Novelle (Bandello)/Terza parte/Novella XVIII

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Terza parte
Novella XVIII

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Rosimonda fa ammazzare il marito, e poi se stessa e il secondo marito


avvelena, accecata da disordinato appetito.


La bellissima e veneranda antica scrittura in autentica forma compilata che qui ha il signor Gian Lodovico di Cortemaggiore, marchese Pallavicino, fatta leggere, ove chiaramente si comprende la sua nobilissima schiatta dei marchesi Pallavicini esser dai longobardi discesa – che non solamente in Lombardia le piú onorate famiglie hanno generate, come sono i nostri Vesconti, noi Landriani, Vicedomini, Valvassori, Cattanii e altre assai, e in Toscana i marchesi Malaspini, e in Friuli i Savorgnani e medesimamente i conti da Canossa, dei quali fu la gloriosa contessa Matelda, in Toscana e in Lombardia e nel Patrimonio potentissima, ed altresí la casa da Este; ma per tutta Italia sparsero in molte schiatte i semi de la loro nobiltá, – e l’essersi parlato d’Alboino loro re, m’invita a narrarvi l’immatura sua morte e la vendetta che in breve tempo ne seguitò. Devete adunque sapere che, dopo cacciati i goti de la possessione de l’Italia, Narsete, patricio ed uomo di grandissima stima, che molto vi s’era con mano e col conseglio affaticato, reggeva con prudenza e gran sodisfazione dei popoli essa Italia. Ma da Sofia moglie di Giustino imperadore con vituperose minaccie sdegnato, scrisse al re dei longobardi Alboino, col quale ne la guerra dei goti aveva contratta domestichezza grandissima, – e alora esso Alboino regnava in Pannonia, – che venisse ad insignorirsi de l’Italia. Avevano prima i longobardi, venuti da Scandinavia, isola de l’Oceano, occupato il paese vicino al Danubio, che era dagli eruli e dai turingi abbandonato, quando Odoacre loro re gli condusse in Italia ed occupò Roma. Quivi regnarono i longobardi fin che il regno loro pervenne a le mani del detto Alboino, uomo crudele, audace, di costumi efferati e barbari pieno, e ne le cose de la guerra molto isperimentato. Egli, passato il Danubio perché Comondo re dei gepidi aveva rotte le convenzioni che erano tra Turisindo suo padre e i longobardi, fece con loro fatto d’arme e gli vinse, di modo che pochissimi de’ gepidi restarono vivi e Comondo anco, loro re, fu morto. Alboino, fatto pigliare l’orribil teschio di Comondo, del cranio di quello ne fece far una coppa, ne la quale, essendo d’oro guarnita, beveva ai conviti solenni. Si trovò ne la preda ostile, tra le donne, Rosimonda figliuola di Comondo, fanciulla oltra ogni credenza bellissima, la quale, veduta da Alboino, fu da lui per moglie sposata, essendogli poco avanti morta Clodsuinda, sua prima consorte e figliuola di Clotario re di Francia. Essendo adunque chiamato Alboino in Italia, come s’è detto, da Narsete, deliberò di venirvi; e chiamati in sua aita i sassoni, negli anni di nostra salute cinquecento sessanta otto, ai dui d’aprile, partí di Pannonia, che quarantadui anni avevano i longobardi posseduta, e quella agli unni Alboino concesse, con patto che se i longobardi tornavano indietro, riavessero i loro campi. Onde la Pannonia fu chiamata poi Ungaria. Passò Alboino l’Alpi ed entrò in Italia per il paese del Friuli, avendo seco i longobardi le mogli e figliuoli. In quei tempi era la misera Italia disprovista d’arme e di capitani, perché Narsete s’era ritirato a Napoli, privato de l’amministrazione, e in suo luogo era successo Longino, molto a quello ne l’arte militare e nel governo dei popoli inferiore. Il perché, Alboino in un tratto s’impadroní del Friuli, e di quello fece duca Gisulfo suo nipote, al quale diede molte nobili famiglie longobarde per abitare quei luoghi. Dopoi soggiogò tutto il paese che ora si dice la Marca Trivigiana, eccetto Padova e Monselice: Mantova non puoté pretendere. Prese lo stato di Milano e tutta la Liguria, da Roma e Ravenna in fuori, ove dimorava Longino, e alcune castella nel lito del mare edificate, quasi di tutto il resto si fece signore; di modo che a l’imperadore greco restò solamente una parte del reame di Napoli e alcuni altri pochi luoghi. Era il barbaro re, come s’è detto, crudelissimo e fuor di misura superbo, presumendo tanto di se stesso che gli pareva, per l’acquisto sí subito di tanto paese fatto, che il dominio non che de l’Italia, ma di tutta Europa non gli devesse poter mancare; onde lasciata la cura de la guerra, si diede a l’ozio e a celebrar conviti. Ritrovandosi adunque tra l’altre volte un giorno in Verona, che per lo sito suo molto gli piaceva, ordinò un grandissimo convito, al quale per sua commessione furono invitati i primi uomini e donne dei longobardi. Attendeva il re Alboino a mangiar bene e ber meglio, invitando questo e quello a far il medesimo, di maniera che per lo superfluo vino divenuto piú del solito allegro, per non dire ebro, si fece recare la tazza fatta del capo di Comondo suo suocero; il che subito fu fatto. La fece il barbaro re empire di buon vino, e poi che in mano l’ebbe, comandò ad uno suo scudiero, che di coppa lo serviva, che a la reina la portasse, dicendo: – To’ qui: prendi questa coppa e dálla a Rosimonda mia moglie e dille che allegramente beva con suo padre. – Sedeva Rosimonda ad un’altra tavola con le donne per iscontro al marito, e sentí la voce di quello, perciò che assai forte aveva gridato, e di dentro grandemente si conturbò. Il perché, piena d’ira e di mal animo contro il re, ascoltò di quello l’ambasciata. Prese nondimeno la coppa in mano e con nausea e sdegno a la bocca se la pose mostrando di bere, e a lo scudiero, celando quanto piú le era possibile la sua mala contentezza, poi la restituí. Non poteva la reina sofferire che il re a la presenza di tutta la nobiltá longobarda le avesse non solamente ricordata la morte del padre, ma per piú disprezzarla avesse voluto che bevesse ne la tazza fatta de la testa di quello; onde restò dopo questo, non potendo vincere l’ira, piena cosí di mal animo contra Alboino, che a lei non pareva di poter vivere né mai aver contentezza in questo mondo se di sí grande ingiuria altamente non si vendicava, sensibilmente ognora sentendo che le parole del re di continovo dolore la trafiggevano e come un mordace e rodente verme le radici del core miseramente le rodevano. Ma che! ella, vinta da acerbitá de la penace e assidua passione che requie alcuna le concedeva giá mai, deliberò tra sé‚ se bene fosse stata sicura di morire, di far per ogni modo che il marito morisse. Cosí fermatasi in questo proponimento ed altro tutto il dí non facendo che farneticare e chimerizzare come si potesse contra il re vendicare, non sapeva imaginarsi modo che le sodisfacesse. E mentre che d’uno in altro pensiero tutto ’l dí con mille ghiribizzi e castella ne l’aria si raggirava, non si smovendo mai dal suo fiero proposito, avvenne che la fortuna le mise innanzi agli occhi il modo che molto a proposito le parve e sicuro per essequire l’intento suo e far al re ciò che egli a Comondo fatto aveva. Era tra i cortegiani d’Alboino un giovine longobardo, figliuolo de la donna che lattato esso re aveva e nodrito, e ne le battaglie dava l’elmo al re, il quale Elmige da alcuni si chiama ed altri Almachilde lo dicono. Ed ancora che fosse giovine, era nondimeno molto stimato, avendo sempre dimostro ingegno e valore. Con questo tanto seppe la reina operare e sí lo persuase, che egli consentí ne la morte d’Alboino suo re. Ma perché dubitava che solo non potrebbe a tanta e sí perigliosa impresa dar fine, essortò la reina che inducesse Perideo, uomo di tutti i longobardi fortissimo, che a cotal effetto volesse per compagno ritrovarsi. Ma non volendo Perideo a tanta sceleraggine acconsentire, e dubitando Rosimonda che egli il tradimento non discoprisse, sapendo che con la donna che le vestimenta sue governava spesso si giaceva, la indusse che per la vegnente notte desse l’ordine a Perideo di giacersi seco. La reina in luogo de la sua donna con Perideo si giacque. Dopo il commesso adulterio Rosimonda a l’adultero si diede a conoscere, e a lui, che spaventato era, rivolta disse: – Tu vedi, Perideo, ciò che contra l’onore d’Alboino hai commesso, e che pena ti si deve. Perciò disponti o d’ammazzar lui o vero esser da lui crudelmente anciso. – Perideo, conosciuto l’inganno, ciò che volontariamente non aveva voluto promettere, sforzato da la paura promise. Non contenta adunque la reina d’ammazzar il marito, prima che morir lo facesse, volle mandarlo in Cornovaglia. Soleva Alboino da merigge corcarsi in letto e dormire. Il che un giorno facendo, comandò Rosimonda che ciascuno si ritirasse e non si facesse in palagio strepito, perché il re si sentiva indisposto e voleva riposare. Levò destramente fuor de la camera tutte l’armi del re, eccetto la spada, la quale, a ciò che il marito non se ne potesse prevalere, strettamente con il fodro collegò e al capo del letto lasciò. Poi intromise la scelerata donna dentro la camera Elmige e Perideo armati. Destatosi Alboino e conosciuto il manifestissimo periglio, diede di mano a la spada, ma trovandola in guisa legata che sfoderare non la poteva, prese uno scanno e per un pezzo si diffese. Ma che poteva egli disarmato contra dui armati e gagliardi, dei quali uno non aveva pari di fortezza? Cosí Alboino, uomo bellicosissimo e di somma audacia, fu morto, e per trama d’una donna morí colui che ne le battaglie contra i nemici sempre era stato fortunatissimo. Il suo corpo in Verona con pianto grandissimo dei longobardi fu sotto una scala del palagio sepolto. Elmige, a cui Rosimonda aveva promesso farlo re e pigliarlo per marito, veggendo che occupare il reame non poteva per la resistenza dei baroni che alora erano in Verona, e dubitando non esser morto come gli altri prencipi fossero venuti per eleggere il re, si trovò molto di mala voglia. E non s’essendo ancora potuto saper chi fossero stati gli omicidi del re, Rosimonda, Elmige e Perideo, con Albisinda figliuola d’Alboino e de la prima sua moglie Clodsuinda, montati in nave, avendo tutti i tesori longobardi presi, a Ravenna navigarono. Quivi molto onoratamente Elmige, che giá sposata aveva Rosimonda per moglie, con lei e tutta la compagnia fu da Longino ricevuto e dentro la cittá in buono albergo alloggiato. Mentre che in Italia queste cose avvennero, Giustino imperadore in Costantinopoli se ne morí, a cui successe ne l’imperio, da lui adottato, Tiberio, il quale guerreggiava contra persiani – e se la fortuna prospera che ebbe ne le parti orientali avesse avuta in Italia, sarebbe stato imperadore felicissimo; – onde non puoté attendere a la liberazione de l’Italia, che quasi tutta era dai longobardi occupata. Longino, conoscendo che Tiberio non era per curare le cose de l’Italia, cominciò a sperare di potersi impadronire di quella, e col mezzo di Rosimonda acquistar la piú parte dei longobardi, essendo ella da molti di loro amata e tenuta in estimazione, e tanto piú sapendo quella seco tesori infiniti aver portati. Conferí adunque con molte parole l’intento suo con Rosimonda, e sí bene la persuase che ella promise d’avvelenare Elmige e prender lui per marito. Eccovi che cervello di donna! Non le era paruto far assai a romper il nodo matrimoniale e sottomettersi in adulterio ad un semplice privato armigero; non le bastava d’avere con inganno fatto ammazzare Alboino suo marito, rubati tutti i tesori regii e menata via la figliuola del re; se anco il secondo marito, benemerito di lei e che a tanto rischio s’era per quella posto, senza alcuna colpa di lui non avvelenava. Ma io non voglio ora fare l’ufficio del satirico, e tanto meno che io veggio la signora Antonia Gonzaga, moglie del signore cavaliero, e l’altre signore che qui sono guardarmi con mal occhio; ed io non debbo a modo alcuno dispiacerle, essendo sempre stato mio costume d’onorar le donne e far loro ogni piacere. Preparata adunque Rosimonda una coppa di vino avvelenato, aspettò che Elmige un giorno fuor del bagno se n’uscí, ed essendo entrato in camera, ella con la coppa in mano quella gli porse e disse: – Rinfrancate, marito mio caro, il languido corpo, ché io v’ho preparato questo salubre beveraggio – Egli, che sete aveva, presa la tazza, gran parte del vino tracannò; ma sentendosi andar sossopra lo stomaco e tutte l’interiore conturbarsi con fierissimi dolori, giá presago del tradimento, con turbato viso, presa la spada in mano, a Rosimonda disse: – Rea e malvagia femina, che venga dal cielo fuoco che t’arda! O tu bevi il rimanente di questo vino col quale avvelenato m’hai, od io con questo coltello come meriti t’ancido. – Ella, conoscendo l’inganno suo essere scoperto e non essendo in camera chi aita le porgesse, e convenendole ad una via o ad un’altra morire, presa la coppa, il restante del vino inghiottí, ed in breve spazio di tempo amendui se ne morirono. Longino, perduta la speranza di farsi re, presi i tesori, quelli con Albisinda figliuola d’Alboino a Tiberio in Constantinopoli mandò. Affermano gli istorici che anco vi fu portato Perideo, il quale un giorno in presenza de l’imperadore e di tutto il popolo ammazzò un feroce e grandissimo lione. E temendo Tiberio de la fortezza di quello, gli fece cavar gli occhi. E cosí dei tre omicidiarii d’Alboino nessuno rimase impunito. I longobardi, per non istare senza re, congregati in Pavia, che poi fecero seggio del regno loro, elessero in re Clefi, uomo nobilissimo tra loro, il quale era ne la milizia di grandissima riputazione; ed anco egli, dopo un anno e sei mesi che regnato ebbe, fu da un suo servitore, miseramente scannato.


Il Bandello al reverendo protonotario apostolico


messer Giacomo Antiquario


Erano la settimana passata nel venerabile monistero di Nostra Donna de le grazie in Milano alcuni gentiluomini con voi, e sotto il lungo pergolato de l’orto con alcuni religiosi d’esso monistero tutti vi andavate onestamente diportando. Ed essendosi detto che una volta frate Michele da Carcano, avendo uno dei suoi frati ingravidata una giovane a Cremona e il popolo entrato in furia, montò in pergamo e fece una bella predicazione, e nel fine, rivolto al popolo, disse: – Cremonesi miei, io sempre v’ho stimati uomini sagaci e di perfetto e saldo giudicio, ma io mi trovo molto ingannato de la mia openione. E che miracolo è questo o cosa insolita, che un uomo ingravidi una donna? non vedete voi che tutto il dí questa cosa avviene? e per simil cosa fate tanti romori? Miracolo sarebbe e cosa da far tumulto se la giovane avesse ingravidato il frate, – e con queste chiacchiere pacificò i cremonesi; – su questo si dissero cose assai de la dissoluta vita di molti religiosi e de la poca cura che vi si mette a corregger i loro pessimi costumi; cosí dei preti secolari come regolari od almeno che deverebbero esser regolari. Onde il nostro costumato e dotto messer Gian Giacomo Ghillino, modestissimamente di questa materia ragionando e dicendo che sarebbe ben fatto talora di far come fece a Roma Tiberio imperadore ai sacerdoti de la dea Iside, narrò l’istoria che a quei tempi avvenne ad una gentildonna romana. Ed avendola io secondo la narrazione sua scritta, di quella un picciolo dono ve ne faccio, non avendo io ora altro che donarvi. Ma, se forse ad alcuno paresse disdicevole che a la gravitá degli studi, nei quali tutto ’l dí voi filosofate, queste ciancie non convenissero, e meno a l’integritá de la santissima vostra vita, deve pensare, chi a la ragione ubbidisce, essere alcuna volta di bisogno rallentar il rigore del vivere ed in cose oneste e piacevoli ricrearsi, per esser poi piú forte e gagliardo a le fatiche degli studi. Cosí il padre de l’Academia, Socrate, dopo le continove disputazioni de le questioni difficillime e altissime, dopo la disciplina di tanti eccellenti discepoli che l’udivano, quando era a casa non riputava cosa de la vita sua integerrima indegna, con i piacevoli figliuoli trastullandosi, pigliare di quegli stessi piaceri che la fanciullesca etá si piglia. E quello lodatissimo Scipione Affricano il maggiore, dopo i gravissimi pensieri del governo degli stati, non ischifava col suo Acate Lelio andarsi su per il lito del mare diportando e cogliendo i sassolini minuti e le cocchiglie marine. State sano.