Novelle (Bandello, 1910)/Parte III/Novella LXIII

Da Wikisource.
Novella LXIII - Debito castigo dato ad un canonico, che con mirabile invenzione aveva ingannato un suo vicino

../Novella LXII ../Novella LXIV IncludiIntestazione 30 settembre 2017 25% Da definire

Novella LXIII - Debito castigo dato ad un canonico, che con mirabile invenzione aveva ingannato un suo vicino
Parte III - Novella LXII Parte III - Novella LXIV
[p. 35 modifica]

IL BANDELLO

a monsignor

guidone golardo di brasaco

presidente nel senato di Bordeos


Assai sovente suol avvenire che coloro, che si dilettano con inganni beffar il compagno, a la fine restano eglino, non se n’accorgendo, i beffati e gli scherniti. E questi tali non si ponno con ragione lamentare se loro è reso il contracambio de l’inganno, perciò che, come giá cantò il gentilissimo Petrarca,

          Che chi prende diletto di far frode,
          non si de’ lamentar s’altri l’inganna.

E non sofferendo la natura umana che ’1 bene non sia di convenevol guiderdone rimunerato, vuole anco ragionevolmente che gli inganni e misfatti siano puniti, a ciò che, come dice il volgatissimo proverbio, qual asino dá in parete, tal riceva. Eravamo questi di molti di noi di brigata in un nostro giardino a diporto, e d’uno in altro ragionamento travarcando, si venne a ragionare di certo prete, che circa un beneficio aveva maliziosamente ingannato un altro prete, che di lui, come d’amico, si era a la carlona, secondo che dire si costuma, di lui, dico, confidato, senza scritti e senza testimoni. E biasimandosi da tutti la poca fede de l’ingannatore e dicendo ciascuno di noi il suo parere circa il castigo che dare acerbamente se gli deveria, messer Matteo Beroaldo, parigino, uomo non solamente ne la lingua latina e greca eruditissimo, ma ne l’ebrea ancora e negli studi filosofici essercitato, e precettore del nostro signor Ettor Fregoso, dal re cristianissimo nomato al sommo pontefice per vescovo di Agen, ci narrò un meraviglioso inganno usato da un canonico di Laon ad un borghese e il degno castigo che dal senato regio al canonico fu dato. Sodisfece molto a tutti la pena [p. 36 modifica]36 PARTE TERZA al canonico data, ed alcuni mi pregarono clic io ne scrivessi una novella; il che feci volentieri. Quella dunque, dame essendo stata scritta, al nome vostro ho intitolata, in testimonio de la cambievole nostra benevoglienza e de l'osservanza che io a la bontà vostra ed ottimi costumi porto. State sano. NOVELLA LXIII Debito castigo dato ad un canonico che con mirabile invenzione aveva ingannato un suo vicino. Ne la villa di Laon fu non è molto tempo un prete canonico, di beni ecclesiastici assai ricco, ma povero di buoni costumi e di cristiana conscienza. Aveva egli continua a la casa sua una casa d'un buon uomo, la quale egli sommamente desiderava di comprare, per meglio accommodarsi e far di due case fabricarne una a suo modo; ed al vicino suo l’averia molto ben pagata. Ma il buon uomo non volle mai intendere, per prezzo che offerto dal canonico gli fosse, di privarsi de la sua abitazione. Del che messer lo prete si trovava molto di mala voglia e non se ne poteva dar pace. E poi che più e più volte, usando diversi mezzi d’uomini per piegare il padrone de la casa a venderla, conobbe che indarno s’affaticava per danari di poterla avere, si converti a le astuzie e agli inganni, imaginando tuttavia come il buon uomo egli, ingannando, inducesse a spogliarsi de la casa. Caddegli in mente una diabolica chimera e parveli molto al proposito per ottener l’intento suo. Onde, non avendo risguardo né a Dio, come si suol dire, né a' santi, deliberò la sua pessima fantasia mandar ad effetto, seguendo in ciò il volgato verso del poeta: Da che banda arricchisca nessun cerca: ricchezza in ogni modo aver bisogna. Determinatosi adunque essequire il suo pensiero, ebbe mezzo di trovar un abito di diavolo infernale, che a Parigi fece far il più orribile e spaventoso che fu possibile, con un abbigliamento da capo che aveva duo gran corna, e una maschera si [p. 37 modifica]NOVELLA I.XIII contrafatta e tutta brutta, minaccevole e fiera, che averia fatto paura al più animoso e sicuro uomo di tutta la Francia. Avuti auesti abbigliamenti, parti da Parigi e tornò a Laone. Si vesti una notte da diavolo ed empi le corna di fuoco artificiato, e per la via del tetto passò da la sua casa a qùella del suo vicino e, per un finestrone che era in mezzo del tetto per dar lume al solaro, sotto esso tetto entrò dentro. Era quivi a caso stata messa una botte vecchia per riporvi dentro de la cenere. 11 buon canonico cominciò per la prima a volgere e rivolger la botte sovra il solaro, facendo il maggior romore del mondo, ché tutti quelli di casa, a lo strepito che la raggirata botte faceva, dal sonno si destarono. Levossi una fantesca e, accesa la lucerna, montò le scale e andò di sopra per vedere onde quei strepiti nascessero. Il canonico, che stava a la vedetta, come la fante fu di sopra, cosi saltabellando faceva un abissar grandissimo e suf- folava fieramente, mandando fuori da le corna, da le lunghe orecchie e da altri luoghi de la diabolica maschera fiammelle di fuoco con fumi che putivano fieramente. A cosi orrendo spettacolo la timida fante, spaventata, con la maggior fretta corse giù da la scala, che non si dà la fava la notte e 'I giorno dei morti. E non potendo a pena favellare, disse pure al padrone che aveva veduto il diavolo. Egli, credendo che la fante non fosse in cervello, sali in alto e vide tutto ciò che quella detto aveva, e spaventato oltra modo, fu per ¡svenire e vie più che di galoppo smontò la scala. Durò questa festa molti di, tuttavia entrando per lo spiraglio del tetto ed uscendo messer lo canonico a suo piacere. Si divolgò il fatto per la villa e si cominciarono a dire di molte ciancie. Chi diceva una cosa e chi un’altra. Dicevano alcuni cotali visioni diaboliche apparire perché altre volte una femina sovra quel solaro s'era da se stessa per la gola impiccata. Altri affermavano sentirsi quei romori perché un fratello del padrone de la casa, che era morto, aveva fatto voto d’andar a visitare San Clodo e non v’era ito, e meno aveva sodisfatto ad un altro voto d’andare a Monte San Michele nel paese di Bertagna. E cosi diversi diversamente parlavano. Fu fatto venire il parrocchiano a benedire con acqua santa la [p. 38 modifica]38 PARTE TERZA casa. Né gli bastò d'averla benedetta ¡1 giorno, ché, essendo la notte restato col suo chierico in casa, come senti il romore, fatta prender la croce e l’acqua santa, volle salir di sopra. Ma tosto si pentì, perché veggendo cosi orrendo e spaventoso mostro, gettata in terra la croce e l’aspersorio, se ne volò furiosamente a basso. Ora, veggendo il padrone a nessun modo tanta seccaggine di romori cessare, deliberò trovar un’altra casa e vender quella; onde la fece offerire al canonico. Egli, che vedeva il suo avviso riuscirgli a pennello, se ne mostrò svogliato, dicendo che più non ne aveva bisogno. E per la fama che era sparsa quella casa esser divenuta una spelonca di spiriti, non ci era persona che comprare la volesse, né anco accettar in dono. A la fine mostrò il canonico per compassione volerla comprare, e l'ebbe per la metà meno di quello che buonamente valeva. Avvenne un di che, lamentandosi uno col canonico, che piativa e non poteva venir a capo de la lite, narrò la materia de la sua lite ad esso canonico. A cui egli disse: — Amico mio, tu non sai litigare. Io so fare i fatti miei senza tanti processi. — E non considerando ciò che potesse avvenire, li narrò il modo col quale aveva ottenuta la casa del suo vicino. Il fatto, non so come, fu sentito dal padrone che la casa per téma degli spiriti aveva venduta, e fu da lui ad un suo avvocato esposto; di modo che la lite fu dedutta al parlamento di Parigi. In somma, per non vi tener più in lungo, messer lo canonico, provato il suo delitto, fu preso e, senza aspettar tormenti, il tutto come era seguito confessò. Fu giudicato che la casa tornasse in poter del primo padrone senza che restituisse gli aùti danari, e che il povero canonico fosse incarcerato e restasse prigione perpetuamente, con digiunare tre volte ogni settimana in pane ed acqua senza altro cibo. E cosi la sua malvagità a misero fine miseramente lo condusse; ed appresso la malvagità, Tessersi gloriato d’aver fatta la beffa al vicino de la casa fu l'ultima sua rovina. Si deve ciascuno guardare di non commetter misfatto alcuno, e poi che l’ha commesso, non lo publicare: perché per l’ordinario il troppo cicalare suole spesso esser di nocumento; ma il tacere, ove è il bisogno, fu sempre lodevol cosa.