Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte III/Novella LXV

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Novella LXV - Una scimia, essendo portata una donna a seppellire, si veste a modo della donna quando era inferma, e fa fuggire quelli di casa
Parte III - Novella LXIV Parte III - Novella LXVI

[p. 193 modifica]casa; e cosí la ritennero. E lavorandosi dai muratori, gli impose che quivi ove era sepellito il morto, non cavassero; e questo tante volte e sí efficacemente gli imponeva, che uno di loro entrò in sospetto che alcuna cosa lá non fosse ascosa. Il perché, essendo la povera donna a messa, colui si mise a cavargli e poco andò sotto che trovò il corpo, che ancora a le fattezze e a’ panni fu conosciuto. Il che da la giustizia inteso, fu la donna sostenuta, la quale senza aspettar tormenti confessò il tutto come era seguito. Né le valse ad escusazione sua allegare la malignitá de la vita del marito e le percosse che ogni dí le dava, e provar per tutta la vicinanza ciò che diceva, ché il senato di Roano giudicò che fosse decapitata. Ella, udita la determinata sentenza, si dispose al morire divotamente e da buona cristiana. Poi adunque che si fu al sacerdote con grandissima contrizione confessata, con general compassione di tutti le fu publicamente mozzo il capo. Onde vedete a che malvagio fine la gelosia del marito e l’ira de la moglie l’uno e l’altra condusse.


Il Bandello al gentilissimo

messer Galeazzo Valle vicentino

La novella che questi dí fu narrata ne l’amenissimo giardino dei nostri signori Attellani del piacevolissimo soldato Uomobuono, che da tutti è chiamato Cristo da Cremona, ci fece assai ridere, sí perché ella ha in sé non poco di risibile, ed altresí perché il modo e i gesti che Uomobuono faceva, e il suo puro e nativo parlar cremonese ci incitavano forte al riso. E voi, tra gli altri che quivi si trovarono ad udirla, rideste la parte vostra assai saporitamente. Io, partito che fui dal giardino, subito la scrissi, e pensando a cui donar la devessi, voi subitamente mi occorreste, parendomi che udendola narrare se tanto e sí di core rideste, che descritta e al nome vostro intitolata non vi debbia dispiacere. Ché veramente cotesti animali sono di natura loro molto ridicoli e fanno mille atti piacevoli; ma talora sono malvagi e fastidiosi, come avvenne questi anni passati qui in Milano ad un povero contadino, che forse in vita sua non deveva aver veduto simie giá mai. Aveva il signor Antonio Landriano, che fu tesoriero de lo sfortunato duca Lodovico [p. 194 modifica]Sforza, un simione grossissimo, di volto piú degli altri simile a l’uomo, e lo teneva per l’ordinario vestito con un saione indosso, fatto di panni di diversi colori, e legato nel cortile del palazzo suo. Avvenne che un contadino, venuto da le possessioni del signor tesoriero e non ci veggendo persona se non il simione, pensò che egli fosse alcuno dei servidori de la casa. Era il contadino uomo grossolano e goffo, con un viso piú contrafatto, che pareva proprio un Esopo. Accostatosi adunque al simione, lo domandò ove era il fattore del messere. Il simione, veggendo questo nuovo Squasimodeo, se gli avventò a dosso e lo cominciò con denti ed unghie senza pettine a carmignare. Il povero uomo gli uscí pure da le mani, e pensando tuttavia che egli fusse uomo, gli diceva in loquella ambrosiana: – Al corpo del vermecan, voi potreste ben esser gentiluomo, ma gli atti vostri sono da un ghiottone! Ed ora me n’accorgo, che vi veggio incatenato, ché se me ne fossi prima accorto, io non vi veniva giá appresso. – Ma tornando a la novella, voi, in cambio di questa, mi canterete un dí con la vostra citara a l’improviso di quel soggetto che io vi proporrò, essendo oggidí voi in Italia nel cantare a l’improviso da esser annoverato tra i primi, cosí sète facondo, copioso, dolce e presto al cantare. Un’altra parte avete che a me pare mirabilissima: che da ogni tempo e in ogni luogo sempre sète pronto a dire, non sofferendo d’esser pregato. State sano.


NOVELLA LXV


Una simia, essendo portata una donna a sepellire, si veste a modo

de la donna quando era inferma e fa fuggire quelli di casa.


Al tempo che lo sfortunato duca Lodovico Sforza governava il ducato di Milano, per quanto giá mi narrò mio padre, che era capo di squadra ne la guardia del castello de la cittá di Milano, era in detto castello una simia molto grossa, che, per esser piacevole, ridicola e non far mai danno a nessuno, non si teneva legata, ma, lasciata in libertá, andava per tutto il castello. E non solamente in castello, ma usciva fuori, e ne le case de le contrade Maine, di Cusano e di San Giovanni sul muro, conversava molto spesso. Ciascuno le faceva carezze e le dava de le frutte ed altre cose a mangiare, sí per rispetto del duca, come anco perché era piacevolissima e faceva mille cose e giuochi da ridere, senza far male né morder persona. Ora tra l’altre case ove frequentava piú, era la casa d’una vecchia gentildonna, che [p. 195 modifica]aveva l’abitazione ne la contrada de la parrocchia di San Giovanni sul muro. Aveva la buona donna dui figliuoli, dei quali il primo era maritato, e molto volentieri vedeva la simia andar per casa e sempre le dava alcuna cosa da mangiare, e si prendeva grandissimo piacere de le sciocchezze che la simia faceva, e scherzava sovente seco come con un cagnolino averebbe fatto. I figliuoli, che vedevano la vecchia madre loro, che quasi era decrepita, tanto volentieri trastullarsi con quella bestiola, ne prendevano somma contentezza, come buoni ed amorevoli figliuoli ch’erano; e se essa simia fosse stata d’altri che del signor duca, l’averiano piú che volentieri per ricreazione de la madre comperata. Onde comandarono in casa a tutti che nessuno avesse ardire di batter né molestare la buona simia, ma che tutti le facessero carezze e le dessero da mangiare. Per questo la simia frequentava piú la casa de la vecchia che l’altre dei vicini, perché in quella era meglio trattata e vi ritrovava miglior pastura. Ogni sera però ella tornava in castello al suo consueto albergo e covile. Ora avvenne che la buona vecchia, consumata dagli anni ed anco inferma, cominciò a non uscire di letto. I figliuoli facevano attender a la madre con ogni diligenza, e di medici, medicine e cose ristorative non le mancavano in conto alcuno. La simia secondo il suo solito frequentava la casa, e fu menata ne la camera ove l’inferma giaceva, la quale mostrava d’aver gran piacere di veder essa simia e cominciò a darle di molti confetti. Sapete naturalmente coteste bestiole esser fortemente ghiotte de le cose dolci, e massimamente amar le confetture. Il perché monna simmia era quasi di continovo al letto de la buona vecchia e mangiava assai piú confetto che non faceva l’inferma, la quale, essendo fieramente da la infermitá aggravata e dagli anni consunta, dopo l’essersi confessata e riceuti i santi sagramenti de la Chiesa, la communione e l’estrema unzione, passò a meglior vita. Ora, mentre che la pompa de le essequie si preparava, secondo la consuetudine di Milano, le donne lavarono il corpo de la morta e con la cuffia e bende le abbigliarono il capo come ella era solita, e poi la vestirono. Stette sempre monna simia presente al tutto. Come il corpo fu vestito, fu ne la funebre bara deposto; né guari si stette che la chieresia invitata venne e con le solite ambrosiane cerimonie a torno ad essa bara si celebrò l’officio, e poi, levato il corpo, fu portato a la parrocchia non molto lontana. Mentre queste cose si facevano, monna bertuccia attese a votar le scatole e gli alberelli che erano su la tavola. E poi che a suo bell’agio s’ebbe empito il corpo, le montò uno [p. 196 modifica]strano capriccio in capo, come le suole sovente avvenire de le cose che simil bestie sogliano veder fare. Aveva ella, come v’ho detto, veduto acconciar il capo a la morta vecchia, quando la volevano metter ne la bara. Il perché la buona simia, presa quella cuffia e quelle bende sucide che sovra il letto erano rimase, avendo con quelle di bucato le donne acconcia la vecchia, ella cominciò ad abbigliarsi con le restate bende e cuffia il suo capo, come avevano le donne fatto a la morta, di modo che pareva che cento anni avesse fatto quel mestiero. Indi si corcò nel letto e con sí bel garbo vi si mise, coprendosi, che pareva a punto la madonna che in letto riposasse. Vennero le fantesche di sopra per nettar la camera e dar ordine a le cose che dentro v’erano; ma come videro la bertuccia in letto, parve loro senza dubio veruno veder la vecchia morta. Il perché, fieramente turbate e spaventate, dando grandissimi gridi, con gran fretta scesero a basso e dissero la donna morta esser in letto e stare come prima soleva. Erano di poco ritornati da la chiesa i dui fratelli e seco si trovavano alcuni loro parenti. Di brigata adunque salirono le scale ed entrarono in camera; ed ancora che avessero grand’animo per esser in compagnia, nondimeno a tutti se gli arricciarono i capelli in capo di paura, e subito, stupidi e pieni di grandissimo spavento, discesero a basso. E poi che alquanto la paura cessò, mandarono a chiamar il loro parrocchiano, facendogli intender il caso che era intervenuto. Il buon prete, che era persona da bene e divota, fece dal chierico suo pigliar la croce e l’acqua santa, ed egli con la cotta e la stola al collo se ne venne, cominciando a dir i sette salmi con varie orazioni. Come fu entrato in casa, confortò i fratelli, essortandogli a non temere, perché conosceva molto bene la madre loro giá lungo tempo, e che l’aveva confessata infinite volte e che certamente era donna da bene. Disse loro poi che se in camera avevano veduto cosa alcuna, o che s’erano ingannati nel vedere, come spesso avviene, o che per aventura erano illusioni diaboliche; ma che stessero di buon animo, ché egli benediria tutta la casa e con gli essorcismi costringeria, con l’aiuto di nostro signore Dio, gli spiriti e gli faria andar altrove. Cominciando poi a dire sue orazioni, prese l’aspersorio e con l’acqua santa andava aspergendo per tutto. Cosí col chierico suo salí in alto, non ci essendo persona che volesse o, per dir meglio, osasse accompagnarlo. Come egli fu in camera e vide monna bertuccia che se ne stava in un gran contegno, se gli rappressentò la vecchia morta e seppelita, ed ebbe pure un poco di paura; nondimeno, fatto buon animo, [p. 197 modifica]s’accostò assai vicino al letto e, avendo l’aspersorio, cominciò a dire: – Asperges me, Domine, – e gettar de l’acqua a dosso a la simia. Ella, come vide il prete dimenar l’aspersorio quasi in forma di volerla battere, cominciò a digrignare i denti e battergli insieme. Il che veggendo il domine e fermamente credendo esser alcuno spirito, ebbe grandissima paura e, lasciato cascar l’aspersorio, si mise a fuggire. Ma prima di lui il suo chierico, gettata per terra la croce e l’acqua santa, se ne fuggí giú per la scala con tanta fretta che, cadendo, andò giú a gambe riverse, ed il prete dietro a lui, di tal maniera che anco egli cadette a dosso al suo chierico, e andarono tomando a l’ingiú, come fanno le glomerate anguille nel lago di Garda, dagli antichi chiamato Benaco, quando esse, come dicono i paesani, «vanno in amore». Teneva pur detto messer lo prete: – Iesus, Iesus! Domine, adiuva me. – Al romore che i dui caduti giú per la scala facevano, corsero i dui fratelli con gli altri che in casa erano, ed aggiunsero in quella che essi, mezzo sciancati, erano al fondo tombati. Gli dimandavano i dui fratelli che cosa fosse questa e ciò che gli era accaduto. Pareva il prete col suo chierico, a guardarlo in viso, che fosse stato tratto alor alora fuor di sepoltura, sí era pallido e smarrito; di modo che stette buona pezza che mai non puoté formar parola. Medesimamente il chierico pareva spiritato ed aveva rotto il viso in piú di tre luoghi. A la fine il buon prete, che si sentiva rotta tutta la persona, tratto un grandissimo sospiro, disse tremando: – Oimè, i miei figliuoli, ché io ho visto il demonio in forma di madonna vostra madre! – Monna bertuccia, che era uscita fuori del letto, s’era messa a visitar le scatole dei confetti, e saltellando scese giú da la scala in quello che il domine aveva cominciato a parlare. Ella aveva in capo la cuffia e bende de la vecchia ed involte al corpo alquante pezze di tela. Come fu in fondo de la scala, ella saltò nel mezzo di quelli che quivi erano e fu quasi per farli fuggir di paura, perciò che in effetto in viso rassembrava a la morta vecchia. Ma, riconosciuta da uno dei fratelli, fu cagione che la paura degli astanti si convertisse in riso, e tanto piú gli faceva ridere, che ella in quell’abito cominciò a trescare e saltellare or qua ora lá, facendo i piú strani atti del mondo. Né contenta d’aver trastullato quelli che prima aveva spaventato, ella, saltellando, né si volendo a nessuno lasciar prendere, facendo mille moresche se n’uscí di casa e con quell’abito a torno se ne corse in castello, facendo molto ridere tutti quelli che la videro. E secondo che in casa dei dui fratelli si deveva star di mala voglia, come loro si rapprensentava [p. 198 modifica]la bertuccia con quegli atti ridicoli, erano tutti sforzati a ridere, gabbandosi l’uno e l’altro de la paura che avuta avevano.


Il Bandello al magnifico messer
Agostino Aldegatto


Egli è pur mirabil cosa il considerar la malignitá di molti uomini, i quali in modo alcuno non vogliono astenersi da far le sconce e vituperose opere, ancor che tutto il dí vedano uno esser impiccato; uno, tagliatogli il capo, esser smembrato in quattro parti; altri esser abbrusciati ed altri col tormento crudelissimo de la rota esser fatti penare, morendo miseramente, ed altri con mille altre specie di suplicii perder la vita, che a noi deveria sovra ogni tesoro terreno esser cara: il che c’insegna la natura, la quale ci spinge con tutti i modi che a noi sono possibili. Quella debbiamo conservare, come gli animali senza ragione creati fanno, i quali piú che ponno, per non lasciarsi prendere od ammazzare, con quelle armi si difendono che loro la natura ha concesso. Era stato, non è molto, in Tolosa da quel senato fatto squartare uno di sangue gentiluomo per suoi misfatti che commessi aveva; il quale in vero aveva vituperosissimamente tralignato, per i suoi pessimi costumi, da l’antica nobiltá dei suoi maggiori. Del caso di costui ragionandosi in una buona compagnia di molte persone, vi si ritrovò uno mercadante inglese, per nome chiamato Edimondo Eboracense, il quale praticava molto spesso in Francia e massimamente a Bordeos, ove ogni anno, quando è pace tra Francia ed Inghilterra, suole venire per comprar vini e condurgli a Londra. Egli in persona vien qui su l’Agenense a Bassens, al Porto Santa Maria, e qua intorno in queste contrade, ove si ricogliono i piú generosi vini de l’Aquitania, e gli va scegliendo a modo suo. Qui adunque narrò egli certe magre astuzie, che volle usar un mercadante di Santonge, e la punizione che ne guadagnò. Ora essa novella ho voluto, al nome vostro intitolata, donarvi, a ciò che per effetto conosciate che io di voi e di tante vostre cortesie a me usate sono ricordevole. E veramente la natura v’ha fatto tale, quale a me pare che ogni leale e da bene mercadante deveria sforzarsi d’essere. Feliciti nostro signor Iddio tutte le cose vostre. State sano.Novella