Novelle lombarde (Cantù)/La festa dei Canestri
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LA FESTA DEI CANESTRI
La Tremezzina — Deh chi ha visto quel paese, e può nominarlo senza sentirsi scorrere sull’anima un riso? Ed io e voi, soave essere che mi consolate il presente e mi confortate l’avvenire, non ricorderemo mai quella piaggia senza un sentimento pari alla memoria d’un fanciullino volato in cielo sul fior dell’età, del quale non si rammentano che i sorrisi.
Colà, nella vivace stagione traggono i ricchi dalla città a bearsi della calma campestre, a rintegrare le forze nel limpido aere tutto vita; e fra quell’amabile indistinto di colori e di fragranze, dimenticare i faticosi nonnulla cittadineschi.
E veniva pure.... Ma voi, giovani cortesi e belle donne, avvezzi a commovervi al racconto di avventure strepitose, bizzarre, romanzesche; voi, che a parole chiedete il semplice, il vero, poi in effetto volete prurigine di fittizio, d’esagerato, deh saltate a piè pari questo racconto; non fa per voi: esso è schietto e mite siccome il cuore di chi me lo dettò.
Veniva dunque, e viene tuttavia ogni autunno a villeggiare in Tremezzina un giovane (gli porrem nome Ernesto per non dire il suo proprio), bello e robusto di sua persona, ricco a dovizia, vivace, lusinghiero, colto quanto basti per avvivare un circolo senza aggravarne le futili importanze. Aveva ne’ suoi verdissimi anni amato una fanciulla coll’impeto del primo affetto: n’era stato lusingato, poi tradito: e da quell’ora, o fosse per vendicare su d’altri le pene da sè patite, o un leggero concetto che dell’amore si fosse formato, siccome di passione il cui rimedio sono il possesso e la sazietà, lo trattò sempre come calcolo, come celia, come un altro de’ varj passatempi, per nulla computando che lacrime, che inquietudini, che spasimi cagionerebbe.
Quella che prima, coll’ingannarlo, l’avea così traviato; n’avrà ella mai sentito rimorso?
Non crediate però che l’anima ben fatta di Ernesto si trovasse paga fra le gioje irriflessive del bel mondo. Agognava al piacere, che sembrava fuggirgli dinanzi: se alcuno gliene avesse mostra la sorgente migliore, v’avrebbe attinto; ma così, andando tentone, la credeva riposta nel fare tutto quel che gli garbasse. Onde, per vanità, per ghiribizzo, per puntiglio, aveva delle volte assai, non solo sfiorato tra quelle molte le quali non cercano che d’essere divertite, comprese, adorate, ma turbato la pace di spose inesperte, guasta la verginale sensitività, così preziosa e così fragile, delle fanciulle; nè le incantevoli rive della Tremezzina erano rimaste intatte dall’orme sue voluttuose.
E appunto nella speranza di qualche agevole conquista, di qualche pruriginosa avventura da spassarne poi i maligni crocchi alle garrule sere dell’inverno milanese, trasse un bel giorno alla chiesa di San Lorenzo per assistere alla Festa dei canestri.
Avete inteso mai discorrere della Festa dei canestri? Oh, la è cosa tanto semplice! E poi, foss’ella un costume della Scozia o della Turena, l’avreste letto in Walter Scott o in Balzac: qui da noi nè gli scrittori descrivono, nè i curiosi osservano le cose nostre; s’ha altro a fare che scendere alle minuzie della vita reale: e vuolsi dover guardare ogni cosa col telescopio: — eccellente metodo di raggiungere la verità!
Per dirvelo dunque in due parole, è consueto a’ paesi intorno al lago di Como, che, un certo giorno d’ogni anno, offra, chiunque può, alcuna cosa alla Madonna o al santo patrono: le quali offerte poi vengono vendute all’incanto, a pro della chiesa. Festeggiavasi appunto un tal giorno, quando il signor Ernesto arrivò a quel paesello, nell’ora che le donne s’avviavano al tempio. Tutte allindate, qual d’esse recava un panierino, donde agrumi e pesche diffondeano freschissima fragranza; quale una ancor tiepida focaccia; questa una fiala del più buono: quest’altra un cero tutto screziato; e chi un fazzoletto, chi una chioccia colle uova, chi un par di tortorelle, ma ogni cosa galante di nastri, di fiori, di nappe, di tutto quel più vezzoso che ognuno sapeva poteva. Ernesto, fermo in sul sagrato, occhieggiava la bellezza ingenuamente vivace delle forosette e sorrideva entro sè delle occhiate che, in passando lanciavano, come si fa, qual su questo, quale su quello de’ vistosi garzoni della terra. I quali poneano ben mente qual fosse il dono offerto dalla loro prediletta, per acquistare poi buon merito ricomprandolo all’asta.
Più di tutte fermò lo sguardo di lui la Caterina, fanciulla tra i diciotto e i vent’anni. Que’ due occhi color di cielo, che non fissava in volto nè in terra, ma con modesta franchezza girava; il più bel capo di biondi capelli di tutto il paese, talchè soleva essere trascelta a rappresentare la Maddalena nelle processioni del giovedì santo, non bastavano, è vero, a renderla la più bella, ma dalle sue fattezze spirava quel non so che di dolce e d’ingenuo, che invano voi cercate di supplire coi vezzi studiati, o cittadine. Ella menavasi dietro un agnellino carezzevole, bianco e pulito siccome il suo grembiule, tutto messo a nastri rossi e azzurri, e sulla fronte una rosa, e attorno al collo un monile di margheritine e di pamporcini inanellati. Traendolo per un cordoncino rosato, veniva la buona Caterina: e anch’essa dava un’occhiata ad un giovinetto che stava appartato dagli altri, pensoso in vista; gli dava una di quelle occhiate, in cui si mescolano innocenza, desiderio, timore; occhiate che dicono tutto, ma tutto ad un solo. Indi alzò le pupille al cielo, e le si empirono di lacrime.
Nulla passò inosservato al signor Ernesto, il quale questi semplici amori commentava da uomo che all’amore più non crede; e, chi sa? forse meditandone una conquista, le tenne dietro nel santuario. Finito il cantare de’ vespri, le fanciulle intonarono le litanie: — commovente orazione, ove dalla madre di Dio e madre nostra preghiamo che preghi per noi. Fra quelle scendevano ai balaustri dell’altare in due file i confratelli del Sacramento, e in mezzo a loro il pievano: davanti al quale una dopo una, venivano le donne, con rusticana cortesia presentando i canestri delle offerte. Li benediceva egli, e li porgeva al confratello più vicino, che, passandoli d’una mano in l’altra, gl’inviava alla sagrestia. Giunta la volta anche della Caterina, ella si fece innanzi e, segnatasi, porse al curato il cordoncino ond’era avvinto l’agnello. Questo, disgiunto dalla cara padrona, e passato tra le inofficiose mani di coloro, diedesi a belare così, che tutti i radunati mosse all’ilarità: — tutti, fuor di due soli: la buona Caterina che s’asciugava le lacrime colla cocca del candido grembiule, e un giovane che da lei non dispiccava la vista.
Come l’offerta venne al fine, tutti uscirono sul sagrato, ove l’agente del Comune, montato sur un pancone, cominciò a metter all’incanto le robe offerte. Qui fanno spicco la generosità, la devozione l’amore: ed è una festa a mirare chi si punta d’avere quel fazzoletto, quella fusciaca, perchè benedetti; chi di riscattare, per quanto gliene valga, il dono da lui medesimo esibito; chi di comprare l’offerta dell’amica, vincendo i rivali nel prezzo, per mostrarle quanto conto faccia di essa. Le fanciulle si aggruppano in disparte con aria di noncuranza: ma sebbene mostrino che non sia affar loro, le sono tutt’occhi, tutt’orecchi; e quando va all’asta il suo dono, a ciascuna s’addoppia il batter del cuore; ed oh come si reputi quella che vede nascere una gara, alzarsi il prezzo, e riportarlo alfine colui ch’è il suo voto.
Quando fu bandito all’incanto, l’agnellino belava tal quale un fanciullo; e tal quale una madre lo compativa Caterina. Ma il garzone che s’intendeva con essa, fattosi avanti e rotto il silenzio, cominciò a dirvi sopra. E già superati i competitori, tenevasi certo l’acquisto ambito, allorchè s’ode una voce tutta nuova, non più crescere a goccioli come sogliono, ma raddoppiare d’un colpo il valore. La Caterina, il garzone, tutti volsero lo sguardo a quella parte, era il signor Ernesto. Onde, tra per rispetto; tra per l’esorbitante prezzo, nessuno più osò dirvi, ed una e due e tre, fu a lui liberato l’agnellino.
Quale rimanesse la fanciulla, quale il suo damo, lascio a voi pensarlo. Tra mesti e dispettosi pareano dire cogli occhi: — Or che fa a costui quell’agnellino? ma a noi come fu, come sarebbe prezioso?
La folla intanto si diradò; ed ognuno tornossene a casa, raccontando con ressa giuliva le avventure e ogni accidente a chi non era potuto intervenire. Ma la Caterina, accosciata presso il suo povero focolare, accanto al povero suo padre, pensava, fantasticava, rammaricavasi: quand’ecco entrare tutto gaio il signor Ernesto, e — Bella ragazza, che mi date voi, ed io vi rendo il vostro agnellino?
Curiosità, interesse, amor d’avventure, fors’anche pietà, aveano mosso Ernesto a voler sapere di quella fanciulla. La quale, dipinta di rossore fino agli occhi, levatasi di sedere e chinate le pupille, — O signore (rispose), che può mai darle una povera fanciulla? Foss’io men povera, e certo quell’agnello non mi sarebbe uscito di mano.
— Convien dire vi sia ben caro, eh?
— Se m’è caro!» E qui un sospiro. «Per tutto l’oro del mondo non l’avrei dato ad altri che alla Madonna. Ed ancora aveva speranza che l’andasse a finire in mano... Ma lei, signore...»
Qui un nodo le serrava la gola; poi seguì un chiedere, un replicare, finchè la bella s’indusse a raccontare i suoi rammarichi. Furono rustiche e inartifiziose parole, ma meglio di esse parlava l’eloquenza di una giovinezza innocente ed accorata.
— Questo buon uomo ch’ella vede qui, è mio padre, e finchè gli bastò la salute, lavorando da falegname sostentò onoratamente sè e me. Fu allora che cominciò a discorrermi (qui la Caterina abbassava gli occhi ed arrossiva) cominciò a discorrermi Battista, il figlio del fattore di casa Busca, e mi promise che, passata la coscrizione, mi avrebbe sposata. I suoi di casa ne mostravano un’allegrezza da non dire, perchè allora mio padre faceva bene i fatti suoi. Io poi, io non sapeva figurarmi gioja più cara che di vedere mio padre contento il giorno dei miei contenti. Ma altrimenti aveva disposto il Signore Iddio. Mio padre, nel lavorare, cascò da un ponto e si guastò, e tutto il lungo inverno, tutta la primavera rimase confitto in letto, ed io a curarlo senza poter lavorare. Il Signore diede a me forza, a lui pazienza; ma intanto n’andò la poca scorta che si era messa in parte. Ed ora ridotto, chi sa fin quando e forse per sempre, inabile al suo mestiere, non campa se non del pane stentato che, dì per dì, con queste mani io gli posso guadagnare. Allora i parenti di Battista non consentirono più ch’egli sposasse me, figliuola sprovvista, perchè, oltre il togliermi con niente, avrebbe anche avuto sulle spalle questo caro vecchio, che per cosa del mondo io non vorrei abbandonare. Quel buon Battista!... Mi pare sempre di vederlo il giorno che mi recò l’infausta notizia. E’ piangeva come un fanciullo, e mi promise che, appena trovasse come guadagnare abbastanza da sè, mi sposerebbe. Io sto fidata, perchè è un figliuolo timorato di Dio: ma intanto non era più conveniente ch’egli durasse la pratica per casa nostra; ed io, impedita di favellargli, altro ristoro non avevo se non nel curare un suo dono. Era un agnellino, che di latte egli stesso mi comperò al Soccorso l’ultima fiera, quando v’andai a far voto alla Madonna, che, se mio padre si riavesse, io le offrirei quel che di più caro possedevo. Venne la nostra festa: e qual cosa alla Madonna poteva io presentare più preziosa di questo agnellino? Il male si fu che non potei neppure far intendere a Battista il perchè l’avessi offerto; onde forse egli se lo reca a male. Tanto più che, invece di tornare in mano di lui, come io sperava....
— Se qui tutti consistono i vostri affanni (la interruppe il signor Ernesto), consolatevi: chi sa che non ve ne torni meglio? Non deve restare senza compenso un cuore sì candido e modesto».
Quando egli uscì di là entro, sentiva in sè un moto d’affetti, così diversi da’ suoi consueti, che confessò non averne mai provato di sì vivaci e piacevoli nelle molte, pur troppo molte sue soddisfazioni. Tanto soave cosa è la benevolenza; di tanta dolcezza inonda l’anima il vederla praticata, il praticarla. — Eppure!
La verità fu, che al domani il signor Ernesto avea fermato Battista per suo gastaldo, doman l’altro, combinati gli sponsali di questo colla Caterina; la seguente domenica si sentirono dire in chiesa: nè finì la vacanza che il curato ebbe benedetto la loro unione, e comandato a Caterina di amare Battista. Pensate se quel comando le fu grazioso!
Nè va sterile di frutto una buona azione. Il signor Ernesto, che aveva assaggiata la dolcezza del ben fare; egli, che si era sentito spuntar le lagrime quando Caterina gli replicava, — Il Signore la benedica», egli tornò voglioso di gustare le squisitezze della virtù. Rivenne in città mutato. 1 tripudj spensierati, gl’inverecondi festini, gli ozj maledici, i circoli scetticamente beffardi, oh come erano lungi dall’appagarlo! come agognava una felicità senza delitti e senza trasporto, ma anche senz’onta e senza rimorsi! Come gli pareva invidiabile beatitudine la pace de’ domestici affetti!
E volle procurarsela; e Dio lo prosperò.
L’anno seguente tornava egli alle incantevoli rive della Tremezzina con una sposa, bella come ognuno vorrebbe la sua, dotata di quella dolcezza naturale che, dopo la virtù, è la suprema dote nelle donne; e ridente della serena contentezza di colei che sa di essere per un uomo il principio di sua felicità. Poi l’altr’anno Ernesto vi portò un bambino, sua gioja e sua speranza: ed è riguardato da tutti con venerazione d’amore, perchè di casa sua non si parte mai un afflitto senza consolazione, o un povero senza soccorso, un tribolato senza consigli. Spesso egli torna a visitare la casetta di Battista e della Caterina, che giocondissimo è il rivedere i luoghi che rammentino alcuna gentile nostra azione.
Giovani cortesi e leggiadre donne, il mio racconto è finito. V’è parso egli troppo semplice, troppo prosaico, di troppo vulgare verità? Non un adulterio, non un assassinio, nè tampoco una semplice morte! O che? non ve ne imbandiranno abbastanza i nostri e gli stranieri scrittori? E poi, ve n’avevo pure ammoniti dal bel principio. Ma voi non siete stati, com’io fui, nella linda casetta dei due sposi. Era quell’ora d’estasi meditabonda d’un bel giorno che tramonta: il solerte Battista ritornava allora dalle vigne; la Caterina ammanniva la cena; e un bambino, con in volto i vivaci colori della sanità, tripudiava sulle ginocchia del canuto nonno, intrecciando le piccole dita fra le lane di un agnello. Meco voi eri, amica mia, quando Ernesto colà ci raccontò quest’istoria; colà dove egli aveva imparato ad aggiungere alla ricchezza la scienza di ben usarla. I primieri suoi compagni, ricchi d’ironica saggezza e di quell’arida prudenza che aduggia le generose qualità della gioventù, all’udirlo si saranno stretti nelle spalle, sconoscendone la felicità; e vuotando le tazze d’ambrosia, mesciute dalla corruzione mascherata col titolo di galanteria, forse l’avranno compassionato. Ma voi, amica mia, con un cuore buono per natura, per abitudine, non congelato dagli spietati calcoli della vanità e dell’ambizione, non logoro dai disinganni d’una desolatrice esperienza, voi, nell’ascoltarlo, mi fissaste in volto, versaste una lacrima: — che non mi dicevano quella lacrima, quello sguardo!
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