Novelle (Bandello, 1853, IV)/Parte IV/Novella XII

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Novella XII - Eccelino I da Romano, cognominato Balbo, rapisce una giovane promessa a un suo nipote: onde grandissimi incendii morte di uomini, e rovine di molte castella ne seguirono
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[p. 313 modifica]doglia e quasi isvenne. Del che accortasi la signora, li disse tante ragioni che molto l’acquetò e levò fora de la fiera passione che sofferiva. Lamentandosi poi del marito, che sì poco anzi niuno conto teneva di lei, e dicendo che assai sovente lo sdegno vie più che l’amore è potente e induce le donne che hanno il core generoso a fare di quelle cose che non deveriano, sì bene e accommodatamente seppe adornare il caso suo, che il dolente Vitaliano le disse che ella avea gran ragione se al signore rendeva pane per fogaccia. Adunque soggiunse la signora che, se egli aveva intelletto, che devea disporsi a trattar Dianora come ella trattava lui, ed essendo tutti offesi, rendere la pareglia agli offensori. In fine, essendo la donna assai bella e leggiadra, tutti dui si accordarono insieme di fare la vendetta, con le arme de la sorte che senza ispargimento di sangue in uno letto amorosamente si usano. E così, messo ordine che celatamente insieme si potessero trovare, con piacer grandissimo de l’una e l’altra parte, lungo tempo insieme, col mezzo di una cameriera de la donna, goderono de li loro fortunati amori.


Il Bandello al magnifico e valoroso cavaliere


il signor Benedetto Mondolfo salute


Era questi dì la incomparabile eroina, la signora Elisabetta Gonzaga, già consorte de la buona memoria del duca Guido Ubaldo di Urbino, alquanto del corpo indisposta; onde, essendo io andato a visitarla, trovai seco la individua sua cognata e compagna, la signora Emilia Pia. E di varie cose insieme ragionando, sovvraveniste voi con il dotto e nobilissimo messer Gian Giorgio Trissino, patrizio vicentino, che portò una lettera de la signora Margarita Pia e Sanseverina a la detta signora Emilia sua sorella. Fu il Trissino da la signora duchessa graziosamente raccolto. Indi si intrò a ragionare, non so come, de le tirannie e sconcie cose che Cesare Borgia usò in quel tempo che soggiogò la Romagna e la Marca; e si disse di tante morti quante egli col mezzo del suo crudele ministro Michelotto facea fare, strangolando tanti signori, ben che a la fine esso Michelotto spagnuolo fu in Milano in certa mischia morto, dicendosi che lo scelerato [p. 314 modifica]manigoldo avea fatto troppo bella morte, meritando publicamente per mano di boia par suo essere smembrato a brano a brano e dato per cibo a’ cani. La signora duchessa allora, non potendo a grande pena le lagrime contenere, rammemorò, quando tra Arimini e Cesena esso Borgia fece rapire una sua criata, che ella mandava a marito al capitano Carrazio, cui maritata l’avea, come esso Michelotto era capo de la cavalcata e fu cagione di fare morire molte persone di quelle che la sposa a Ravenna, ove il Carrazio avea le stanze, accompagnavano. Molte cose si dissero de le enormi e fierissime crudeltati di esso Cesare Borgia, nominato il duca Valentino, il quale non solamente negli stranieri ma nel proprio fratello fu fratricida immanissimo. E tuttavia de le sue infami sceleratezze ragionandosi, messere Gioan Giorgio, in conformità di quanto si diceva, narrò uno altro simile caso da uno perfidissimo tiranno perpetrato, il quale tutti empì di stupore e insieme di pietà. La signora Emilia, come il Trissino fu de la sua novella deliberato, rivoltata a me, mi disse: – Bandello, in vero questo tirannico e abominabile caso punto non disconverrà tra le tue novelle. – Onde, avendolo descritto, in testimonio de la mutua amicizia che tra noi è, ve lo dono e al nome vostro consacro, pregandovi a farlo vedere al nostro gentilissimo signore Angelo dal Bufalo. State sano, e ricordatevi spesso che, come dicevamo questi dì a proposito di quello amico, che così come nostro signore Iddio guiderdona le buone e sante opere, parimente anco gastiga coloro che operano le sconcie cose. Di novo state sano.

NOVELLA XI


Eccellino primo da Romano, cognominato Balbo, rapisce


una giovane promessa a uno suo nepote, onde grandissimi incendii,


morti di uomini e roina di molte castella ne seguirono.


Le cose che dette si sono de le ferine crudeltati del Valentino, il quale non seppe nè volle seguire la sua buona fortuna che levato l’avea al sommo grado del cardinalato, mi fanno confermare ne l’openione mia, che rade volte questi, che così si dilettano spargere il sangue umano, non roinino e muoiano miserabilmente, come si sa che a esso Valentino nel regno de la Navarra avenne, ove miseramente fu morto. Soleva egli molte fiate dire, e alludendo al nome di Cesare dittatore, perchè egli Cesare si chiamava, avere questo motto in bocca: – O Cesare, o nulla. – Onde ingeniosamente [p. 315 modifica]fu da uno poeta di lui cantato: – Cesare Borgia gridava sino al cielo: o Cesare o nulla. Non potè diventar Cesare, ma ben potè essere nulla. – Mi ha anco la rapina fatta ne la criata di madama la duchessa fatto sovenire di una altra rapina fatta in una sposa, cagione poi essa rapina di infiniti mali, come intenderete, chè, non ci essendo ora altro dire, io l’istoria vi narrerò. Si legge negli annali de la nobilissima città di Padova, che io altre volte lessi in casa del nobilissimo messer Antonio Capodivacca, patrizio padoano, che tra li signori di Romano, castello ne la Marca Trivigiana che Ottone terzo imperadore donò a Alberico di Sassonia suo soldato, furono tre Eccellini, discesi da esso Alberico, de li quali il primo, per essere alquanto de la lingua balbuziente, fu chiamato Eccellino Balbo. Costui ebbe uno figliuolo nominato pure Eccellino, ma per cognome appellato il Monaco. Ora avvenne che Gerardo Camposampietro, giovane nobilissimo e primario tra la gioventù de la città padovana, trattava di prendere per moglie una nobilissima e ricchissima giovane, che per dote portava seco una amplissima eredità; ed essendo figliuolo di una carnale sorella di Eccellino il Balbo, communicò allo zio questa sua prattica, e quella con li parenti de la giovanetta, che Cecilia Baonia aveva nome, conchiuse. Ma il Balbo, poco amorevole al nepote, tirato da la ingordigia de la ricca eredità, come uomo avarissimo che era, rapì con inganno e violenza essa Cecilia, e quella maritò subito a Eccellino cognominato il Monaco suo figliuolo. Di così inumana e perfidiosa ingiuria offeso Gerardo e fieramente in còlera salito, la riverenza e amore che al zio e al cugino portava, convertì in mortalissimo e fora di misura crudelissimo odio, e giorno e notte in altro non pensava, che in trovar la via di potersi altamente di tanta ingiuria vendicare, parendogli a modo nessuno poter vivere, nè la vista e luce degli uomini sofferire, se qualche gravissimo scorno a li nemici suoi non faceva. Ebro adunque di una estrema ira e ingombrato da la dolcezza che sperava sentire se si vendicava, mentre su questi pensieri era tutto intento, conculcata e tratta dopo le spalle la ragione, in preda miseramente a l’appetito de la vendetta si diede, di maniera che non era cosa al mondo, per scelerata che fosse, che non li paresse onesta, pur che si potesse in parte vendicare. E così a tutti gli iracondi aviene, che le proprie passioni non sanno moderare, e a ciascuno sempre avenirà, che voglia li male regolati appetiti seguire. Ora, dopo che Cecilia aveva le nozze celebrato con Eccellino lo Monaco, ebbe Gerardo, che in ogni occasione di vendicarsi [p. 316 modifica]stava intento, ebbe, dico, da una spia aviso, come ella era per andare a li bagni di Abano. Il perchè, messo a ordine una compagnia di scielti e valorosi giovani bene armati, andò ad incontrare quelli che Cecilia a li bagni accompagnavano; e animosamente con impressione grandissima gli assalì e per viva forza la donna li rapì. Come l’ebbe in suo potere, lei, gridante mercè e dimandante aita e soccorso, nel mezzo de la publica strada sforzò; e carnalemente di quella prese piacere, non per appetito già di libidine, ma per dispregio degli Eccellini padre e figliuolo, zio e cugino. Questo abominabile fatto di modo irritò e commosse il Balbo e il Monaco Eccellino contra la città padoana, veggendo che in conto nessuno non si erano messi essi padoani a punire così grave eccesso da Gerardo commesso, che, prese le armi e cominciato insieme a guerreggiare, diedero principio a una crudelissima guerra e a la distruzione di quasi tutta la provincia de la Marca trivigiana, che, oltra il danno di molte di quelle nobilissime città, più di cento popolose ville e castella del paese lungamente afflitte e conquassate, quasi distrutte e sino a’ fondamenti roinate restarono. Oltra questo vi si accrebbe, che Cecilia, ben che incorrotta di animo, nondimeno violata di corpo, fu dal marito repudiata e resa a li propinqui suoi. Il Monaco, poi che ebbe mandata via Cecilia, sposò Aldeida, de la nobile schiatta in Toscana de li Mangoni, allora ne le alpi de l’Apennino molto illustre e potente. Da questo, non so se lo appelli matrimonio, vivendo ancora Cecilia, che era vera moglie, o lo dica adulterio, nacque dentro il ventre de la Aldeida, o vi fu generato, lo superbo e sceleratissimo terzo Eccellino, che fu la roina di molte città e massimamente di Padoa. Egli in Verona in uno giorno fece tagliar a pezzi con inaudita crudeltà, avendo inteso che Padoa si era rubellata, dodeci milia padoani, che seco avea per ostaggi. E in vero egli fu uno nefandissimo tiranno, che di crudeltà di gran lunga avanzò Falari, Mezenzio, li Dionisii, Caio, Nerone e quanti mai più crudeli tiranni si fossero; e per avere suo padre ricevuta la ingiuria ne la prima moglie da Gerardo, egli sempre ebbe in odio tutti i padoani.


{{Centrato|Il Bandello a l’illustrissimo e riverendissimo [p. 317 modifica]signore }}

il signore Federico Sanseverino


cardinale de la santa romana Chiesa salute


Il giudeo, che per opera vostra, signor mio osservandissimo, questi giorni fu battezzato, diceva essersi a la fede nostra convertito, perchè vide uno sacerdote con il glorioso nome del signor nostro messer Giesu Cristo aver liberato uno povero uomo, che da una legione di demonii lungo tempo era stato oppresso. Onde, tra sè considerando questo sacro nome di Giesu, che li giudei così disprezzano, essere di tanta vertù, conchiuse ne l’animo suo che li giudei sono in grandissimo errore e tutti perduti, e che in effetto la vera fede è la cristiana; onde, come ha fatto, determinò farsi cristiano. E ragionandosi de la conversione di cotesto ebreo in una onorata compagnia ove io mi ritrovai, assai cose de la vertù di questo sacratissimo nome di Giesu furono dette, al cui suono si inchinano tutti gli spiriti del cielo e gli uomini de la terra, e parimente gli abitatori de lo inferno, li quali, udendolo nominare, tremano come foglia al vento. Da questo si venne a dire di alcuni miracoli, che con questo salutifero nome fatti si sono, e che si è veduto assai sovente li miracoli avere convertiti molti infedeli e li malviventi ridotti a vivere onestissimamente. Era in quella onesta brigata il gentilissimo e dotto giovane messer Camillo Gulino, il quale, a proposito de li miracoli che dagli infedeli si vedeno e quelli convertisseno a la vera fede, narrò una mirabile e bella istorietta, la quale fu da me descritta. E pensando io cui, secondo il mio consueto, donare la devessi, voi mi occorreste. Il perchè, avendo voi fatto battezare l’ebreo, che per uno miracolo si è convertito a lasciar il giudaismo e farsi cristiano, non mi pare punto disconvenevole che questa istoria, la quale contiene che per uno miracolo il re de li tartari si battezò, al nome vostro si veggia intitolata. Accettatela adunque, signor mio umanissimo, con quella vostra singolare umanità, che tutte le cose a voi offerte sète solito accettare. Resterà a tutti quei che dopo noi verranno per fermo testimonio de la fedele e antica servitù di tutta la casa Bandella verso la felicissima memoria del famoso capitano vostro onorato padre, il signor Roberto Sanseverino, e tutti voi, suoi illustrissimi figliuoli. State sano.