento. E mentre che il reverendissimo generale con l’inquisitore passeggia sotto quelle grate ombre, non pare a me che debbiamo noi giocar a la mutola, perché di leggero il sonno ci chiuderia gli occhi. Onde veggendo che nessuno di voi vuol ragionare, io buona pezza con una piacevole novella v’interterrò. Sapete tutti che l’ordine nostro ne la materia de la concezione de la gloriosa Reina del cielo, la purissima vergine Maria, s’accosta a l’autoritá de la Sacra Scrittura e dei santi dottori de la Chiesa, come dottissimamente ha ricolto il padre generale nel suo libro De la Concezione, ove con piú di quattrocento autoritá e molte ragioni, cosí de la divina Scrittura come dei santi dottori, prova la nostra openione esser catolica. I padri mò di San Francesco, dico questi moderni, sono d’altra openione. Onde, essendo io assai giovinetto, avvenne che predicando un frate minore in Favenza, che deveva aver studiato la cronica de le fole e la bucolica in cucina sul melone, disse publicamente che un papa, per determinar questa controversia, ordinò che a Roma l’uno e l’altro ordine facessero i loro capitoli generali e che conducessero i piú dotti frati che avessero, a ciò che dinanzi a lui e a tutti i cardinali questa questione si disputasse per farne una autentica determinazione. Diceva adunque questo gran supputatore di tempi che i franceschini condussero il dottor sottile Scotto e i domenichini fra Tomaso d’Acquino, ne la cui dottrina molto confidavano. Si venne a la presenza del papa, e, disputando questi dui insieme, fece Scotto certi argomenti i quali non seppe lo Acquinate discioglier giá mai; onde il papa con i cardinali diede la diffinitiva sentenza contra i frati predicatori. E su questa sua favola disse il frate minore mille pappolate da ignorante com’era. Predicava alora a Favenza nel convento nostro di Sant’Andrea fra Tomaso Donato, patrizio veneziano, predicator eloquente, dotto e graziosissimo, il quale per la sua dottrina e integritá di vita fu fatto patriarca di Vinegia, e credo che ancora viva. Egli, avendo inteso ciò che il zoccolante aveva il dí de la festa della Concezione predicato, stette assai dubio di ciò che fosse da fare. Sapeva egli molto bene che quando san Tommaso morí, Scotto ancora non era nato; ma non gli pareva dever portar le croniche in pergamo e col testimonio degli scrittori far parer il zoccolante bugiardo. Tuttavia perciò gli dispiaceva che i favenzini restassero con sí falsa favola in capo; onde si diede a fantasticare e chimerizzare che via tener devesse a confutar sí manifesta menzogna. E piú e piú modi avendo pensato, caddegli in animo una chimera vie piú artificiosa che la bugia del zoccolante, conchiudendo tra sé che erano da usare quelle medesime arme ad espugnare l’avversario, che egli in oppugnare san Tomaso aveva recate in campo. Cosí deliberò con una ingegnosa e piacevole invenzione, ancora che falsa, di vincer il suo nemico. Tenne adunque modo che per la domenica seguente fosse particolarmente invitata la maggior parte dei cittadini e popolari di Faenza, perché era per dir certe cose meravigliose e di gran piacere. Concorse tutta Favenza la domenica a la predica. Ascese fra Tomaso in pergamo e brevemente espose l’evangelio che il dí correva; poi disse: – Faenzini miei, il giorno passato de la nostra Donna il padre zoccolante predicando, come molti di voi sapete, predicò che in Roma Scotto aveva confuso, disputando, san Tomaso, e che il papa circa la Concezione aveva giudicato in favore de la sua religione; il che essendomi riferito, conobbi che egli di gran lunga s’ingannava e che male aveva studiato. Onde mi diedi a voltare e legger le vere croniche, ne le quali tutte le disputazioni giá fatte in qual si voglia materia sono registrate, e tanto voltai e lessi che trovai quando Scotto disputò con san Tomaso. Lessi il tutto con sommissima diligenza a parola per parola, e trovai tutto il contrario di ciò che il zoccolante v’ha predicato. Ché in vero pur assai mi meraviglio come egli abbia avuto ardire di predicar sí manifesta bugia in questa vostra magnifica cittá; ed a ciò che voi sappiate come fu fatto quel conflitto disputatorio, ascoltatemi, ché io precisamente vi dirò il tutto. Devete adunque sapere, faenzini miei, che essendo congregati i frati minori e i nostri ai capitoli generali a Roma, e disputando a la presenza del sommo pontefice e cardinali Scotto e san Tomaso, che Scotto a le ragioni e autoritá de la sacra Scrittura, a le determinazioni dei concilii generali ed a l’autoritá di tanti solenni e santi dottori che san Tomaso gli allegò, non seppe mai risponder cosa che volesse. E poi che Scotto confuso si taceva, volle il papa che altri frati minori si facessero innanzi. Ma chi sarebbe stato oso, ove Scotto non era bastante a rispondere, di farsi innanzi? Il perché, il papa fece loro intendere che, al primo concistoro che faria, voleva publicar una bolla in favore de l’ordine predicatore. Non potendo i minori comportar questo, fecero circa trecento d’essi una congiura d’ammazzar il papa, il quale non istava con tanta guardia come oggidí si fa. Entrarono per questo una notte con silenzio in palazzo, e giunsero alla camera papale senza esser sentiti. E volendo con suoi contrafatti ferri aprir l’uscio, furono sentiti, e cominciarono i camerieri a gridare: – Ladri, ladri! arme, arme! – Il papa per l’uscio di dietro si salvò in castello. Corsero molti al romore, cosí soldati come altri, di modo che quei frati quasi tutti furono presi e confessarono che quivi erano iti per ammazzare il papa, onde furono sentenziati a le forche. Fu molto supplicato al papa che non volesse far quella vergogna a tanto ordine; il perché, mosso a pietá, se gli fece venire tutti innanzi e disse loro: – Io vi dono la vita, ma voglio che portiate cinta una fune, a ciò che cascando piú in simile misfatto non bisogni cercare corde per impiccarvi. Non toccherete piú danari, a ciò non possiate corrompere persona, ché mi pare impossibile che non abbiate corrotto alcuni de’ miei. Porterete anco i zoccoli del legno, a ciò siate sentiti quando andate a torno, – ché, faenzini miei, devete sapere che il padre san Francesco non comanda ne la sua regola che non tocchino danari, e meno che portino zoccoli. – Erano alcuni frati minori a questa predica, ai quali voltatosi, fra Tomaso sorridendo disse: – Padri miei, voi avete sentito la mia istoria: andate e dite al vostro predicatore che ogni volta che egli autenticamente mi mostri che mai Scotto non dico disputasse ma vedesse san Tomaso, che io m’obligo fargli veder tutto il contrario di quanto falsamente ha predicato. – Detto questo, fra Tomaso, data la benedizione, smontò di pergamo. Fu per questo sermone appo gli uomini giudiciosi tenuto che fra Tomaso, ben che mordacemente avesse morso l’ignoranza del zoccolante, nondimeno l’aveva trattato come l’ignoranza di quello aveva meritato, e scoperta molto garbatamente la pecoraggine e poco intelletto di quello, il quale ne la pignatta de la carne aveva trovato che Scotto era al tempo d’Acquinate, essendo certo che dopo la morte di san Tomaso nacque esso Scotto. Il quale pose ogni studio per impugnar l’opere di san Tomaso; ma venne poi il Capreolo tolosano, che dottissimamente tutti gli argomenti de lo Scotto risolse. Onde è nato ciò che proverbialmente si dice: «Se Scotto non avesse come fanno le prune scottato, il Capreolo non averebbe come un vivo e snello capretto saltato».


Il Bandello al signor Elia Sartirana salute


Meravigliosa cosa esser suole lo stimolo de la vergogna, quando egli s’abbatte a traffigere persona che il disonore tema, perciò che assai sovente si sono visti degli uomini che, caduti in qualche vituperoso errore, non hanno potuto sofferire la luce degli altri uomini e, da estrema doglia vinti, hanno per minor male eletta la morte. E questo assai piú di leggero avviene a le donne, per esser il sesso loro piú del nostro debole, e temendo elle ordinariamente piú la vergogna che gli uomini non fanno. Erano molti uomini da bene ne l’amenissimo giardino di messer Ambrogio…, patrizio milanese, uomo per le lettere ed integritá di vita famoso; e ragionavano d’un povero giovine che quei dí s’era, non so perché, in Porta orientale impiccato. E di tal maniera ragionandosi, il nostro dottissimo messer Antonio Tanzio disse una novelletta nel regno di Napoli accaduta, la quale io ho scritta e a voi donata, a ciò che possiate conoscere che di voi mi sovviene. Essendo poi stata detta nel giardino bellissimo di messer Ambrogio, vostro cognato, non essendo egli alora in casa, vi piacerá essa novella communicarli, sí perché molto m’ama, come anco che per esser uomo di buone lettere e tanto umano quanto altro che in Milano io conosca, so che averá piacere di vederla, non perché ci sia cosa del suo bell’ingegno, ma perché è da me scritta. State sano.