Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LI

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Novella LI - Beffa fatta da una Bresciana al suo marito col mezzo d’un Tedesco, che le scuote il pelliccione, e non seppe usar la sua ventura
Parte III - Novella L Parte III - Novella LII
[p. 117 modifica]al piacevolissimo
messer Francesco Berna


Se tutte le beffe che le mogli fanno ai mariti, e quelle che essi fanno a le donne, fossero scritte a la giornata come accadono, io certamente mi fo a credere che tutta la carta che a Fabriano giá mai si fece, e tuttavia si fa, non sarebbe bastante a riceverle, tante e tali sono. E ben che si veggia questa e quella donna, quale svenata, quale strangolata e quale di veleno estinta, e medesimamente i mariti siano ben sovente col ferro, col laccio e col veleno levati da le scaltrite mogli di vita e con altri occulti inganni morti, non è perciò che ogni dí ancora non cerchino i buoni mariti risparmiar quello di casa e logorare l’altrui, e vedere se quante donne gli capitano a le mani hanno cosa alcuna di piú o di meglio de le mogli loro. Le donne altresí non crediate che stiano con le mani a la cintola, che anco elle non si procaccino quanto ponno di non istar indarno; di modo che si può dire dei mariti e de le maritate quello che degli assassini da strada e dei ladri si dice. Veggiono eglino tutto il dí mozzar il capo a quelli, impiccare questi, squartare ed abbrusciare quegli altri, e le forche per tutto trovano carche di malandrini e malfattori; e nondimeno peggio fanno che prima: argomento, nel vero, che fortemente siano da la natura inclinati al mal operare, ma non giá sforzati, perciò che per noi stessi, volendo, possiamo lasciare le sconce opere e viver politicamente, come a uomini da bene si conviene. Ora, essendovi una bella compagnia di vertuose persone, fuor di Brescia andate a diporto a San Gottardo e quivi desinato, si cominciò dopoi a ragionar de le beffe che da le donne o a le donne si fanno. Onde, essendosi molte cose dette, il gentilissimo e vertuoso messer Antonio Cavriuolo, che cosí bene come io conoscete, narrò a proposito de le beffe una piacevole novella a Brescia avvenuta, che subito fu da me, ché de la brigata io era, scritta. Ora quella vi mando e dono, avendomi voi dal vostro amorevole Brivio quella fatto ricercare. State sano.Novella [p. 118 modifica]LI

Beffa fatta da una bresciana al suo marito col mezzo d’un tedesco
che le scuoteva il pelliccione e non seppe usar la sua ventura.


Io credo che voi tutti sappiate di che maniera fu il saccheggiamento de la nostra cittá fatto da’ francesi poco avanti a la rotta di Ravenna; e perché il caso fu pieno di sangue e di ruberie, né si può senza cordoglio raccontare, io me ne passerò oltra, per non attristar questa lieta e nobile compagnia. Fu adunque alora un contadino, i cui maggiori erano stati massari per lungo tempo d’una de le prime famiglie di Brescia, e sí bene era loro avvenuto, che n’erano diventati ricchi, avendo comprato di molte possessioni in contado ed una agiata casa in Brescia. E ne la diruba giá fatta essendo stati ammazzati tutti i vecchi de la casa ed anco i giovini, esso contadino, che nel convento dei frati di san Domenico si salvò, restò molto ricco, senza moglie e senza figliuoli. Chiamavasi egli Tura, uomo di grossolani e contadineschi costumi, con un visaggio fatto come quello de’ Baronzi, ed aveva presso a cinquanta anni. Onde, veggendosi ricco e piacendogli stare a la cittá, pensò voler ingentilire e piú non aver cura d’altrui possessioni, ma attender a le sue e darsi buon tempo. Ridotto ne la cittá, faceva mezzo il gentiluomo ed in casa viveva assai bene, e spesso andava fuori a vedere come da’ lavoratori erano le possessioni sue coltivate. Era in contado una gentildonna molto giovane, che, in quei mescolamenti del sacco de la cittá essendole stato anciso il marito, era rimasta vedova ed in casa d’una sirocchia di suo padre s’era ridotta, ove assai poveramente se ne stava, perciò che, quantunque fosse nobile, aveva nondimeno poca dote. A costei pose gli occhi a dosso il Tura e, piacendogli assai, deliberò, se era possibile, d’averla per moglie; il perché ai parenti di lei la fece richiedere. E quantunque il partito fosse disegualissimo, nondimeno il parentado si conchiuse, con questo, che Tura facesse a la vedova di sovradote duo mila ducati. Il che egli fece di grado, e solennemente la sposò ed in Brescia la condusse, ove fece le nozze assai onorevoli. A la donna piaceva la roba, ma non il marito, perché ella era assai appariscente e Tura era bruttissimo ed attempato. Ella era poderosa e gagliarda, di pel rosso e tutta disposta a straccare dieci buon compagni, non che il Tura, che non era il piú gagliardo uomo del mondo e molto da poco si mostrava nel fatto de le [p. 119 modifica]donne. Onde, veggendola festevole e baldanzosa, e che in letto averebbe voluto far altro che dormire, parendogli a tutte l’ore che qualunque persona passasse per la via gliela rubasse, entrò in tanta gelosia che non ardiva da lei giá mai partirsi. Ma, che era il peggio, ella stava il piú del tempo raffreddata perché dal marito era mal coperta, di modo che faceva di grandissime vigilie; e ben che col Tura non si osasse rammaricare, tuttavia tra sé molto se ne trovava di mala voglia. Volentieri si sarebbe Caterina, (ché cosí la donna aveva nome), gettata a la strada per guadagnar alcuna cosa; ma tanta era la solenne guardia che il marito le faceva, che non le permetteva che si potesse provedere. Egli giá per sospetto aveva mutati tre famigli ed alcune massare licenziate; ma, non potendo senza famigli fare, andavane cercando uno a suo modo. Essendo adunque un giorno in porta, vide un giovine tedesco, che venuto era in Italia per cercarsi padrone, e, quantunque fosse assai appariscente, era perciò il piú sempliciotto che si fosse, senza una malizia al mondo. Come Tura lo vide cosí, s’avvisò costui esser uomo per quello che egli lo voleva; onde gli domandò donde veniva e che andava cercando. Guglielmo, (cotale era il nome del tedesco), alora rispose: – Messere, io vengo da Verona, ove sono stato piú d’un anno; ed essendomi morto il padrone, io ne vado cercando un altro per sostener la vita mia, perché mio padre ne la Magna era povero e non mi lasciò al suo morire cosa alcuna. – E che sai fare? – soggiunse il Tura. – A cui Guglielmo: – Messere, io so attendere ai cavalli, far la cucina, far del pane; bisognando, sarei staffiero, e farei de l’altre cose e degli altri servigi, se insegnati mi fossero. – Seguí poi Tura: – Dimmi, cavalcasti mai donna alcuna? – Oh, messere, voi mi beffate! – rispose egli. – Che dite voi? io giá mai non vidi che le donne si cavalcassero. Si cavalcano elle? Se qui cotesto si costuma e mi sia mostro come si fa, io imparerò e farò secondo la costuma del paese. – Altre assai interrogazioni gli fece Tura, a tutte le quali da sciocco rispondendo, giudicò egli che il giovine senza malizia fosse, e riputandolo molto a suo proposito, seco del salario convenne ed in casa lo fece entrare. Non istette Guglielmo quindici giorni col Tura, che da chiunque praticava con lui fu scorto per lo piú semplice e nuovo augello del mondo; il che infinitamente a Tura piaceva, e benediceva il punto, e l’ora ed il giorno che il tedesco gli era venuto alle mani. Trovò poi che sapeva benissimo far tutto ciò di che vantato s’era; il che pur assai gli piacque e ringraziava Dio di cosí buona ventura. E parendo a lui che la moglie a questo tedesco [p. 120 modifica]non si devesse sottoporre giá mai, sí perché non era il piú netto e polito uomo del mondo, ché anzi che no teneva un poco del caprino e sempre era unto e pieno di succidume, ed altresí perciò che aveva questa buona parte, che ciò che sentiva o vedeva, scioccamente e da scemonnito ridiceva, cominciò a uscir di casa. Come poi era ritornato a casa, da Guglielmo intendeva quanto s’era detto e fatto, e grandissimo piacere prendeva de la sciocchezza e semplicitá di quello. Essendosi Tura forte assicurato, perché era il tempo del raccolto, deliberò d’andar per alcuni pochi dí fuori a le possessioni, e lo disse a la moglie, raccomandandole l’onore de la casa. Partito che fu Tura, la moglie si propose d’avventurarsi col tedesco e vedere, se possibil era, che quello supplisse ai mancamenti del marito, che era gran tempo che il giardino non l’aveva innacquato. Dopo desinare Guglielmo ordinava la cena e, perché il caldo faceva grande, stava in camiscia a torno al fuoco. La donna aveva mandato la fante a le fontane a lavar i panni. Il perché, essendo fermato l’uscio de la casa ed ella sola con il tedesco in quella, si pose seco a motteggiare e dargli impaccio. Il domandò poi se mai aveva avuta nessuna innamorata e fatto buon tempo con quella. Ma Guglielmo, non intendendo ciò che questo si volesse dire, rideva dicendo: – Madonna, in buona fé, io non so che cosa sia innamorata. Se me lo insegnate, io vedrò se è cosa buona. – La donna non ardiva apertamente invitarlo, ma gli faceva carezze, gli tirava i capegli, il naso, il pizzicava e con tutte e due le mani gli prendeva le guancie e fingeva volerlo morsicare, e mille altre cosette seco faceva. Ma il tedescone ubriaco se ne stava come un bue. Del che Catarina, che tutta era infiammata per il concupiscibile appetito che in lei fieramente era destato e piú raffrenar non lo poteva, deliberò con inganno far il caso suo e per ogni modo provare ciò che Guglielmo nel fatto delle donne sapesse fare. Sedeva a caso esso tedesco vicino al fuoco, ove, o fosse per lo caldo de la stagione o del vino o del fuoco, o pure perché la donna seco scherzato avesse, erasigli svegliato tale che dormiva, e giú per le coscie stava a pendolone un gran baccalare, che faceva come il battaglio quando suona la campana. Questo veggendo la donna, fece vista di cercare una cintola e a lui domandò se veduta l’aveva. Rispondendo egli che no: – Vedi, – disse ella, – non mi dir bugie, imperciò che, se tu l’averai involata, io ti metterò in prigione. – Mentre che ella fingeva di cercarla, non rivolgeva giá mai l’occhio dal pendolone, che tra le gambe di Guglielmo trescava. Ed a quello avvicinatasi, avendo la cintola [p. 121 modifica]ascosa in mano, con quella prese il lusignolo e disse: – Ecco, ecco il ladrone, che m’ha la mia cintola rubata. – Madonna, – disse alora Guglielmo, – io non ho mai sentito né cosa veruna ne so. – Taci, taci, – rispose Caterina, – ché io l’ho còlto e voglio che faccia la penitenza, il ribaldone. – Fate ciò che vi pare, madonna, – disse Guglielmo, – pur che non me lo tagliate via per impiccarlo come si fa ai ladri, perché io non potrei poscia pisciare. – Non puoté fare la donna che non ridesse de la sciocchezza del suo drudo, e lo racchetò dicendo: – Io non voglio fargli altro male se non metterlo in prigione, e quivi ce lo terremo fin che quattro o cinque volte pianga il suo peccato. – Sia quello che vi piace, – rispose Guglielmo. – E cosí col ladro in mano la donna se n’andò in camera; ove, tiratosi il tedesco a dosso, rinchiusero il ladro in una oscura ma piacevole, per quello che Guglielmo diceva, prigione, ove tanto il dimenarono, apersero e serrarono, che cinque volte il fecero dolcemente piangere il suo fallo. E parendo a messer Guglielmo che quella fosse prigione dilettevole, disse: – Madonna, sempre che questo ladro vorrete imprigionare, ancora che non vi rubi la cintola, io volentieri lo caccerò in prigione. – Lo avvertí la donna che di questo a Tura nulla dicesse, ed ogni volta che agio aveva imprigionava il ladro. Ma lo sciocco non seppe usar la sua buona fortuna, perché un dí, avendo tre volte ficcato il ladro in prigione e piú del solito essendo allegro e cantando in tedesco, gli domandò Tura la cagione di quella tanta allegrezza. Egli, credendo parlar molto bene, ridendo gli manifestò che una prigione che aveva madonna, (e il tutto gli scoperse), era cagione de la sua contentezza. Tura, piú morto che vivo e forte turbato, lo riprese dicendo: – Io non voleva che tu diventassi bargello ed imprigionassi ladri. Per questo prendi il tuo salario e va via. – Onde il mandò con Dio. E cosí le venture vanno talora a chi non le sa usare.


Il Bandello a la [p. 122 modifica]gentil signora
la signora Ippolita Sanseverina e Vimercata salute


Io questa state passata, per fuggir i caldi che talora sono eccessivi in Milano, me n’andai in villa col signor Alessandro Bentivoglio e con la signora Ippolita Sforza sua consorte, al luogo loro di lá da l’Adda che si chiama «il Palagio», e quivi dimorai circa tre mesi, nei quali ci capitarono di molti signori e gentiluomini ed onorate gentildonne, ai quali, come sapete esser il costume d’essi signori, si faceva gratissima accoglienza, e stavano sempre in onesti e dilettevoli giuochi. Avvenne che un dí ci capitò con una squadra di belle giovani la signora Barbara di Gonzaga contessa da Gaiazzo, tra le quali ci erano la signora Lodovica e la signora Giulia vostre sorelle e la gentilissima signora Maddalena Sanseverina vostra nipote. Quivi nel montare del sole solevano ridursi sotto un grandissimo frascato, tanto maestrevolmente fatto, che i solari raggi in nessun lato passavano e quasi di continovo vi spirava una fresca e dolce òra. Si novellava in una parte, si ragionava di varie cose in un’altra, e si giocava ancora, secondo che a ciascuno piú dilettava un essercizio che l’altro. Alora, essendo sovragiunta cosí nobile e bella compagnia, dopo che si fu desinato, sapendo tutti, come la signora contessa è bella parlatrice e sempre piena di nuovi casi che a la giornata accadono, ci fu chi la pregò che degnasse qualche novella dirne. E perché s’era inteso che in Crema una giovane da marito, essendo gravida ed avendo partorito, aveva la creatura suffocata e tratta in un chiassetto, perché non si sapesse il suo fallo, la contessa, che sentí che di questo caso si mormorava, ci promise di tal materia novellare. Onde senza indugio narrò una crudeltá da una madre verso il figliuolo usata, che tutti ci riempí di stupore e meraviglia ed insiememente di compassione, giurando che detta madre ella conosceva. Io, pregato di scriverla, poco me ne curai, non volendo che fra le mie novelle fosse veduta. Ora, astretto da voi che desiderate sapere come il caso fu, non ve l’ho potuto negare, pensando anco che non istá male, tra le cose varie, che simili accidenti ci siano. A voi dunque la detta istoria mando, ché, avendomela voi con tanta instanzia richiesta, convenevole m’è