Nuova Cronica/Libro ottavo
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I Qui comincia il VIII libro, il quale tratta dell’avenimento del re Carlo, e di molte mutazioni e novitadi che ne seguirono appresso.
Carlo figliuolo secondo che fu di Luis Piacevole re di Francia, e nipote del buono re Filippo il Bornio suo avolo, onde facemmo menzione adietro, e fratello del buono re Luis di Francia, e di Ruberto conte d’Artese, e d’Infons conte di Pettieri, tutti e quattro fratelli, furono nati della reina Biancia figliuola del re Alfons di Spagna. Il detto Carlo conte d’Angiò per retaggio del padre, e conte di Proenza di qua dal Rodano per retaggio della moglie, figliuola del buono conte Ramondo Berlinghieri, sì come per lo papa e per la Chiesa fu eletto re di Cicilia e di Puglia, sì s’apparecchiò di cavalieri e di baroni per fornire sua impresa e passare in Italia, come innarrammo dinanzi. Ma acciò che più apertamente si possa sapere per quegli che sono a venire come questo Carlo fu il primo origine de’ re di Cicilia e di Puglia stratti della casa di Francia, sì direno alquanto delle sue virtù e condizioni; ed è bene ragione di far memoria di tanto signore, e tanto amico e protettore e difenditore di santa Chiesa e della nostra città di Firenze, sì come innanzi faremo menzione. Questo Carlo fu savio, di sano consiglio, e prode in arme, e aspro, e molto temuto e ridottato da tutti i re del mondo, magnanimo e d’alti intendimenti, in fare ogni grande impresa sicuro, in ogni aversità fermo, e veritiere d’ogni sua promessa, poco parlante, e molto adoperante, e quasi non ridea se non poco, onesto com’uno religioso, e cattolico; aspro in giustizia, e di feroce riguardo; grande di persona e nerboruto, di colore ulivigno, e con grande naso, e parea bene maestà reale più ch’altro signore. Molto vegghiava e poco dormiva, e usava di dire che dormendo tanto tempo si perdea. Largo fu a’ cavalieri d’arme, ma covidoso d’aquistare terra, e signoria, e moneta, d’onde si venisse, per fornire le sue imprese e guerre. Di gente di corte, minestrieri o giucolari, non si dilettò mai. La sua arme era quella di Francia, cioè il campo azzurro e fioridaliso d’oro, e di sopra uno rastrello vermiglio: tanto si divisava da quella del re di Francia. Questo Carlo quando passò in Italia era d’età di XLVI anni, e regnò re di Cicilia e di Puglia, come faremo menzione innanzi, anni XVIIII. Ebbe della moglie due figliuoli e più figliuole: il primo ebbe nome Carlo secondo, e fu sciancato alquanto, e fu prenze di Capova, e appresso del primo Carlo suo padre fu re di Cicilia e di Puglia, come innanzi faremo menzione; l’altro ebbe nome Filippo, il quale per la moglie fu prenze della Morea, ma morì giovane, e sanza figliuoli, però che si guastò a tendere uno balestro. Lasceremo alquanto della progenie del buono re Carlo, e seguiremo nostra storia del suo passaggio in Italia e d’altre cose conseguenti a quello.
II Come i Guelfi usciti di Firenze ebbono l’arme da papa Chimento, e come seguirono la gente francesca del conte Carlo.
In questi tempi i Guelfi usciti di Firenze e dell’altre terre di Toscana, i quali s’erano molto avanzati per la presura ch’aveano fatta della città di Modona e di Reggio, come addietro facemmo menzione, sentendo come il conte Carlo s’apparecchiava di passare in Italia, sì si misono con tutto loro podere in arme e in cavagli, isforzandosi ciascuno giusta sua possa, e feciono più di CCCC buoni uomini a cavallo gentili di lignaggio, e provati in arme, e mandarono loro ambasciadori a papa Chimento, acciò che gli raccomandasse al conte Carlo eletto re di Cicilia, e profferendosi al servigio di santa Chiesa; i quali dal detto papa furono ricevuti graziosamente, e proveduti di moneta e d’altri benifici; e volle il detto papa che per suo amore la parte guelfa di Firenze portasse sempre la sua arme propia in bandiera e in suggello, la quale era, e è, il campo bianco con una aguglia vermiglia in su uno serpente verde, la quale portarono e tennero poi, e fanno insino a’ nostri presenti tempi; bene v’hanno poi agiunto i Guelfi uno giglietto vermiglio sopra il capo dell’aquila. E con quella insegna si partirono di Lombardia in compagnia de’ cavalieri franceschi del conte Carlo quando passarono a Roma, come appresso faremo menzione; e fu della migliore gente, e che più adoperarono d’arme ch’avesse del tanto il re Carlo alla battaglia contro a Manfredi. Lasceremo alquanto degli usciti guelfi di Firenze, e diremo della venuta del conte Carlo e di sua gente.
III Come il conte Carlo si partì di Francia, e per mare si passò di Proenza a Roma.
Negli anni di Cristo MCCLXV Carlo conte d’Angiò e di Proenza, fatta sua raunata di baroni e di cavalieri di Francia, e di moneta per fornire suo viaggio, e fatta sua mostra, si lasciò il conte Guido di Monforte capitano e guidatore di MD cavalieri franceschi, i quali dovessono venire a Roma per la via di Lombardia. E fatta la festa della Pasqua della Resurressione di Cristo col re Luis di Francia e cogli altri suoi fratelli e amici, subitamente si partì di Parigi con poca compagnia: sanza soggiorno venne a Marsilia in Proenza, là dove avea fatte apparecchiare XXX galee armate, in su le quali si ricolse con alquanti baroni che di Francia avea menato seco, e con certi de’ suoi baroni e cavalieri provenzali, e misesi in mare per venire a Roma a grande pericolo; però che ’l re Manfredi colle sue forze avea fatte armare in Genova, e in Pisa, e nel Regno più di LXXX galee, le quali stavano in mare alla guardia, acciò che ’l detto Carlo non potesse passare. Ma il detto Carlo, come franco e ardito signore, si mise a passare, non guardando agli aguati de’ suoi nimici, dicendo uno proverbio, overo sentenzia di filosofo, che dice: «Buono studio rompe rea fortuna». E ciò avenne al detto Carlo bene a bisogno; ché essendo colle sue galee sopra il mare di Pisa, per fortuna di mare si sciarrarono, e Carlo con III delle sue galee, per forza straccando, arrivò a Porto Pisano. Sentendo ciò il conte Guido Novello, ch’allora era in Pisa vicaro del re Manfredi, s’armò colle sue masnade di Tedeschi per cavalcare a Porto, e prendere il conte Carlo; i Pisani presono loro punto, e chiusono le porte della città, e furono ad arme, e mossono questione al vicario, che rivoleano il cassero del Mutrone ch’egli tenea per gli Lucchesi, il quale era a·lloro molto caro e bisognevole; e così convenne che fosse fatto innanzi si potesse partire. E per lo detto intervallo e dimoro, quando il conte Guido partito di Pisa e giunto a Porto, il conte Carlo, cessata alquanto la fortuna, e con grande sollecitudine fatte racconciare le sue galee, e messosi in mare, di poco dinanzi s’era partito di Porto, e cessato tanto pericolo e isventura: e così come piacque adDio, passando poi assai di presso del navilio del re Manfredi, prendendo alto mare, arrivò colla sua armata sano e salvo alla foce del Tevero di Roma del mese di maggio del detto anno, la cui venuta fu tenuta molto maravigliosa e sùbita, e dal re Manfredi e da sua gente appena si potea credere. Giunto Carlo a Roma, da’ Romani fu ricevuto a grande onore, imperciò che non amavano la signoria di Manfredi, e incontanente fu fatto sanatore di Roma per volontà del papa e del popolo di Roma. Con tutto che papa Chimento fosse a Viterbo, li diede ogni aiuto e favore contro a Manfredi, spirituale e temporale; ma per cagione che·lla sua cavalleria che venia di Francia per terra, per molti impedimenti apparecchiati per le genti di Manfredi in Lombardia, penarono molto a giugnere a Roma, come faremo menzione, sicché al conte Carlo convenne soggiornare a Roma, e in Campagna, e a Viterbo tutta quella state, nel quale soggiorno provide e ordinò come potesse entrare nel Regno con sua oste.
IV Come il conte Guido di Monforte colla cavalleria del conte Carlo passò per Lombardia a Roma.
Il conte Guido di Monforte colla cavalleria che ’l conte Carlo gli lasciò a guidare, e colla contessa moglie del detto Carlo, e co’ suoi cavalieri si partirono di Francia del mese di giugno del detto anno. E questi furono i caporali de’ baroni col conte di Monforte: messer Boccardo conte di Vandomo, e messere Giovanni suo fratello, messer Guido di Bieluogo vescovo d’Alsurro, messere Filippo di Monforte, messere Guiglielmo e messer Piero di Bielmonte, messer Ruberto di Bettona primogenito del conte di Fiandra il quale era genero del conte Carlo, messer Gilio il Bruno conastabolo di Francia, maestro e balio del detto Ruberto, il maliscalco di Mirapesce, messere Guiglielmo lo Stendardo, messer Gianni di Bresiglia maliscalco del conte Carlo, cortese e valente cavaliere; e feciono la via di Borgogna e di Savoia, e passarono le montagne di Monsanese; e arrivati nella contrada di Torino e d’Asti, dal marchese di Monferrato ch’era signore di quello paese furono ricevuti onorevolmente, perché ’l detto marchese tenea colla Chiesa, e era contro a Manfredi; e per lo suo condotto, e coll’aiuto de’ Melanesi, si misono a passare la Lombardia tutti in arme, e cavalcando schierati, e con molto affanno di Piemonte infino a Parma, però che ’l marchese Palavigino parente di Manfredi, colla forza de’ Chermonesi e dell’altre città ghibelline di Lombardia ch’erano in lega con Manfredi, era a guardare i passi con più di IIIm cavalieri, che Tedeschi e che Lombardi. Alla fine, come piacque a·dDio, veggendosi assai di presso le dette due osti al luogo detto...., i Franceschi passarono sanza contasto di battaglia, e arrivarono alla città di Parma. Bene si disse che uno messer Buoso della casa di que’ da Duera di Chermona, per danari ch’ebbe da’ Franceschi, mise consiglio per modo che l’oste di Manfredi non fosse al contasto al passo, com’erano ordinati, onde poi il popolo di Chermona a·ffurore distrussono il detto legnaggio di quegli da Duera. Giunti i Franceschi alla città di Parma, furono ricevuti graziosamente; e gli usciti guelfi di Firenze e dell’altre città di Toscana, con più di CCCC cavalieri, onde aveano fatto loro capitano il conte Guido Guerra de’ conti Guidi, andarono loro incontro infino a Mantova. E quando i Franceschi si scontrarono con gli usciti guelfi di Firenze e di Toscana, parve loro sì bella gente e sì riccamente a cavagli e ad arme, che molto si maravigliarono che usciti di loro terre potessono esser così nobilemente adobbati, e la loro compagnia ebbono molto cara de’ detti nostri usciti. E poi gli scorsono e condussono per Lombardia a Bologna, e per Romagna, e per la Marca, e per lo Ducato, che per Toscana non poterono passare, però che tutta era a parte ghibellina e alla signoria di Manfredi; per la qual cosa misono molto tempo in loro viaggio, sicché prima fu l’entrante del mese di dicembre del detto anno MCCLXV, che giugnessono a Roma; e giunti loro alla città di Roma, il conte Carlo fu molto allegro, e gli ricevette a gran festa e onore.
V Come lo re Carlo fu coronato in Roma re di Cicilia, e come incontanente si partì con sua oste per andare incontro al re Manfredi.
Come la cavalleria del conte Carlo fu giunta a Roma, sì intese a prendere sua corona, e il dì della Befania, gli anni detti MCCLXV, per due cardinali legati e mandati dal papa fue consecrato in Roma e coronato del reame di Cicilia e di Puglia, egli e la donna sua, a grande onore; e sì tosto come fu finita la festa della sua coronazione, sanza alcuno soggiorno si mise al camino con sua oste per la via di Campagna inverso il regno di Puglia; e Campagna ebbe assai tosto grande parte sanza contasto al suo comandamento. Lo re Manfredi sentendo la loro venuta, del detto Carlo, e poi della sua gente, com’era passata per difalta della sua grande oste ch’era in Lombardia, fu molto cruccioso: incontanente mise tutto suo studio alla guardia de’ passi del Regno, e al passo al ponte a Cepperano mise il conte Giordano e quello di Caserta, i quali erano della casa di quegli d’Aquino, e con genti assai a piè e a cavallo, e in San Germano mise grande parte di sua baronia, Tedeschi e Pugliesi, e tutti i Saracini di Nocera coll’arcora e balestra e con molto saettamento, confidandosi più in quello riparo che inn-altro, per lo forte luogo e per lo sito, che dall’una parte ha grandi montagne e dall’altra paduli e marosi, ed era fornito di vittuaglia e di tutte cose bisognevoli per più di due anni. Avendo fatto il re Manfredi di fornimento a’ passi, come detto avemo, sì mandò suoi ambasciadori al re Carlo, per trattare co·llui triegue o pace; ed isposta loro ambasciata, il re Carlo di sua bocca volle fare la risposta, e disse in sua lingua in francesco: «Ales e dite moi a le sultam de Nocere: o gie metterai lui en enferne o il mettra moi em paradis»; ciò vuole dire: «Io non voglio altro che·lla battaglia, ove o io ucciderò lui, o egli me»; e ciò fatto, sanza soggiorno si mise al cammino. Avenne che giunto il re Carlo con sua oste a Fresolone in Campagna, iscendendo verso Cepperano, il detto conte Giordano che a quello passo era a guardia, veggendo venire la gente del re per passare, volle difendere il passo; il conte di Caserta disse ch’era meglio a lasciarne prima alquanti passare, sì gli avrebbono di là dal passo sanza colpo di spada. Il conte Giordano credendo che consigliasse il migliore, aconsentì, ma quando vide ingrossare la gente, ancora volle assalirgli con battaglia; allora il conte di Caserta, il quale era nel trattato, disse che·lla battaglia era di gran rischio, imperciò che troppi n’erano passati. Allora il conte Giordano veggendo sì possente la gente del re, abandonarono la terra e ’l ponte, chi dice per paura, ma i più dissono per lo trattato fatto da·re al conte di Caserta, imperciò ch’egli nonn-amava Manfredi, però che per la sua disordinata lussuria per forza avea giaciuto colla moglie del conte di Caserta, onde da·llui si tenea forte ontato, e volle fare questa vendetta col detto tradimento. E a questo diamo fede, però che furono de’ primi egli e’ suoi che s’arrenderono al re Carlo, e lasciato Cepperano, non tornaro a l’oste del re Manfredi a San Germano, ma si tennero in loro castella.
VI Come il re Carlo, avuto il passo di Cepperano, ebbe per forza la terra di San Germano.
Come lo re Carlo e sua oste ebbono preso il passo di Cepperano, presono Aquino sanza contasto, e per forza ebbono la rocca d’Arci, ch’è delle più forti tenute di quello paese; e ciò fatto, si misono a campo coll’oste a San Germano. Quegli della terra per lo forte luogo, e perch’era bene fornito di genti e di tutte cose, aveano per niente la gente del re Carlo, ma per dispregio, a·lloro ragazzi che menavano i cavagli a l’acqua faceano spregiare, e dire onta e villania, chiamando: «Ov’è il vostro Carlotto?». Per la qual cosa i ragazzi de’ Franceschi si misono a badaluccare e a combattere con quegli d’entro, per la qual cosa tutta l’oste de’ Franceschi si levò a romore. E temendo che ’l campo non fosse assalito, tutti furono ad arme i Franceschi subitamente, correndo inverso la terra; quegli d’entro non prendendosi di ciò guardia, non furono così tosto tutti a l’arme. I Franceschi con grande furore assalirono la terra, e dando battaglia da più parti; e chi migliore schermo non potea avere, ismontando de’ cavagli, e levando loro le selle, e con esse in capo andavano sotto le mura e torri della terra. Il conte di Vandomo con messer Gianni suo fratello, e co·lloro bandiera, i quali furono de’ primi che s’armarono, seguirono i ragazzi di que’ d’entro ch’erano usciti al badalucco, e cacciandogli, co·lloro insieme si misono dentro per una postierla ch’era aperta per ricoglierli; e ciò non fu sanza grande pericolo, imperciò che·lla porta era bene guardata da più gente d’arme, e rimasonvene e morti e fediti di quegli che seguivano il conte di Vandomo e ’l fratello; ma eglino per loro grande ardire e virtù pur vinsono la punga a la porta per forza d’arme, e entrarono dentro, e incontanente la loro insegna misono in su le mura. E de’ primi che gli seguirono furono gli usciti guelfi di Firenze, ond’era capitano il conte Guido Guerra, e la ’nsegna portava messer Stoldo Giacoppi de’ Rossi: i quali Guelfi alla presa del detto San Germano si portarono maravigliosamente e come buona gente, per la qual cosa quegli di fuori presono cuore e ardire, e chi meglio poteva si mettea dentro alla terra. Quegli d’entro, vedute le ’nsegne de’ nemici in su le mura, e presa la porta, molti ne fuggirono, e pochi ne stettono alla difensione; per la qual cosa la gente del re Carlo combattendo ebbono la terra di San Germano a dì X di febbraio MCCLXV, e fu tenuta grandissima maraviglia, per la fortezza della terra, e piuttosto fattura di Dio che forza umana, perché dentro v’avea più di M cavalieri e più di Vm pedoni, intra’ quali avea molti arcieri saracini di Nocera; ma per una zuffa che la notte dinanzi, come a Dio piacque, surse tra’ Cristiani e’ Saracini, della quale i Saracini furono soperchiati, il giorno appresso non furono in fede alla difensione della terra; e questa infra l’altre fu bene una delle cagioni perché perderono la terra di San Germano. Delle masnade di Manfredi furono assai morti e presi, e la terra tutta corsa e rubata per li Franceschi, e ivi soggiornò lo re e sua oste alquanto per prendere riposo, e per sapere gli andamenti di Manfredi.
VII Come lo re Manfredi andò a Benivento, e come ordinò sue schiere per combattere col re Carlo.
Lo re Manfredi intesa la novella della perdita di San Germano, e tornandone la sua gente sconfitti, fu molto isbigottito, e prese suo consiglio quello ch’avesse a·ffare, il quale fu consigliato per lo conte Calvagno, e per lo conte Giordano, e per lo conte Bartolomeo, e per lo conte camerlingo, e per gli altri suoi baroni ch’egli con tutto suo podere si ritraesse alla città di Benivento per forte luogo, e per avere la signoria di prendere la battaglia a sua posta, e per ritrarsi inverso Puglia, se bisognasse, e ancora per contradiare il passo al re Carlo, imperciò che per altra via non potea entrare in Principato e a Napoli, né passare in Puglia se non per la via di Benivento; e così fu fatto. Lo re Carlo sentendo l’andata di Manfredi a Benivento, incontanente si partì da San Germano, per seguirlo con sua oste, e non tenne il cammino diritto di Capova, e per Terra di Lavoro, imperciò che al ponte di Capova non avrebbe potuto passare, per la fortezza ch’è in su il fiume delle torri del ponte, e il fiume è grosso; ma si mise a passare il fiume del Voltorno presso a Tuliverno, ove si può guadare, e tenne per la contrada d’Alifi, e per aspri cammini delle montagne di beneventana, e sanza soggiorno, e con grande disagio di muneta e di vittuaglia, giunse all’ora di mezzogiorno a piè di Benevento, alla valle d’incontro alla città, per ispazio di lungi di due miglia alla riva del fiume di Calore, che corre a piè di Benevento. Lo re Manfredi veggendo apparire l’oste del re Carlo, avuto suo consiglio, prese partito del combattere, e d’uscire fuori a campo con sua cavalleria, per assalire la gente del re Carlo anzi che si riposassono; ma in ciò prese mal partito, che se fosse atteso uno o due giorni, lo re Carlo e sua oste erano morti e presi sanza colpo di spada, per difalta di vivanda per loro e per gli loro cavagli; ché ’l giorno dinanzi che giugnessono a piè di Benevento, per nicessità di vittuaglia, molti di sua oste convenne vivesse di cavoli, e’ loro cavagli di torsi, sanza altro pane, o biada per gli cavagli, e la moneta per dispendere era loro fallita. Ancora era la gente e forza del re Manfredi molto sparta, che messer Currado d’Antioccia era in Abruzzi con gente, il conte Federigo era in Calavra, il conte di Ventimiglia era in Cicilia: che se avesse alquanto atteso crescevano le sue forze; ma a cui Iddio vuole male gli toglie il senno. Manfredi uscito di Benevento con sua gente, passò il ponte ch’è sopra il detto fiume di Calore, nel piano ove si dice Santa Maria della Grandella, il luogo detto la pietra a Roseto; ivi fece tre battaglie overo schiere: l’una fu di Tedeschi di cui si rifidava molto, e erano bene MCC cavalieri, ond’era capitano il conte Calvagno; la seconda era di Toscani e Lombardi, e anche Tedeschi, in numero di M cavalieri, la quale guidava il conte Giordano; la terza fu de’ Pugliesi co’ Saracini di Nocera, la quale guidava lo re Manfredi, la quale era di MCCCC cavalieri, sanza i pedoni e gli arcieri saracini ch’erano in grande quantità.
VIII Come il re Carlo ordinò sue schiere per combattere col re Manfredi.
Lo re Carlo veggendo Manfredi e sua gente venuti a campo per combattere, ebbe suo consiglio di prendere la battaglia il giorno o d’indugiarla. Gli più de’ suoi baroni consigliarono del soggiorno infino a la mattina vegnente, per riposare i cavagli dell’affanno avuto per lo forte cammino, e messer Gilio il Bruno conastabole di Francia disse il contrario, e che indugiando, i nimici prenderanno cuore e ardire, e a·lloro potea al tutto fallire la vivanda, e che se altri dell’oste no·lla volesse la battaglia, egli solo col suo signore Ruberto di Fiandra e con sua gente si metterebbe alla ventura del combattere, avendo fidanza in Dio d’avere la vittoria contra’ nemici di santa Chiesa. Veggendo ciò il re Carlo, s’attenne e prese il suo consiglio, e per la grande volontà ch’avea del combattere, disse con alta voce a’ suoi cavalieri: «Venus est le iors ce nos avons tant desiré»; e fece sonare le trombe, e comandò ch’ogni uomo s’armasse e apparecchiasse per andare alla battaglia, e così in poca d’ora fu fatto. E ordinò, sì come i suoi nemici, a petto di loro tre schiere principali: la prima schiera era de’ Franceschi in quantità di M cavalieri, ond’erano capitani messer Filippo di Monforte e ’l maliscalco di Mirapesce; la seconda lo re Carlo col conte Guido di Monforte, e con molti de’ suoi baroni e cavalieri della reina, e co’ baroni e cavalieri di Proenza, e Romani, e Campagnini, ch’erano intorno di VIIIIc cavalieri, e le ’nsegne reali portava messer Guiglielmo lo Stendardo, uomo di grande valore; la terza fu guidatore Ruberto conte di Fiandra col suo maestro Gilio maliscalco di Francia, con Fiamminghi, e Bramanzoni, e Annoieri, e Piccardi, in numero di VIIc cavalieri. E di fuori di queste schiere furono gli usciti guelfi di Firenze con tutti gl’Italiani, e furono più di CCCC cavalieri, de’ quali molti di loro delle maggiori case di Firenze si feciono cavalieri per mano del re Carlo in su il cominciare della battaglia; e di questa gente, Guelfi di Firenze e di Toscana, era capitano il conte Guido Guerra, e la ’nsegna di loro portava in quella battaglia messer Currado da Montemagno di Pistoia. E veggendo il re Manfredi fatte le schiere, domandò della schiera quarta che gente erano, i quali comparivano molto bene inn-arme e in cavagli e in arredi e sopransegne; fugli detto ch’erano la parte guelfa usciti di Firenze e dell’altre terre di Toscana. Allora si dolfe Manfredi dicendo: «Ov’è l’aiuto ch’io hoe dalla parte ghibellina, ch’io ho cotanto servita, e messo in loro cotanto tesoro?», e disse: «Quella gente», cioè la schiera de’ Guelfi, «non possono oggi perdere»; e ciò venne a dire, s’egli avesse vittoria ch’egli sarebbe amico de’ Guelfi di Firenze, veggendogli sì fedeli al loro signore e a·lloro parte, e nemico de’ Ghibellini.
IX Come la battaglia dal re Carlo al re Manfredi fu, e come il re Manfredi fu sconfitto e morto.
Ordinate le schiere de’ due re nel piano della Grandella per lo modo detto dinanzi, e ciascuno de’ detti signori amonita la sua gente di ben fare, e dato il nome per lo re Carlo a’ suoi, «Mongioia, cavalieri», e per lo re Manfredi a’ suoi, «Soavia, cavalieri», il vescovo d’Alsurro, siccome legato del papa, asolvette e benedisse tutti quelli dell’oste del re Carlo, perdonando colpa e pena, però ch’essi combatteano in servigio di santa Chiesa. E ciò fatto, si cominciò l’aspra battaglia tra le prime due schiere de’ Tedeschi e de’ Franceschi, e fu sì forte l’asalto de’ Tedeschi, che malamente menavano la schiera de’ Franceschi, e assai gli feciono rinculare adietro, e presono campo. E ’l buono re Carlo veggendo i suoi così malmenare, non tenne l’ordine della battaglia di difendersi colla seconda schiera, avisandosi che se la prima schiera de’ Franceschi ove avea tutta sua fidanza fosse rotta, piccola speranza di salute attendea dell’altre; incontanente colla sua schiera si mise al soccorso della schiera de’ Franceschi contro a quella de’ Tedeschi; e come gli usciti di Firenze e loro schiera vidono lo re Carlo fedire alla battaglia, si misono appresso francamente, e feciono maravigliose cose d’arme il giorno, seguendo sempre la persona del re Carlo; e simile fece il buono Gilio il Bruno conastabile di Francia con Ruberto di Fiandra con sua schiera, e da l’altra parte fedì il conte Giordano colla sua schiera, onde la battaglia fu aspra e dura, e grande pezza durò, che non si sapea chi avesse il migliore; però che gli Tedeschi per loro virtude e forza colpendo di loro spade, molto danneggiavano i Franceschi. Ma subitamente si levò uno grande grido tra·lle schiere de’ Franceschi, chi che ’l si cominciasse, dicendo: «Agli stocchi, agli stocchi, a fedire i cavagli!»; e così fu fatto, per la qual cosa in piccola d’ora i Tedeschi furono molto malmenati e molto abattuti, e quasi inn isconfitta volti. Lo re Manfredi, lo quale con sua schiera de’ Pugliesi stava al soccorso dell’oste, veggendo gli suoi che non poteano durare la battaglia, sì confortò la sua gente della sua schiera, che ’l seguissono alla battaglia, da’ quali fu male inteso, però che la maggiore parte de’ baroni pugliesi e del Regno, in tra gli altri il conte camerlingo, e quello della Cerra, e quello di Caserta e altri, o per viltà di cuore, o veggendo a loro avere il peggiore, e chi disse per tradimento, come genti infedeli e vaghi di nuovo signore, si fallirono a Manfredi, abandonandolo e fuggendosi chi verso Abruzzi e chi verso la città di Benevento. Manfredi rimaso con pochi, fece come valente signore, che innanzi volle in battaglia morire re, che fuggire con vergogna; e mettendosi l’elmo, una aquila d’argento ch’egli avea ivi su per cimiera gli cadde in su l’arcione dinanzi. E egli ciò veggendo isbigottì molto, e disse a’ baroni che gli erano dal lato in latino: «Hoc est signum Dei, però che questa cimiera appiccai io colle mie mani in tal modo che non dovea potere cadere». Ma però non lasciò, ma come valente signore prese cuore, e incontanente si mise alla battaglia, non con sopransegne reali per non esser conosciuto per lo re, ma come un altro barone, lui fedendo francamente nel mezzo della battaglia. Ma però i suoi poco duraro, che già erano in volta: incontanente furono sconfitti, e lo re Manfredi morto in mezzo de’ nemici, dissesi per uno scudiere francesco, ma non si seppe il certo. In quella battaglia ebbe gran mortalità d’una parte e d’altra, ma troppo più della gente di Manfredi. E fuggendo del campo verso Benevento, cacciati da quegli dell’oste del re Carlo, infino nella terra, che·ssi facea già notte, gli seguirono, e presono la città di Benevento, e quegli che fuggieno. Molti de’ baroni caporali del re Manfredi rimasono presi: intra gli altri furono presi il conte Giordano, e messer Piero Asini degli Uberti, i quali il re Carlo mandò in pregione in Proenza, e di là d’aspra morte in carcere gli fece morire. Gli altri baroni pugliesi e tedeschi ritenne in pregione in diversi luoghi nel Regno. E pochi dì apresso la moglie del detto Manfredi e’ figliuoli e la suora, i quali erano in Nocera de’ Saracini in Puglia, furono renduti presi al re Carlo, i quali poi morirono in sua pregione. E bene venne a Manfredi e a sue rede la maladizione d’Iddio, e assai chiaro si mostrò il giudizio d’lddio in lui, perch’era scomunicato e nimico e persecutore di santa Chiesa. Nella sua fine, di Manfredi si cercò più di tre giorni, che non si ritrovava, e non si sapea se fosse morto, o preso, o scampato, perché nonn-avea avuto a la battaglia indosso armi reali. Alla fine per uno ribaldo di sua gente fu riconosciuto per più insegne di sua persona in mezzo il campo ove fu la battaglia. E trovato il suo corpo per lo detto ribaldo, il mise traverso in su uno asino, vegnendo gridando: «Chi acatta Manfredi, chi acatta Manfredi?»; il quale ribaldo da uno barone del re fu battuto, e recato il corpo di Manfredi dinanzi al re, fece venire tutti i baroni ch’erano presi, e domandato ciascuno s’egli era Manfredi, tutti temorosamente dissono di sì. Quando venne il conte Giordano sì si diede delle mani nel volto piagnendo e gridando: «Omè, omè, signore mio!»; onde molto ne fu commendato da’ Franceschi, e per alquanti de’ baroni del re fu pregato che gli facesse fare onore alla seppultura. Rispuose il re: «Si feisse ie volontiers, s’il non fust scomunié»; ma imperciò ch’era scomunicato, non volle il re Carlo che fosse recato in luogo sacro; ma appiè del ponte di Benevento fu soppellito, e sopra la sua fossa per ciascuno dell’oste gittata una pietra, onde si fece grande mora di sassi. Ma per alcuni si disse che poi per mandato del papa il vescovo di Cosenza il trasse di quella sepultura, e mandollo fuori del Regno, ch’era terra di Chiesa, e fu sepolto lungo il fiume del Verde a’ confini del Regno e di Campagna: questo però nonn-affermiamo. Questa battaglia e sconfitta fu uno venerdì, il sezzaio di febbraio, gli anni di Cristo MCCLXV.
X Come lo re Carlo ebbe la signoria de’ Regno e di Cicilia, e come don Arrigo di Spagna venne a·llui.
Come il re Carlo ebbe sconfitto e morto Manfredi, la sua gente furono tutti ricchi delle spoglie del campo, e maggioremente de’ signoraggi e de’ baronaggi che teneano i baroni di Manfredi, che in poco tempo appresso tutte le terre del Regno, di Puglia e gran parte di quelle dell’isola di Cicilia feciono le comandamenta del re Carlo; delle quali baronie, e signoraggi, e fii de’ cavalieri rinvestì a tutti coloro che·ll’aveano servito, Franceschi, e Provenzali, e Latini, ciascuno secondo il suo grado. E quando il re Carlo venne in Napoli, da’ Napoletani fu ricevuto come signore a grande onore, e ismontò al castello di Capova, il quale avea fatto fare lo ’mperadore Federigo, nel quale trovò il tesoro di Manfredi quasi tutto in oro di terì spezzato, il quale si fece venire innanzi, e porre in su’ tappeti ov’era egli e la reina e messer Beltram del Balzo; e fece venire bilance, e disse a messer Beltram che ’l partisse. Il magnanimo cavaliere disse: «Che a gie a fer de balance a departir vostre tesor?», ma co’ piedi vi salì suso, e co’ piedi ne fece tre parti: «L’una parte», disse, «sia di monsignor lo re, e l’altra di madama la reina, e l’altra sia de’ vostri cavalieri»; e così fu fatto. Lo re veggendo la magnanimità di messere Beltram, incontanente gli diede la contea d’Avellino, e fecenelo conte. E poco appresso a·re non piacque d’abitare nel castello di Capova, perch’era abitato al modo tedesco; ordinò che si facesse castello nuovo al modo francesco, il quale è presso a San Piero in Castello da l’altra parte di Napoli. E poco tempo appresso tutti i baroni pugliesi, i quali lo re avea presi alla battaglia, fece scapolare, e a molti rendé loro terre e retaggi, per avere più l’amore di que’ del paese; della qual cosa, di gran parte, fece il peggiore per la rea uscita che poco tempo appresso gli feciono certi de’ detti baroni pugliesi, siccome innanzi faremo menzione. Avenne poco tempo appresso, il seguente anno che il re Carlo ebbe il reame e signoria di Cicilia e di Puglia, che don Arrigo figliuolo secondo del re di Spagna cugino del re Carlo, nato di serocchia e di fratello, il quale era stato in Africa a’ soldi del re di Tunisi, udendo lo stato del re suo cugino, passò di Tunisi in Puglia con più di VIIIc cavalieri spagnuoli, molto bella e buona gente; il quale don Arrigo dal re Carlo fu ricevuto graziosamente, e ritenuto a’ suoi soldi, e in luogo di lui il fece senatore di Roma, e guardia di tutte le terre di Campagna e dal Patrimonio. Ma il detto don Arrigo, il quale da Tunisi era tornato ricco di danari, per bisogno del re Carlo gli prestò, si dice, XLm dobble d’oro, le quali non riebbe mai, onde nacque poi grande scandalo tra·lloro, come innanzi faremo menzione. E intra l’altre cagioni della discordia da don Arrigo e lo re fu che don Arrigo procacciava colla Chiesa d’avere l’isola di Sardigna, e lo re Carlo la volea per sé; e per la discordia no·ll’ebbe né·ll’uno né·ll’altro; e per questo isdegno don Arrigo si fece nimico, e in parte nonn-ebbe il torto, che lo re Carlo avea bene tanta terra, che bene dovea volere che ’l suo cugino avesse quella poca, ma per l’avarizia e invidia nol volle a vicino; e don Arrigo disse: «Per lo cor Dio, o el mi matrà, o io il matrò». Lasceremo ora alquanto de’ fatti del re Carlo, e diremo d’altre cose che furono in quelli tempi, tornando a nostra materia de’ fatti di Firenze,, che per la vittoria del re Carlo ebbe grandi mutazioni.
XI Come i Saracini di Barberia passarono inn-Ispagna, e come vi furono sconfitti.
Negli anni di Cristo MCCLXVI grandissimo esercito di numero di Saracini passarono d’Africa per lo stretto di Sibilia per racquistare la Spagna e l’Araona, e agiunti co’ Saracini di Granata, i quali ancora abitavano in Ispagna, grande danno feciono a’ Cristiani. Ma sentendo ciò lo re di Spagna, col re di Portogallo e con quello d’Araona raunati insieme, e con molti altri Cristiani di croce segnati per indulgenzia di colpa e pena data per lo papa e per la Chiesa di Roma, co’ detti Saracini ebbono grande battaglia, e dopo molto sangue de’ Cristiani sparto, i Saracini furono sconfitti e morti, che quasi di quegli che passarono non ne campò niuno che non fosse morto o preso, e simile molti di quelli di Granata. E nota che come i Cristiani fanno loro podere di raquistare la Terrasanta per boti, per promesse, e lasci di moneta, o prendere croce, e pellegrinaggi per indulgenzia de’ loro peccati, per simile modo fanno i Saracini per racquistare la Spagna, e per mantenere la terra di Granata, la quale ancora tengono di qua da mare i Saracini a grande obbrobbio e vergogna de’ Cristiani.
XII Come i Fiorentini ghibellini assediarono Castello Nuovo in Valdarno, e come se ne partirono a modo di sconfitti.
Ne’ tempi che il re Carlo fu coronato a Roma, come è fatta menzione, il vescovo d’Arezzo, ch’era degli Ubertini, tutto fosse Ghibellino, perché non era in accordo cogli Aretini, né col conte Guido Novello vicario per Manfredi in Toscana, perché gl’ingiuriavano il vescovado e sue terre, sì diede in guardia le sue castella agli usciti guelfi di Firenze, i quali per lo favore della venuta del re Carlo feciono gran guerra in Valdarno a’ Ghibellini che teneano Firenze, e aveano preso Castelnuovo in Valdarno. Per la qual cosa le masnade de’ Fiorentini ch’erano col conte Guido Novello, con gente a piè assai, e con certi caporali ghibellini cittadini di Firenze, v’andarono ad oste, e a quello diedono più battaglie per modo che quasi più non si potea tenere, se non fosse il senno e sagacità di guerra ch’usò messer Uberto Spiovanato de’ Pazzi di Valdarno del lato guelfo, ch’era capitano in quello castello, il quale prese e levò uno suggello di cera intero d’una lettera ch’egli avea avuta dal detto vescovo suo zio d’altra materia, e fece fare una lettera, dicendo come francamente si dovesse tenere, imperciò che di presente avrebbono soccorso di VIIIc cavalieri franceschi del re Carlo, e rimise il suggello a quella, e miselasi in borsa di seta con altre lettere e con danari. E uscito fuori ad uno badalucco, cautamente la borsa si tagliò e lasciolla; la quale da’ nemici trovata, fu portata a’ capitani, e letta la detta lettera, diedono fede alla venuta de’ Franceschi. Incontanente presono partito di levarsi da oste, e per la fretta si partiro a modo di sconfitta, co·lloro danno e vergogna tornato in Firenze; per la qual cosa quasi tutte le terre di Valdarno si rubellarono a’ Ghibellini. In questi tempi venne in Firenze uno Saracino ch’avea nome Buzzeca, ed era il migliore maestro di giucare a scacchi, e in su il palagio del popolo dinanzi al conte Guido Novello giucò a un’ora a tre scacchieri co’ migliori maestri di scacchi di Firenze, cogli due a mente, e coll’uno a veduta; e gli due giuochi vinse, e l’uno fece tavola; la qual cosa fu tenuta grande maraviglia.
XIII Come in Firenze si feciono i XXXVI e come si diede ordine e gonfaloni a l’arti.
Come la novella fu in Firenze e per Toscana della sconfitta di Manfredi, i Ghibellini e i Tedeschi cominciarono ad invilire e avere paura in tutte parti, e’ Guelfi usciti di Firenze ch’erano ribelli, e tali a’ confini per lo contado e in più parti, cominciarono a invigorire e a prendere cuore e ardire. E faccendosi presso alla città, ordinarono dentro alla terra novità e mutazioni, per trattati co’ loro amici d’entro, che s’intendeano con loro, e vennero infino ne’ Servi Sancte Marie a fare consiglio, avendo speranza di loro gente ch’erano stati alla vittoria col re Carlo, i quali attendeano con gente de’ Franceschi in loro aiuto; onde il popolo di Firenze ch’era più Guelfo che Ghibellino d’animo per lo danno ricevuto, chi di padre, chi di figliuolo, e chi di fratelli, alla sconfitta di Monte Aperti, simile cominciarono a rinvigorire, e a mormorare, e parlare per la città, dogliendosi delle spese e incarichi disordinati che riceveano dal conte Guido Novello e dagli altri che reggeano la terra. Onde quegli che reggeano la città di Firenze a parte ghibellina, sentendo nella città il detto subuglio e mormorio, e avendo paura che ’l popolo non si rubellasse contro a·lloro per una cotale mezzanità, e per contentare il popolo, elessono due cavalieri frati godenti di Bologna per podestadi di Firenze, che l’uno ebbe nome messer Catalano de’ Malavolti, e l’altro messer Loderigo delli Andalò, e l’uno era tenuto di parte guelfa, ciò era messer Catalano, e l’altro di parte ghibellina. E nota che’ frati godenti erano chiamati cavalieri di santa Maria, e cavalieri si faceano quando prendeano quello abito, che·lle robe aveano bianche e uno mantello bigio, e l’arme il campo bianco e la croce vermiglia con due stelle, e doveano difendere le vedove e’ pupilli, e intramettersi di paci; e altri ordini, come religiosi, aveno. E il detto messer Loderigo ne fu cominciatore di quello ordine; ma poco durò, che seguiro al nome il fatto, cioè d’intendere più a godere ch’ad altro. Questi due frati per lo popolo di Firenze furono fatti venire, e misongli nel palagio del popolo d’incontro a la Badia, credendo che per l’onestà dell’abito fossono comuni, e guardassono il Comune di soperchie spese; i quali, tutto che d’animo di parte fossono divisi, sotto coverta di falsa ipocresia furono in concordia più al guadagno loro propio ch’al bene comune; e ordinarono XXXVI buoni uomini mercatanti e artefici, de’ maggiori e migliori che fossono nella cittade, i quali dovessono consigliare le dette due potestadi, e provedere alle spese del Comune; e di questo novero furono de’ Guelfi e de’ Ghibellini, popolani e grandi non sospetti, ch’erano rimasi in Firenze alla cacciata de’ Guelfi. E raunavansi i detti XXXVI a consigliare ogni dì per lo buono stato comune della città nella bottega e corte de’ consoli di Calimala, ch’era a piè di casa i Cavalcanti in Mercato Nuovo, i quali feciono molti buoni ordini e stato comune della terra, intra’ quali ordinarono che ciascuna delle VII arti maggiori di Firenze avessono consoli e capitudini, e ciascuna avesse suo gonfalone e insegna, acciò che se nella città si levasse niuno con forza d’arme, sotto i loro gonfaloni fossono a la difesa del popolo e del Comune. E le ’nsegne delle VII arti maggiori furono queste: i giudici e notari, il campo azzurro e una stella grande ad oro; i mercatanti di Calimala, cioè de’ panni franceschi, il campo rosso con una aguglia ad oro in su uno torsello bianco; i cambiatori, il campo vermiglio e fiorini d’oro iv’entro seminati; l’arte della lana, il campo vermiglio iv’entro uno montone bianco; i medici e speziali, il campo vermiglio iv’entro santa Maria col figliuolo Cristo in collo; l’arte de’ setaiuoli e merciari, il campo bianco e una porta rossa iv’entro per lo titolo di porte Sante Marie; i pillicciai, l’arme a vai, e nell’uno capo uno agnus Dei in campo azzurro. L’altre V seguenti alle maggiori arti s’ordinarono poi quando si criò in Firenze l’uficio de’ priori dell’arti, come a tempo più innanzi faremo menzione; e fu loro ordinato, per simile modo delle VII arti, gonfaloni e arme. Ciò furono i baldrigari, ciò sono mercatanti di ritaglio di panni fiorentini, calzaiuoli, e pannilini, e rigattieri, la ’nsegna bianca e vermiglia; i beccari, il campo giallo e un becco nero; i calzolai, atraverso listata bianca e nero, chiamata pezza gagliarda; i maestri di pietre e di legname, il campo rosso iv’entro la sega, e la scure, e mannaia, e piccone; i fabbri e ferraiuoli, il campo bianco e tanaglie grandi nere.
XIV Come in Firenze si levò il secondo popolo, per la quale cagione il conte Guido Novello co’ caporali ghibellini uscirono di Firenze.
Per le dette novitadi fatte in Firenze per le dette due podestadi e per gli XXXVI, i grandi Ghibellini di Firenze, com’erano Uberti, e Fifanti, e Lamberti, e Scolari, e gli altri delle grandi case ghibelline, presono sospetto di parte, parendo loro che’ detti XXXVI sostenessono e favorassono i Guelfi popolani ch’erano rimasi in Firenze, e ch’ogni novità fosse contro a parte. Per questa gelosia, e per la novella della vittoria del re Carlo, il conte Guido Novello mandò per genti a tutte l’amistà vicine, come furono Pisani, Sanesi, Aretini, Pistolesi, e Pratesi, e Volterrani, Colle, e Sangimignano, sì che con VIc Tedeschi ch’avea si trovarono in Firenze con MD cavalieri. Avenne che per pagare le masnade tedesche ch’erano col conte Guido Novello capitano della taglia, il quale volea che si ponesse una libbra di soldi X il centinaio, i detti XXXVI cercavano altro modo di trovare danari con meno gravezza del popolo, e per questa cagione aveano indugiato alquanti dì più che non parea al conte e agli altri grandi Ghibellini di Firenze; per lo sospetto preso per gli ordini fatti per lo popolo, i detti grandi ordinarono di mettere la terra a romore, e disfare l’oficio de’ detti XXXVI col favore della grande cavalleria ch’avea il vicario in Firenze, e armatisi, i primi che cominciarono furono i Lamberti, che co·lloro masnadieri armati uscirono di loro case in Calimala, dicendo: «Ove sono questi ladroni de’ XXXVI, che noi gli taglieremo tutti per pezzi?»; i quali XXXVI erano allora al consiglio insieme nella bottega ove i consoli di Calimala teneano ragione sotto casa i Cavalcanti in Mercato Nuovo. Sentendo ciò i XXXVI si partirono dal consiglio, e incontanente si levò la terra a romore, e serrarsi le botteghe, e ogni uomo fu a l’arme. Il popolo si ridusse tutto nella via larga di Santa Trinita, e messer Gianni de’ Soldanieri si fece capo del popolo per montare inn-istato, non guardando al fine, che dovea riuscire a sconcio di parte ghibellina e suo dammaggio, che sempre pare sia avenuto in Firenze a chi s’è fatto capo di popolo; e così armati a piè di casa i Soldanieri s’amassarono i popolani in grandissimo numero, e feciono serragli a piè della torre de’ Girolami. Il conte Guido Novello con tutta la cavalleria e con grandi Ghibellini di Firenze furono in arme e a cavallo in su la piazza di San Giovanni, e mossonsi per andare contro al popolo, e schierarsi a la ’ncontra del serraglio in su i calcinacci delle case de’ Tornaquinci, e feciono vista e saggio di combattere, e alcuno Tedesco a cavallo si mise infra il serraglio; il popolo francamente si tenne difendendo colle balestra, e gittando dalle torri e case. Veggendo ciò il conte, che non poteano diserrare il popolo, volse le ’nsegne, e con tutta la cavalleria ritornò in su la piazza di San Giovanni, e poi venne al palagio nella piazza di San Pulinari, ov’erano le due podestadi, messer Catalano e messer Loderigo frati godenti, e tenea la cavalleria da porte San Piero infino a San Firenze. Il conte domandava le chiavi delle porti della città per partirsi della terra, e per tema non gli fosse gittato delle case; e per sua sicurtà si mise il conte dall’uno lato Uberto de’ Pulci, e dall’altro Cerchio de’ Cerchi, e di dietro Guidingo Savorigi, ch’erano de’ detti XXXVI e de’ maggiori della terra. I detti due frati gridando del palagio, e chiamando con grandi grida i detti Uberto e Cerchio ch’andassono a·lloro, acciò che pregassono il conte che·ssi tornasse all’albergo e non si dovesse partire, ch’eglino aqueterebbono il popolo, e farebbono che’ soldati sarebbono pagati: il conte entrato in gelosia e in paura del popolo più che non gli bisognava, non si volle attendere, ma volle pur le chiavi delle porti, e ciò mostrò che fosse più opera di Dio che altra cagione; che quella cavalleria sì grande e possente non combattuti, non cacciati, né acommiatati, né forza di nimici non era contro a·lloro; che perché il popolo fosse armato e raunato insieme, erano più per paura che per offendere al conte e a sua cavalleria, e tosto sarebbono aquetati, e tornati a·lloro case, e disarmati. Ma quando è presto il giudicio di Dio è aparecchiata la cagione. Il conte avute le chiavi, essendo grande silenzio, fece gridare se v’erano tutti i Tedeschi: fu risposto di sì; appresso disse de’ Pisani, e simile di tutte le terre della taglia, e risposto di tutti di sì, disse al suo banderaio che si movesse colle ’nsegne; e così fu fatto. E tennero la via larga da San Firenze, e dietro da Santo Piero Scheraggio, e da San Romeo alla porta vecchia de’ Buoi, e quella fatta aprire, il conte con tutta sua cavalleria n’uscì, e tenne su per li fossi dietro a Sa·Jacopo, e dalla piazza di Santa Croce, ch’allora nonn avea case, e per lo borgo di Pinti; e in quello fu loro gittato de’ sassi; e volsonsi per Cafaggio, e la sera se n’andarono in Prato; e ciò fu il dì di santo Martino, a dì XI di novembre, gli anni di Cristo MCCLXVI.
XV Come il popolo rimise i Guelfi in Firenze, e come poi ne cacciarono i Ghibellini.
Giunto in Prato il conte Guido Novello con tutta sua cavalleria e con molti caporali ghibellini di Firenze, furono ravisati ch’egli aveano fatta gran follia a partirsi della città di Firenze sanza colpo di spada od essere cacciati; e parve loro avere mal fatto, e presono per consiglio di tornare a Firenze la mattina vegnente, e così feciono; e giunsono tutti armati e schierati in su l’ora di terza a la porta del ponte alla Carraia ov’è oggi il borgo d’Ognesanti, ch’allora non v’avea case, e domandarono che fosse loro aperta la porta. Il popolo di Firenze fu ad arme, e per tema che rientrando il conte colla sua cavalleria in Firenze non volesse fare vendetta, e correre la terra, s’accordarono di non aprire, ma di difendere la terra, la quale era molto forte di mura e di fossi pieni d’acqua alle cerchie seconde. E volendosi strignere alla porta, furono saettati e fediti; e dimorati infino dopo nona, né per lusinghe né per minacce non poterono tornare dentro. Si tornarono tristi e scornati a Prato, e tornando per cruccio diedono battaglia al castello di Capalle, e no·ll’ebbono. E venuti in Prato, ebbono tra·lloro di molti ripitii; ma dopo cosa male consigliata e peggio fatta invano è il pentere. I Fiorentini rimasi riformarono la terra, e mandarono fuori le dette due podestadi frati godenti di Bologna, e mandarono ad Orbivieto per aiuto di gente, e per podestà e capitano; i quali Orbitani mandarono C cavalieri alla guardia della terra: e messer Ormanno Monaldeschi fu podestà, e un altro gentile uomo d’Orbivieto ne fu capitano del popolo. E per trattato di pace il gennaio vegnente il popolo rimise in Firenze i Guelfi e’ Ghibellini, e feciono fare tra·lloro più matrimonii e parentadi. Intra li quali questi furono i maggiorenti, che messer Bonaccorso Bellincioni degli Adimari diede per moglie a messer Forese suo figliuolo la figliuola del conte Guido Novello, e messer Bindo suo fratello tolse una degli Ubaldini, e messer Cavalcante de’ Cavalcanti diede per moglie a Guido suo figliuolo la figliuola di messer Farinata degli Uberti, e messer Simone Donati diede la figliuola a messer Azzolino di messer Farinata degli Uberti; per gli quali parentadi gli altri Guelfi di Firenze gli ebbono tutti a sospetti a parte; e per la detta cagione poco durò la detta pace, ché tornati i detti Guelfi in Firenze, sentendosi poderosi della baldanza della vittoria ch’aveano avuta col re Carlo contro a Manfredi, segretamente mandarono in Puglia al detto re Carlo per gente e per uno capitano, il quale mandò il conte Guido di Monforte con VIIIm cavalieri franceschi; e giunse in Firenze il dì della Pasqua di Risoresso, gli anni di Cristo MCCLXVII. E sentendo i Ghibellini la sua venuta, la notte dinanzi uscirono di Firenze sanza colpo di spada, e andarsene a Siena, e chi a Pisa, e inn-altre castella. I Fiorentini guelfi diedono la signoria della terra al re Carlo per X anni; e mandatagli la elezione libera e piena con mero e misto imperio per solenni ambasciadori, lo re rispuose che de’ Fiorentini volea il cuore e la loro buona volontà, e non altra giuridizione; tuttora a priego del Comune la prese simplicemente; al quale reggimento vi mandava d’anno in anno suoi vicarii e XII buoni uomini cittadini che col vicario reggeano la cittade. E puossi notare in questa cacciata de’ Ghibellini che fu in quello medesimo dì di Pasqua di Risoresso ch’eglino aveano commesso il micidio di messere Bondelmonte de’ Bondelmonti, onde si scoprirono le parti in Firenze, e se ne guastò la città; e parve che fosse giudicio d’Iddio, che mai poi non tornarono inn-istato.
XVI Come, cacciati i Ghibellini di Firenze, si riformò la città d’ordini e di consigli.
Tornata parte guelfa in Firenze, e venuto il vicario overo podestà per lo re Carlo, che ’l primo fu messer...., e fatti XII buoni uomini a modo ch’anticamente faceano gli anziani che reggeano la repubblica, sì riformarono il consiglio di C buoni uomini di popolo, sanza la diliberazione de’ quali nulla grande cosa né spesa si potea fare; e poi che per quello consiglio si vincesse, andava a partito a pallottole al consiglio delle capitudini dell’arti maggiori, e a quello della credenza, ch’erano LXXX. Questi consiglieri, che col generale erano CCC, erano tutti popolani e Guelfi: poi vinti a’ detti consigli, convenia il dì seguente le medesime proposte rimettere al consiglio della podestà, ch’era il primo di LXXXX uomini grandi e popolani, e co·lloro ancora le capitudini dell’arti, e poi il consiglio generale, ch’erano CCC uomini d’ogni condizioni, e questi si chiamavano i consigli opportuni; e in quegli si davano le castellanerie, dignità, ufici piccoli e grandi; e ciò ordinato, feciono àrbitri, e corressono tutti statuti e ordinamenti, e ordinarono ogni anno si facessono. In questo modo s’ordinò lo stato e corso del Comune e del popolo di Firenze alla tornata de’ Guelfi; e camerlenghi della pecunia feciono religiosi di Settimo e d’Ognesanti di sei in sei mesi.
XVII Come i Guelfi di Firenze ordinarono gli ordini di parte.
In questi tempi, cacciati i Ghibellini di Firenze, i Guelfi che vi tornarono, avendo tra·lloro questioni per gli beni de’ Ghibellini ribelli, sì mandarono loro ambasciadori a corte a papa Urbano e al re Carlo, che gli dovesse ordinare. Il quale papa Urbano e il re Carlo per loro stato e pace gli ordinarono in questo modo, che de’ beni fossono fatte tre parti: l’una fosse del Comune; l’altra fu diputata per amenda de’ Guelfi ch’erano stati disfatti e rubelli; l’altra fu diputata a la parte guelfa certo tempo; ma poi tutti i detti beni rimasono a la parte, onde ne cominciarono a·ffare mobile, e ogni dì il cresceano, per avere da dispendere quando bisognasse per la parte; del quale mobile, udendolo il cardinale Attaviano degli Ubaldini, disse: «Dapoi che’ Guelfi di Firenze fanno mobile, già mai non vi tornano i Ghibellini». E feciono per mandato del papa e del re i detti Guelfi tre cavalieri rettori di parte, e chiamargli prima consoli de’ cavalieri, e poi gli chiamarono capitani di parte; e durava il loro uficio due mesi, a tre sesti a tre sesti, e raunarsi a’ loro consigli nella chiesa nuova di Santa Maria sopra Porta, per lo più comune luogo della città, e dov’ha più case guelfe intorno. E feciono loro consiglio segreto di XIIII, e il maggiore consiglio di LX grandi e popolani, per lo cui scruttino s’eleggessono i capitani di parte e gli altri uficiali. E chiamarono tre grandi e tre popolani priori di parte, i quali sono sopra l’ordine e guardia della moneta della parte, e uno che tenesse il suggello, e uno sindaco accusatore de’ Ghibellini. E tutte loro segrete cose dipongono alla chiesa de’ Servi Sante Marie. Per simili ordini e capitani feciono gli usciti ghibellini. Assai avemo detto degli ordini di parte, e torneremo a’ fatti comuni, e altre cose.
XVIII Come il soldano de’ Saracini prese Antioccia.
Ne’ detti tempi, gli anni di Cristo MCCLXVII, il soldano di Babbillonia con suo esercito de’ Saracini corse e guastò quasi tutta l’Erminia, ch’erano e sono Cristiani; e poi si puose ad assedio alla città d’Antioccia, ch’era delle famose terre del mondo, e era de’ Cristiani, e quella prese per forza del mese di maggio, e quanti Cristiani, uomini e femmine e fanciulli, v’erano dentro, furono morti e presi e menati per ischiavi, onde per tutta Cristianità n’ebbe grande dolore; ma per lo peccato per gli Cristiani s’intendea più alle guerre tra·lloro per le maladette parti, ch’al benificio comune di fare guerra co’ Saracini.
XIX Come i Guelfi di Firenze presono il castello di Santellero con molti ribelli ghibellini.
Nel detto anno di Cristo MCCLXVII, del mese di giugno, essendo di poco cacciata la parte ghibellina di Firenze, una gente de’ detti Ghibellini, pur de’ migliori e caporali, si rinchiusono co·lloro masnade nel castello di Santo Ellero, onde fu loro capitano messer Filippo da Quona, overo da Volognano, e cominciarono guerra a la città di Firenze. Per la qual cosa i Fiorentini guelfi v’andarono ad oste le due sestora, e andovvi il maliscalco del re Carlo con tutta la cavalleria de’ Franceschi ch’erano co·llui, e per battaglia ebbono il detto castello, nel quale avea rinchiusi bene VIIIc uomini, che·lla maggiore parte furono morti e tagliati, e parte presi; e rimasonvi di quegli della casa degli Uberti, e de’ Fifanti, e Scolari, e di quegli da Volognano, e di più altre case ghibelline uscite di Firenze, e loro seguaci, onde i Ghibellini ricevettono gran dammaggio, e allora perderono anche i Ghibellini Campi di Firacchi, e Gressa; e dicesi che uno giovane degli Uberti il quale era fuggito in sul campanile, veggendo che non potea scampare, per non venire a mano de’ Bondelmonti suoi nemici, si gittò di sua volontà del campanile in terra, e morì. E Geti da Volognano fu menato preso con altri suoi consorti, e messo nella torre del palagio; e però poi sempre fu chiamata la Volognana.
XX Come molte città e terre di Toscana tornarono a parte guelfa.
In quegli tempi che·lla città di Firenze tornò a parte guelfa, e furonne cacciati i Ghibellini, e venuto in Toscana il maliscalco del re Carlo, come adietro avemo fatta menzione, molte delle terre di Toscana tornarono a parte guelfa, e cacciarono i Ghibellini, come fu la città di Lucca, e di Pistoia, e Volterra, e Prato, e San Gimignano, e Colle, e feciono taglia co’ Fiorentini, ond’era capitano il maliscalco del re Carlo con VIIIc cavalieri franceschi, e non rimase a parte ghibellina se non la città di Pisa e di Siena; e così in poco di tempo si rivolse lo stato in Toscana e in molte terre di Lombardia di tornare a parte guelfa e della Chiesa, ch’erano a parte ghibellina e d’imperio, per la sconfitta del re Manfredi e vittoria del re Carlo. E però non dee niuno porre fede o speranza in queste signorie e stati mondani, che sono dati a’ tempi secondo la disposizione di Dio, e secondo i meriti o peccati delle genti; e questo vedemo per provati esempli, e in tra gli altri questo fu uno di quegli che fu assai visibile, che in poco di tempo essendo Toscana quasi tutte città e castella a parte ghibellina, e simile Lombardia, e quasi de’ Guelfi non n’era ricordo, tornarono a parte guelfa.
XXI Come il maliscalco del re Carlo co’ Fiorentini feciono oste a Siena, e come il re venne in Firenze, e prese Poggibonizzi.
Nel detto tempo, del mese di luglio, gli anni di Cristo MCCLXVII, il maliscalco del re Carlo con sua gente e cavalleria di Firenze ricominciarono guerra a’ Sanesi per l’offesa ricevuta a Monte Aperti, e imperciò ch’aveano ritenuti i Ghibellini usciti di Firenze, e favoreggiavagli, onde faceano guerra nel contado di Firenze, e andarono a oste sopra Siena. E stando ad oste sopra quello di Siena, gli usciti ghibellini di Firenze con masnade tedesche ch’erano in Siena e in Pisa, per trattato de’ Ghibellini e terrazzani del castello di Poggibonizzi, entrarono nel detto castello di Poggibonizzi, il quale era al poggio molto forte. Per la qual cagione il detto maliscalco coll’oste si partì del contado di Siena, e infra il terzo dì si puose ad oste al detto castello di Poggibonizzi, e’ Fiorentini vi cavalcarono per comune in mezzo luglio, e simigliante vi venne gente di tutte le terre di Toscana ch’erano a lega co’ Fiorentini a parte guelfa, e isteccarlo intorno intorno, e con torri e difici di legname, acciò che la gente che v’erano rinchiusi dentro non ne potessono uscire né avere soccorso, e gittandovi dentro con molti difici. E essendo al detto assedio, lo re Carlo essendo fatto per lo papa e per la Chiesa generale vicario di Toscana, mentre che imperio vacasse, sì venne di Puglia in Toscana, e il presente mese di agosto con sua baronia entrò in Firenze, il quale da’ Fiorentini fu ricevuto a grande onore come loro signore, andandogli incontro il carroccio e molti armeggiatori. E in Firenze soggiornò VIII dì, e fece più gentili uomini di Firenze cavalieri, e appresso in persona con tutta sua cavalleria volle andare nell’oste a Poggibonizzi, perché sentiva che’ Pisani, e’ Sanesi, e gli altri Ghibellini faceano grande raunata di gente a cavallo e a piè per soccorrere la gente ch’era assediata in Poggibonizzi; e al detto assedio si stette IIII mesi. Alla fine per difalta di vittuaglia il detto castello di Poggibonizzi s’arendé al re in mezzo dicembre MCCLXVII, salvi l’avere e le persone, giurando i forestieri e’ terrazzani di non essergli mai incontro. E avuto il castello, vi soggiornò XV giorni, e misevi podestà, e fecevi cominciare una fortezza, ma non si compié poi, per molto affare del re e del Comune di Firenze.
XXII Come il re Carlo co’ Fiorentini andarono a oste sopra la città di Pisa.
Partito il re Carlo da oste da Poggibonizzi co’ Fiorentini, sì cavalcarono sopra la città di Pisa, e prese molte castella con grande danno de’ Pisani, e ebbe Porto Pisano, e fecelo disfare, e abattere le torri del porto. E poi del mese di febbraio, nel detto anno MCCLXVII, lo re Carlo andò a Lucca, e poi in servigio de’ Lucchesi assediò il castello del Mutrone ch’era fortissimo di mura grossissime, e invano vi sarebbe stato assai, senno che fece vista di cavallo e di tagliarlo da piè, ma in sei mesi non se ne sarebbe venuto a fine; ma per ingegno e inganno la notte faceano recare calcinacci d’altra parte, e il dì lo faceano gittare fuori, mostrando che fosse del tagliamento del muro del castello, per la qual cosa quegli d’entro impauriti s’arenderono, salve le persone; e usciti del castello, e vedute le cave, s’avidono dello ’nganno. E avuto il re il detto castello, sì ’l donò a’ Lucchesi.
XXIII Come il giovane Curradino figliuolo del re Currado venne d’Alamagna in Italia contro al re Carlo.
Istando lo re Carlo in Toscana, i Ghibellini usciti di Firenze co’ Pisani e’ Sanesi sì feciono lega e compagnia, e ordinaro con don Arrigo di Spagna, il quale era sanatore di Roma, fatto già nemico del re Carlo suo cugino; e con certi baroni di Puglia e di Cicilia fece congiurazione e cospirazione di rubellargli certe terre di Cicilia e di Puglia, e di mandare in Alamagna, e fare sommuovere Curradino figliuolo che fu del re Currado figliuolo dello ’mperatore Federigo, che passasse in Italia per torre Cicilia e il Regno al re Carlo. E così fu fatto, che subitamente in Puglia si rubellò Nocera de’ Saracini, e Aversa in Terra di Lavoro, e molte terre in Calavra, e in Abruzzi quasi tutte, se non fu l’Aguglia, e in Cicilia quasi tutta o gran parte dell’isola di Cicilia, se non fu Messina e Palermo. E don Arrigo rubellò Roma, e tutta Campagna, e ’l paese d’intorno; e’ Pisani, e’ Sanesi, e l’altre terre ghibelline gli mandarono di loro danari Cm fiorini d’oro per sommuovere il detto Curradino, il quale molto giovane, di XVI anni, si mosse d’Alamagna a contradio della madre, ch’era figliuola del duca d’Osteric, che per la sua giovanezza nol volea lasciare venire. E giunse a Verona del mese di febbraio, gli anni di Cristo MCCLXVII, con molta baronia e buona gente d’arme d’Alamagna in sua compagnia; e dicesi il seguiro infino a Verona presso a Xm uomini tra a cavallo e ronzini, e per necessità di moneta gran parte si tornò in Alamagna; ma de’ migliori si ritenne da IIImD cavalieri tedeschi. E di Verona passò per Lombardia, per la via di Pavia venne nella riviera di Genova, e arrivò di là da Saona a la piaggia di Varagine, e ivi entrò in mare, e per la forza de’ Genovesi co·lloro navilio di XXV galee passò per mare a Pisa, e là giunse di maggio MCCLXVIII, e da’ Pisani e da tutti i Ghibellini d’Italia fu ricevuto a grande onore, quasi come imperadore. La sua cavalleria venne per terra passando le montagne di Pontriemoli, e arrivarono a Serrezzano, che si tenea per gli Pisani, e poi feciono la via della marina con iscorta infino a Pisa. Lo re Carlo sentendo come Curradino era passato in Italia, e sentendo la rubellazione delle sue terre di Cicilia e di Puglia fatta per gli baroni del Regno traditori, i quali i più avea lasciati di pregione, e per don Arrigo di Spagna, sì si partì incontanente di Toscana, e a grandi giornate n’andò in Puglia, e in Toscana lasciò messer Guiglielmo di Berselve suo maliscalco, e co·llui messer Guiglielmo lo Stendardo con VIIIc cavalieri franceschi e provenzali, per mantenere le città di Toscana a sua parte, e per contastare Curradino che non potesse passare. E sentendo papa Chimento la venuta di Curradino, sì gli mandò suoi messi e legati, comandando sotto pena di scomunicazione ch’egli non dovesse passare, né essere contra lo re Carlo campione e vicario di santa Chiesa. Il quale Curradino però non lasciò sua impresa, né volle obbedire i comandamenti del papa, parendogli avere giusta causa, e che ’l Regno e Cicilia fosse sua e di suo patrimonio; e però cadde in sentenzia di scomunicazione della Chiesa, la quale ebbe a dispetto, e poco curò; ma istando lui in Pisa, raunò moneta e genti, e tutti i Ghibellini e chi era di parte imperiale si ridusse a·llui, onde gli crebbe grandissima forza. E stando in Pisa, venne a oste sopra la città di Lucca, la quale si tenea per la parte di santa Chiesa, e eravi dentro il maliscalco del re Carlo con sua gente, e il legato del papa e della Chiesa, e colla forza de’ Fiorentini e degli altri Guelfi di Toscana e di più gente di croce segnati, i quali per predicazione, e indulgenzia, e perdoni dati dal papa e da’ suoi legati erano venuti contra Curradino. E stette sopra Lucca dieci dì a oste; e aboccarsi insieme per combattere le dette due osti a Pontetetto a due miglia presso di Lucca, ma non combattero, ma ciascuno schifò la battaglia, e era in mezzo la Guiscianella, e però si tornaro chi a Pisa e chi a Lucca.
XXIV Come il maliscalco del re Carlo fu sconfitto al ponte a Valle per la gente di Curradino.
Poi si partì Curradino con sua gente di Pisa, e venne a Poggibonizzi, il quale come i terrazzani sentirono la venuta di Curradino in Pisa si rubellarono dal re Carlo e dal Comune di Firenze, e gli mandarono le chiavi infino a Pisa. E poi di Poggibonizzi n’andò in Siena, e da’ Sanesi ricevuto a grande onore; e soggiornando in Siena, il maliscalco del re Carlo ch’avea nome, come detto avemo, messer Guiglielmo di Berselve, con sua gente si partì da Firenze il dì di santo Giovanni di giugno per andare ad Arezzo per impedire gli andamenti di Curradino; e da’ Fiorentini furono scorti e acompagnati infino a Montevarchi e voleagli acompagnare infino ad Arezzo, sentendo il cammino dubbioso, e temendo d’aguato per lo contado d’Arezzo. Il detto maliscalco rendendosi di soperchio sicuro di sua gente, non volle più condotto di Fiorentini, inanzi al passare si mise messer Guiglielmo lo Stendardo con CCC cavalieri bene armati e in concio, e passò sano e salvo. Il maliscalco con Vc de’ suoi cavalieri, non prendendosi guardia e sanza ordine, e i più di sua gente disarmata, si mise a passare, e quando giunse al ponte a Valle, ch’è in su l’Arno presso a Laterino, uscì loro adosso uno aguato della gente di Curradino, i quali sentendo l’andamento del detto maliscalco, erano partiti di Siena per lo condotto degli Ubertini e d’altri Ghibellini usciti di Firenze, e sopragiunti al detto ponte, i Franceschi non proveduti e sanza gran difesa furono sconfitti e morti, e presi la maggiore parte, e quegli che fuggirono verso il Valdarno nel contado di Firenze furono così presi e rubati come da’ nimici; e il detto messer Guiglielmo maliscalco, e messer Amelio di Corbano, e più baroni e cavalieri, furono presi e menati in Siena a Curradino; e ciò fu il dì appresso la festa di san Giovanni, a dì XXV del mese di giugno, gli anni di Cristo MCCLXVIII. Della quale sconfitta e presura la gente del re Carlo e tutti quegli di parte guelfa ne sbigottirono molto, e Curradino e sua gente ne montarono in grande superbia e baldanza, e quasi aveano per niente i Franceschi; e sentendosi ciò nel Regno, si rubellarono assai terre al re Carlo. E ne’ detti tempi il re Carlo era ad assedio alla città di Nocera de’ Saracini in Puglia, la quale s’era rubellata, acciò che l’altre terre della marina di Puglia, che tutte erano sommosse, non gli si ribellassono.
XXV Come Curradino entrò in Roma, e poi con sua oste passò nel regno di Puglia.
Soggiornato Curradino alquanto in Siena, sì n’andò a Roma, e da’ Romani e da don Arrigo senatore fu ricevuto a grande onore a guisa d’imperadore, e in Roma fece sua raunata di gente e di moneta, e spogliò il tesoro di San Piero e d’altre chiese di Roma per fare danari, e trovossi in Roma con più di Vm cavalieri tra Tedeschi e Italiani con quegli di don Arrigo senatore, fratello del re di Spagna, ch’avea seco bene VIIIc buoni cavalieri spagnuoli. E sentendo Curradino che ’l re Carlo era a oste in Puglia alla città di Nocera, e molte delle terre e baroni del Regno erano rubellati, e dell’altre in sospetto, sì gli parve tempo accettevole d’entrare nel Regno, e partissi da Roma a dì X d’agosto, gli anni di Cristo MCCLXVIII, col detto don Arrigo e con sua compagnia e baronia, e con molti Romani; e non fece la via di Campagna, però che seppe che ’l passo da Cepperano era guernito e guardato: sì non si volle mettere alla contesa, ma fece la via delle montagne tra l’Abruzzi e Campagna per Valle di Celle, ove non avea guardie né guernigione, e sanza niuno contasto passò e arrivò nel piano di San Valentino nella contrada detta Tagliacozzo.
XXVI Come l’oste di Curradino e quella del re Carlo s’affrontarono per combattere a Tagliacozzo.
Lo re Carlo sentendo come Curradino era partito di Roma con sua gente per entrare nel Regno, si levò da oste da Nocera, e con tutta sua gente a grandi giornate venne incontro a Curradino, e alla città dell’Aquila in Abruzzi attese sua gente. E stando lui nell’Aquila, e tenendo consiglio cogli uomini della terra, amonendogli fossono fedeli e leali, e fornissono l’oste, uno savio villano e antico si levò, e disse: «Re Carlo, non tenere più consigli, e non schifare uno poco di fatica, acciò che tu ti possi riposare sempre; togli ogni dimoranza, e va’ contra il nimico, e nol lasciare prendere più campo, e noi ti saremo leali e fedeli». Lo re udendosi sì saviamente consigliare, sanza nullo indugio o più parole di là si partìo per la via traversa delle montagne, e acozzossi assai di presso all’oste di Curradino nel luogo e piano di San Valentino, e nonn-avea in mezzo se non il fiume del... Lo re Carlo avea di sua gente, tra Franceschi e Provenzali e Italiani, meno di IIIm cavalieri, e veggendo che Curradino avea troppa più gente di lui, per lo consiglio del buon messere Alardo di Valleri, cavaliere francesco di grande senno e prodezza, il quale di quegli tempi era arrivato in Puglia tornando d’oltremare dalla Terrasanta, sì disse al re Carlo se volesse essere vincitore gli convenia usare maestria di guerra più che forza. Il re Carlo confidandosi molto nel senno del detto messer Alardo, al tutto gli commise il reggimento dell’oste e della battaglia; il quale ordinò della gente del re tre schiere, e dell’una fece capitano messer Arrigo di Cosance, grande di persona e buono cavaliere d’arme: questi fu armato colle sopransegne reali in luogo della persona de·re, e guidava Provenzali, e Toscani, e Lombardi, e Campagnini. L’altra schiera furono de’ Franceschi, onde furono capitani messer Gianni di Crarì e messer Guiglielmo lo Stendardo. E mise i Provenzali a la guardia del ponte del detto fiume, acciò che l’oste di Curradino non potesse passare sanza disavantaggio della battaglia. Il re Carlo col fiore della sua baronia, di quantità di VIIIc cavalieri, fece riporre in aguato dopo uno colletto in una vallea, e col re Carlo rimase il detto messer Alardo di Valleti con messer Guiglielmo di Villa, e Arduino prenze della Morea, cavaliere di grande valore. Curradino dall’altra parte fece di sua gente tre schiere: l’una de’ Tedeschi, ond’egli era capitano col dogi d’Osteric, e con più conti e baroni; l’altra degl’Italiani, onde fece capitano il conte Calvagno con alquanti Tedeschi; l’altra fu di Spagnuoli, ond’era capitano don Arrigo di Spagna loro signore. In questa stanza, l’una oste appetto a l’altra, i baroni del Regno ribelli del re Carlo fittiziamente, per fare isbigottire lo re Carlo e sua gente, feciono venire nel campo di Curradino falsi ambasciadori molto parati, con chiavi in mano e con grandi presenti, dicendo ch’egli erano mandati dal Comune dell’Aquila per dargli le chiavi e signoria della terra, sì come suoi uomini e fedeli, acciò che gli traesse della tirannia del re Carlo. Per la qual cosa l’oste di Curradino e egli medesimo, stimando fosse vero, feciono grande allegrezza; e sentito ciò nell’oste del re Carlo, n’ebbe grande isbigottimento, temendo non fallisse loro la vittuaglia che veniva loro di quella parte, e l’aiuto di quegli dell’Aquila. Lo re medesimo sentendo ciò, n’entròe in tanta gelosia, che di notte tempore si partì con pochi dell’oste in sua compagnia, e venne all’Aquila la notte medesima, e faccendo domandare le guardie delle porte per cui si tenea la terra, rispuosono: «Per lo re Carlo»; il quale entrato dentro sanza ismontare de’ cavagli, amonitigli di buona guardia, incontanente tornò all’oste, e fuvi la mattina a buona ora, e per l’affanno dell’andare e tornare la notte lo re Carlo dall’Aquila si posava e dormiva.
XXVII Come Curradino e sua gente furono sconfitti dal re Carlo.
Curradino e sua oste avendo vana speranza che l’Aquila fosse ribellata al re Carlo, con grande vigore e grida, fatte le sue schiere, si strinse a valicare il passo del fiume per combattere col re Carlo. Lo re Carlo, con tutto si posasse, come detto avemo, sentendo il romore de’ nimici, e com’erano inn-arme per venire a la battaglia, incontanente fece armare e schierare sua gente per l’ordine e modo che dinanzi facemmo menzione. E stando la schiera de’ Provenzali, la quale guidava messer Arrigo di Consancia, alla guardia del ponte, contastando a don Arrigo di Spagna e a sua gente il passo, gli Spagnuoli si misono a passare il guado della riviera ch’era assai piccolo, e incominciarono a inchiudere la schiera de’ Provenzali, che difendeano il ponte. Curradino e l’altra sua oste veggendo passati gli Spagnuoli, si mise a passare il fiume, e con grande furore assaliro la gente del re Carlo, e in poca d’ora ebbono barattati e sconfitti la schiera de’ Provenzali; e ’l detto messer Arrigo di Consancia colle ’nsegne del re Carlo abattute, e egli morto e tagliato; credendosi don Arrigo e’ Tedeschi avere la persona del re Carlo, perché vestiva le sopransegne reali, tutti gli s’agreggiarono adosso. E rotta la detta schiera de’ Provenzali, simile feciono di quella de’ Franceschi e degl’Italiani, la quale guidava messer Gianni di Crarì, e messer Guiglielmo lo Stendardo, però che·lla gente di Curradino erano per uno due che quegli del re Carlo, e fiera gente e aspra in battaglia: e veggendosi la gente del re Carlo così malmenare, si misono in fugga e abandonarono il campo. I Tedeschi si credettero avere vinto, che non sapeano dell’aguato del re Carlo, si cominciarono a spandere per lo campo, e intendere a la preda e alle spoglie. Lo re Carlo era in sul colletto di sopra alla valle, dov’era la sua schiera, con messer Alardo di Valleri e col conte Guido di Monforte per riguardare la battaglia, e veggendo la sua gente così barattare, prima l’una schiera e poi l’altra, e venire in fugga, moria a dolore, e volea pure fare muovere la sua schiera per andare a soccorrere i suoi. Messer Alardo, maestro dell’oste e savio di guerra, con grande temperanza e con savie parole ritenne assai lo re, dicendo che per Dio sì sofferisse alquanto, se volesse l’onore della vittoria, però che conoscea la covidigia de’ Tedeschi, come sono vaghi delle prede, per lasciargli più spartire dalle schiere, e quando gli vide bene sparpagliati, disse al re: «Fa’ muovere le bandiere, ch’ora è tempo»; e così fu fatto. E uscendo la detta schiera della valle, Curradino né’ suoi non credeano che fossono nimici, ma che fossono di sua gente, e non se ne prendeano guardia. E vegnendo lo re con sua gente stretti e serrati, al diritto se ne vennero ov’era la schiera di Curradino co’ maggiori di suoi baroni, e quivi si cominciò la battaglia aspra e dura, con tutto che poco durasse, però che·lla gente di Curradino erano lassi e stanchi per lo combattere, e non erano tanti cavalieri schierati ad assai quanti quegli del re, e sanza ordine di battaglia, però che·lla maggiore parte di sua gente, chi era cacciando i nemici, e chi ispartito per lo campo per guadagnare preda e pregioni, e la schiera di Curradino per lo improviso assalto de’ nimici tuttora scemava, e quella del re Carlo tuttora cresceva per gli primi di sua gente ch’erano fuggiti della prima sconfitta, conoscendo le ’nsegne del re si metteano in sua schiera, sicché in poca d’ora Curradino e sua gente furono sconfitti. E quando Curradino s’avide che·lla fortuna della battaglia gli era incontro, e per consiglio de’ suoi maggiori baroni, si mise alla fugga egli, e ’l dogi d’Osteric, e il conte Calvagno, e il conte Gualferano, e ’l conte Gherardo da Pisa, e più altri. Messere Alardo di Valleri veggendo fuggire i nimici, con grandi grida dice e pregava lo re e’ capitani della schiera non si partissono né seguissono caccia de nimici né altra preda, temendo che·lla gente di Curradino non si ranodasse, o niuno aguato uscisse fuori, ma stessono fermi e schierati in sul campo; e così fu fatto. E venne bene a bisogno, che don Arrigo co’ suoi Spagnoli e altri Tedeschi i quali aveano seguita la caccia de’ Provenzali e Italiani, i quali aveano prima sconfitti per una valle, e non aveano veduta la battaglia del re Carlo e la sconfitta di Curradino, alla ricolta che fece di sua gente, e ritornando al campo, veggendo la schiera del re Carlo, credette che fosse Curradino e sua gente; sì scese il colle dov’era ricolto per venire a’ suoi, e quando si venne appressando conobbe le ’nsegne de’ nimici, e come ingannato si tenne confuso; ma com’era valente signore, si strinse a schiera, e serrò colla sua gente per tale modo che ’l re Carlo e’ suoi, i quali per l’afanno della battaglia erano travagliati, non s’ardirono di fedire alla schiera di don Arrigo, e per non recare in giuoco vinto a partito stavano aringati l’una schiera appetto a l’altra buona pezza. Il buono messer Alardo veggendo ciò, disse al re che bisognava di fargli dipartire da schiera per rompergli: lo re gli commise facesse a suo senno. Allora prese de’ migliori baroni della schiera del re da XXX in XL, e uscirono della schiera faccendo sembianti che per paura si fuggissono, siccome gli avea amaestrati. Gli Spagnuoli veggendogli con più delle bandiere di quegli signori si metteano in volta e in vista di fuggire, con vana speranza cominciarono a gridare: «E’ sono in fugga!», e cominciarono a dipartirsi da schiera e volergli seguire. Lo re Carlo veggendo schiarire e aprire la schiera degli Spagnuoli e altri Tedeschi, francamente si misono a fedire tra·lloro; e messer Alardo co’ suoi saviamente si raccolsono e tornarono alla schiera. Allora fu la battaglia aspra e dura; ma gli Spagnuoli erano bene armati, per colpi di spade non gli poteano aterrare, e spesso al loro modo si rannodavano insieme. Allora i Franceschi cominciarono con gridare ad ire, e a prendelli a braccia, e abattergli de’ cavagli a modo de’ torniamenti; e così fu fatto, per modo che in poca d’ora gli ebbono rotti, e sconfitti, e messi in fugga, e molti ve ne rimasono morti.
Don Arrigo con assai de’ suoi si fuggì in Montecascino, e diceano che ’l re Carlo era sconfitto. L’abate ch’era signore di quella terra conobbe don Arrigo, e a’ segnali di loro com’erano fuggiti, sì fece prendere lui e gran parte di sua gente. Lo re Carlo con tutta sua gente rimasono in sul campo armati e a cavallo infino alla notte per ricogliere i suoi e per avere de’ nemici piena e sicura vittoria. E questa sconfitta fu la vilia di santo Bartolomeo a dì XXIII d’agosto, gli anni di Cristo MCCLXVIII. E in quello luogo fece poi fare lo re Carlo una ricca badia per l’anime della sua gente morta, che si chiama Santa Maria della Vittoria, nel piano di Tagliacozzo.
XXVIII Della avisione ch’avenne a papa Chimento della sconfitta di Curradino.
Avenne grande maraviglia che, essendo stata la detta sconfitta di Curradino, la vilia di santo Bartolomeo, e era già notte anzi che ’l certo si sapesse a cui fosse rimaso il campo colla vittoria, per le molte riprese e variazioni ch’ebbe la detta battaglia, la mattina per tempo vegnente della festa di santo Bartolomeo, essendo papa Chimento in Viterbo, e sermonava, e vegnendoli subitamente uno pensiero per lo quale parve al popolo che contemplasse uno buono pezzo lasciando la materia del sermone, levato della detta contemplazione disse: «Correte, correte alle strade a prendere i nimici di santa Chiesa, che sono sconfitti e morti»; e della detta sconfitta nulla novella né messo era venuto al papa, né potea venire in così corto spazio di tempo come una notte, però che da Viterbo al luogo dove fu la battaglia avea più di C miglia; e fu l’altro giorno, inanzi che nullo messaggio ne venisse in corte; ma di certo si disse per gli savi che in corte erano che il papa l’ebbe per ispirazione divina, e egli era uomo di santa vita.
XXIX Come Curradino con certi suoi baroni furono presi dal re Carlo, e fece loro tagliare la testa.
Curradino col dogio d’Ostaric e con più altri, i quali del campo erano fuggiti co·llui, sì arrivarono alla piaggia di Roma in su la marina a una terra ch’ha nome Asturi, ch’era degl’Infragnipani di Roma, gentili uomini; e in quella arrivati, feciono armare una saettia per passare in Cicilia, credendo scampare dal re Carlo, e in Cicilia, che era quasi tutta rubellata a lo re, ricoverare suo stato e signoria. Essendo loro già entrati in mare sconosciuti nella detta barca, uno de’ detti Infragnipani ch’era in Asturi, veggendo ch’erano gran parte Tedeschi, e begli uomini, e di gentile aspetto, e sappiendo della sconfitta, sì s’avisò di guadagnare e d’esser ricco, e però i detti signori prese; e saputo di loro esser, e com’era tra quegli Curradino, sì gli menò al re Carlo pregioni, per gli quali lo re gli donò terra e signoraggio a la Pilosa, tra Napoli e Benevento. E come lo re ebbe Curradino e que’ signori in sua balia, prese suo consiglio quello ch’avesse a·ffare. Alla fine prese partito di fargli morire, e fece per via di giudicio formare inquisizione contro a·lloro, come a traditori della corona e nemici di santa Chiesa; e così fu fatto; che a dì.... fu dicollato Curradino, e ’l duca d’Osteric, e ’l conte Calvagno, e ’l conte Gualferano, e ’l conte Bartolomeo e due suoi figliuoli, e ’l conte Gherardo de’ conti da Doneratico di Pisa in sul mercato di Napoli lungo il ruscello dell’acqua che corre di contra alla chiesa de’ frati del Carmino; e non sofferse il re che fossono soppelliti in luogo sacro, ma in su il sabbione del mercato, perch’erano scomunicati. E così in Curradino finì il legnaggio della casa di Soave, che fu in così grande potenzia d’imperadori e di re, come adietro è fatta menzione. Ma di certo si vede per ragione e per isperienza che chiunque si leva contra santa Chiesa e è scomunicato conviene che·lla fine sia rea per l’anima e per lo corpo; e però è sempre da temere la sentenza della scomunicazione di santa Chiesa giusta o ingiusta, che assai aperti miracoli ne sono stati, chi legge l’antiche croniche, e per questa il può vedere per gl’imperadori e signori passati, che furono ribelli e persecutori di santa Chiesa. Della detta sentenzia lo re Carlo ne fu molto ripreso, e dal papa, e da’ suoi cardinali, e da chiunque fu savio, però ch’egli avea preso Curradino e’ suoi per caso di battaglia, e non per tradimento, e meglio era a tenerlo pregione che farlo morire. E chi disse che ’l papa l’asentì; ma non ci diamo fede, perch’era tenuto santo uomo. E parve che·lla innocenzia di Curradino, ch’era di così giovane etade a giudicarlo a morte, Iddio ne mostrasse miracolo contra lo re Carlo, che non molti anni appresso Iddio gli mandò di grandi aversitadi quando si credea essere in maggiore stato, sì come innanzi nelle sue storie faremo menzione. Al giudice che condannò Curradino Ruberto figliuolo del conte di Fiandra, genero del re Carlo, com’ebbe letta la condannagione, gli diede d’uno stocco, dicendo ch’a·llui nonn-era licito di sentenziare a morte sì grande e gentile uomo; del quale colpo il giudice, presente lo re, morì, e non ne fu parola, però che Ruberto era molto grande apo lo re, e parve al re e a tutti i baroni ch’egli avesse fatto come valente signore. Don Arrigo di Spagna, il quale era de’ pregioni del re, però ch’egli era suo cugino carnale, e perché l’abate di Montecascino che·ll’avea dato preso al re, per non essere inregolare, per patti l’avea dato che nol farebbe morire, nol fece giudicare il re a morte, ma condannollo a perpetuale carcere, e mandollo in pregione al castello del Monte Sante Marie in Puglia; molti degli altri baroni di Puglia e d’Abruzzi ch’erano stati contro a lo re Carlo e suoi ribelli fece morire con diversi tormenti.
XXX Come lo re Carlo raquistò tutte le terre di Cicilia e di Puglia che gli s’erano rubellate.
Lo re Carlo avuta la vittoria contra Curradino, tutte le terre del regno di Puglia ch’erano rubellate s’arrenderono al re sanza contasto; e molti de’ caporali ribelli che·ll’aveano ribellate gli fece morire di mala morte. E in Cicilia mandò incontanente il conte Guido di Monforte, e messer Filippo suo fratello, e messer Guiglielmo di Belmonte, e messer Guiglielmo lo Stendardo, suoi baroni, con grande armata di galee e con grande compagnia di cavalieri franceschi e provenzali per racquistare le terre dell’isola, le quali quasi tutte s’erano rubellate dal re, salvo che Messina e Palermo; ed erane capitano uno messer Currado, detto Caputo overo d’Antioccia, de’ discendenti dello ’mperadore Federigo, il quale con suo seguito de’ rubelli mantenea le terre rubellate contro al re Carlo, e fecegli grande guerra. Ma come i detti signori furono in Cicilia, e per la vittoria che ’l re avea avuta contra Curradino, molte delle terre s’arrenderono a’ detti signori, e assediarono il detto Currado nel castello di Santo Orbe, il quale per assedio vinsono, e ’l detto Currado presono, e feciongli cavare gli occhi, e poi il feciono impiccare. E morto il detto Currado e i più de’ caporali rubelli suoi seguaci, tutte le terre dell’isola furono all’ubidenza del re Carlo. E ciò fatto, riformò il reame di Cicilia e di Puglia in buono e pacifico stato, e guidardonò i suoi baroni che·ll’aveano servito di terre e di signoraggi. Lasceremo alquanto de’ fatti del re Carlo, e torneremo a nostra materia de’ fatti di Firenze.
XXXI Come i Fiorentini sconfissono i Sanesi a piè di Colle di Valdelsa.
Gli anni di Cristo MCCLXVIIII, del mese di giugno, i Sanesi, ond’era governatore messer Provenzano Salvani di Siena, col conte Guido Novello, colle masnade de’ Tedeschi e di Spagnuoli, e cogli usciti ghibellini di Firenze e dell’altre terre di Toscana, e colla forza de’ Pisani, i quali erano in quantità di MCCCC cavalieri e da VIIIm pedoni, sì vennono ad oste al castello di Colle di Valdelsa, il quale era alla guardia de’ Fiorentini; e ciò feciono, perché i Fiorentini il maggio dinanzi erano venuti a oste e guastare Poggibonizzi. E postosi a campo a la badia a Spugnole, e venuta la novella in Firenze il venerdì sera, il sabato mattina messer Giambertaldo vicario del re Carlo per la taglia di Toscana si partì di Firenze colle sue masnade, il quale allora avea in Firenze da IIIIc cavalieri franceschi; e sonando la campana, i Guelfi di Firenze seguendolo a cavallo e a piedi, giunsono in Colle la cavalleria la domenica sera, e trovarsi intorno di VIIIc cavalieri, o meno, con poco popolo, però che così tosto come i cavalieri non poterono giugnere a Colle. Avenne che i·lunedì mattina vegnente, il dì di santo Bartolomeo di giugno, sentendo i Sanesi la venuta della cavalleria di Firenze, si levarono da campo dalla detta badia per recarsi in più salvo luogo. Messer Giambertaldo veggendogli mutare il campo, sanza attendere più gente, passò colla cavalleria ch’avea il ponte, e schierata sua gente colla cavalleria di Firenze, e quello popolo che v’era giunto, e’ Colligiani (ma per la sùbita venuta de’ Fiorentini nullo ordine aveano di capitani d’oste, né d’insegna del Comune), e prendendo messer Giambertaldo la ’nsegna del Comune di Firenze, e richeggendo i cavalieri di Firenze che v’erano di tutte le case guelfe, ch’alcuno di loro la prendesse, e nullo si movea a prenderla, o per viltà o per gara l’uno dell’altro, e stato gran pezza alla contesa, messer Aldobrandino della casa de’ Pazzi francamente si trasse avanti e disse: «Io la rendo a l’onore d’Iddio, e di vittoria del nostro Comune»; onde fu molto comendato in franchezza, e incontanente mosse, e tutta la cavalleria seguendolo, e francamente percosse alla schiera de’ Sanesi; e tutto che non fosse tenuta troppo savia e proveduta capitaneria di guerra, come ardita e franca gente, bene aventurosamente, come piacque a·dDio, ruppono e sconfissono i Sanesi e loro amistà, ch’erano quasi due cotanti cavalieri e popolo grandissimo, onde molti ne furono morti e presi; e se dalla parte de’ Fiorentini fossono giunti e stati alla battaglia i loro pedoni, non ne campava quasi niuno de’ Sanesi. Il conte Guido Novello si fuggì, e messer Provenzano Salvani signore e guidatore dell’oste de’ Sanesi fu preso, e tagliatogli il capo, e per tutto il campo portato fitto in su una lancia. E bene s’adempié la profezia e revelazione che gli avea fatta il diavolo per via d’incantesimo, ma no·lla intese; ch’avendolo fatto costrignere per sapere come capiterebbe in quella oste, mendacemente rispuose, e disse: «Anderai e combatterai, vincerai non, morrai alla battaglia, e la tua testa fia la più alta del campo»; e egli credendo avere la vittoria per quelle parole, e credendo rimanere signore sopra tutti, non fece il punto alla fallace, ove disse: «Vincerai no, morrai etc.»; e però è grande follia a credere a sì fatto consiglio come quello del diavolo. Questo messer Provenzano fu grande uomo in Siena al suo tempo dopo la vittoria ch’ebbono a Monte Aperti, e guidava tutta la città, e tutta parte ghibellina di Toscana facea capo di lui, e era molto presentuoso di sua volontà. In questa battaglia si portò il detto messere Giambertardo come valente signore in pugnare contro a’ nimici, e simigliantemente la sua gente, e tutti Guelfi di Firenze, faccendo grande uccisione de’ nimici per vendetta di loro parenti e amici che rimasono alla sconfitta a Monte Aperti; quasi nullo o pochi ne menarono a pregioni, ma gli misono a morte e alle spade; onde la città di Siena, a comparazione del suo popolo, ricevette maggiore danno de’ suoi cittadini in questa sconfitta, che non fece Firenze a quella di Monte Aperti, e lasciarvi tutto il loro arnese. Per la qual cosa, poco tempo appresso, i Fiorentini rimisono in Siena i Guelfi usciti, e cacciarne i Ghibellini, e pacificarsi l’uno Comune coll’altro, rimagnendo poi sempre amici e compagni. E in questo modo ebbe fine la guerra tra’ Fiorentini e’ Sanesi, che tanto tempo era durata.
XXXII Come i Fiorentini presono il castello d’Ostina in Valdarno.
Nel detto anno, del mese di settembre, essendo rubellato il castello d’Ostina in Valdarno, e entrativi i Ghibellini usciti di Firenze co’ Pazzi di Valdarno, i Fiorentini v’andarono ad oste, e stettonvi infino a l’ottobre, e per difalta di vittuaglia non potendosi più tenere, e quegli d’entro uscendone una notte, furono quasi tutti morti e presi, e’ Fiorentini ebbono il castello e disfeciollo.
XXXIII Come i Fiorentini in servigio de’ Lucchesi andarono a oste sopra Pisa.
Partita l’oste de’ Fiorentini da Ostina, i Fiorentini con messer Giambertaldo maliscalco del re Carlo, in servigio de’ Lucchesi andarono ad oste a Castiglione di Valdiserchio, e poi infino alle mura di Pisa, e presono il castello d’Asciano per forza; e’ Lucchesi, per ricordanza e vergogna de’ Pisani, presso alla città di Pisa feciono battere loro moneta e tornarono sani e salvi.
XXXIV Come fu grande diluvio d’acqua, e rovinarono il ponte a Santa Trinita e quello dalla Carraia.
Nel detto anno MCCLXVIIII, la notte di calen di ottobre fu sì grande diluvio di pioggia d’acqua da cielo col continuo piovere due notti e uno dì, che tutti i fiumi d’Italia crebbono più che crescessono mai; e ’l fiume Arno uscì de’ suoi termini sì disordinatamente, che gran parte della città di Firenze allagò, e ciò fu la cagione per più legname che ’l fiume menava, il quale ristette e s’atraversò al piè del ponte a Santa Trinita per modo che l’acqua del fiume ringorgava sì adietro che si spandea per la città, onde molte persone annegarono e molte case rovinarono. Alla fine fu sì forte l’empito del corso del fiume, che fece rovinare il detto ponte di Santa Trinita, e ancora per lo sgorgare di quello l’empito dell’acqua e del legname percosse e fece rovinare quello dalla Carraia: e come furono rovinati e caduti, l’altezza del corso del fiume, ch’era per lo detto ringorgamento e rattenuta, rabassò, e cessò la piena dell’acqua ch’era sparta per la cittade.
XXXV Come a certi nobili ribelli di Firenze furono tagliate le teste.
Negli anni di Cristo MCCLXX, fatto l’accordo e pace tra ’l Comune di Firenze e quello di Siena, e rimessivi i Guelfi, e cacciatine i Ghibellini, messer Azzolino e Neracozzo e Conticino della casa degli Uberti, e messer Bindo de’ Grifoni da Fegghine rubelli di Firenze, co·lloro compagnia partendosi da Siena per andarsene in Casentino, furono presi e menati in Firenze, e scritto in Puglia al re Carlo quello ch’a·llui piacesse se ne facesse; il quale per sua lettera mandò a messer Bernardo d’Ariano, podestà per lo re in Firenze, che sì come traditori della corona fossono giudicati: a’ quali fue loro tagliate le teste il dì di santo Michele di maggio. E la mattina, quando s’andavano a giudicare, Neracozzo domandò messer Azzolino: «Ove andiamo noi?». Rispuose il cavaliere: «A pagare uno debito che·cci lasciarono i nostri padri»; salvo che Conticino, il quale, perch’era giovane, fu mandato nel Regno preso, e morì in pregione nelle torri di Capova.
XXXVI Come i Fiorentini presono il castello di Piano di Mezzo in Valdarno, e come disfeciono Poggibonizzi.
Nel detto anno, del mese di giugno, i Fiorentini andarono ad assedio al castello di Piano di Mezzo, ch’era de’ Pazzi di Valdarno, rubellato per loro e per gli usciti di Firenze contra il Comune di Firenze, il quale per assedio s’arrendé a patti, salve le persone, i quali se n’uscirono fuori; e’ Fiorentini ebbono il castello, e feciollo abattere e disfare; e simile il castello di Ristuccioli de’ Pazzi, ch’era molto forte castello. E ciò fatto, e tornato l’oste de’ Fiorentini in Firenze, i Fiorentini cavalcarono a Poggibonizzi, e feciono abattere e disfare tutto il castello, e recare a borgo al piano con licenza del re Carlo; però che nulla convenenza, che promisono per gli patti al re Carlo e Comune di Firenze, non voleano attenere, e sempre riteneano i ribelli di Firenze, e aveano lega colle terre ghibelline di Toscana. Questo Poggibonizzi fu il più bello castello, e de’ più forti d’Italia, e posto quasi nel bilico di Toscana, e era con belle mura e torri, e con molte belle chiese, e pieve, e ricca badia, e con bellissime fontane di marmo, e acasato e abitato di genti com’una buona città; ma per la loro superbia, però che·ssi voleano essere per loro sì come castello d’imperio, e contastare il Comune di Firenze, fue abattuto e toltogli ogni giurisdizione.
XXXVII Come lo re Luis di Francia fece il passaggio a Tunisi nel quale morìo.
Negli anni di Cristo MCCLXX il buono Luis re di Francia, il quale era cristianissimo e di santa vita e opere, non tanto quanto s’appartiene a secolare, essendo re di sì grande reame e potenzia, ma come religioso, sempre operando in favore di santa Chiesa e della Cristianitade, e nonn ispaventandosi delle grandi fatiche e spendio, il quale fece al passaggio d’oltremare, quando egli e’ frategli furono presi alla Monsura de’ Saracini, come addietro facemmo menzione, come piacque a·dDio si puose in cuore d’andare ancora sopra i Saracini e nimici de’ Cristiani; e così con grande effetto e opera mise a seguizione, prendendo la croce, e raunando tesoro, e sommovendo tutta la baronia, e cavalieri, e buona gente di suo reame. E ciò fatto, si mosse di Parigi, e andonne in Proenza, e di là con grande navilio si partì del suo porto dell’Agua Morta in Proenza con tre suoi figliuoli, Filippo, Gianni, e Luis, e col re di Navarra suo genero, e con tutti caporali suoi, conti, duchi, e baroni del reame di Francia, e fuori del reame suoi amici. E per la sua andata il seguì poi Adoardo figliuolo del re d’Inghilterra con molti Inghilesi, e Scotti, e Fresoni, e Alamanni, di più di XVm cavalieri, il quale stuolo, e croceria fu quasi d’inumerabile gente a cavallo e a piede, e stimarsi CCm d’uomini da battaglia. E credendo prendere il migliore, si diliberarono d’andare sopra il regno di Tunisi, avisandosi se quello si prendesse per gli Cristiani, era in parte molto mediata da potere più leggermente prendere poi il regno d’Egitto, e da tagliare, e al tutto impedire la forza de’ Saracini del reame di Setta, e eziandio quello di Granata. E passò il detto stuolo sani e salvi co·lloro navilio, e arrivarono al porto dell’antica città di Cartagine, ch’è di lungi da Tunisi da XV miglia, e quella Cartagine, ch’alcuna parte n’era rifatta e afforzata per gli Saracini per la guardia del porto, per gli Cristiani fu assai tosto presa per forza. E volendo andare la detta oste alla città di Tunisi, come piacque a Dio, per le peccata de’ Cristiani si cominciò una grande corruzzione d’aria in quelle marine, e massimamente nell’oste de’ Cristiani non costumati all’aria, e per gli disagi, e per lo soperchio di gente, e delle bestie; per la qual cosa prima vi morì Gianni figliuolo del detto re Luis, e poi il cardinale d’Albano, che v’era per lo papa, e poi infermò e morì il detto buono re Luis con grandissima quantità di conti e di baroni, e infinita gente di popolo vi morirono. Onde la Cristianità ricevette grandissimo danno, e la detta oste fu quasi tutta scerrata, e venuta quasi al niente, sanza colpo de’ nimici. E come il detto re Luis non bene aventurato fosse nelle dette imprese sopra i Saracini, ma per la sua anima bene aventuroso morisse, lo re di Navarra ch’era presente al cardinale Toscolano per sue lettere lo scrisse, che nella sua infermità non cessava di lodare Idio, e ispesso dicendo questa orazione: «Fa’ noi, Signore, le cose prosperevoli del mondo avere in odio, e nessuna aversità temere». Ancora adorava per lo popolo il quale ave’ menato seco, dicendo: «Sia, Signore, del popolo tuo santificatore e guardiano»; e l’altre parole che seguitano alla detta orazione. E alla fine quando venne a morte, levò gli occhi a cielo, e disse: «Introibo in domum tuam, adorabo ad templum santum tuum, et confitebor nomini tuo»; e ciò detto, morì in Cristo. E sentendo la sua morte la sua oste fu molto turbata, e’ Saracini molto rallegrati; ma in questo dolore fu fatto Filippo suo figliuolo re di Francia; e lo re Carlo fratello del detto re Luis, il quale egli vivendo ave’ mandato per lui, venne di Cicilia, e arrivò a Cartagine con grande navilio e con molta gente e rinfrescamento, onde l’oste de’ Cristiani riprese grande vigore, e’ Saracini paura. E con tutto che·ll’oste de’ Saracini fosse cresciuta d’inumerabile gente, che di tutte parti erano venuti gli Arabi a·lloro soccorso, e fossono troppi più che’ Cristiani, mai non s’ardirono di venire a battaglia affrontata co’ Cristiani; ma con aguati e ingegni venieno, e faceano loro molto molesto. Intra gli altri fu questo l’uno, che la detta contrada è molto sabbionosa, e quando è secco fa molta polvere: onde i Saracini quando traeva vento contra l’oste de’ Cristiani, in grandissimo numero di loro genti stavano in su’ monti ov’era il detto sabbione, calpitandolo co’ cavalli e co’ piedi il facevano muovere, onde facea all’oste molta molestia e affanno; ma piovendo acqua da cielo cessò la detta pestilenzia, e lo re Carlo co’ Cristiani, apparecchiati difici di diverse maniere per mare e per terra, si strinse per combattere la città di Tunisi; e di certo si disse, s’avessono seguito, in brieve tempo avrebbono avuta la terra per forza, o il re di Tunisi co’ suoi Turchi e Arabi l’avrebbe abandonata.
XXXVIII Come il re Carlo patteggio accordo col re di Tunisi e partissi lo stuolo.
Lo re di Tunisi co’ suoi Saracini veggendo in mal punto, e temendo di perdere la città e ’l paese d’intorno, si feciono cercare pace col re Carlo, e cogli altri signori con grandi e larghi patti, a la qual pace il re Carlo intese e diede compimento per lo ’nfrascritto modo: prima, che tutti i Cristiani ch’erano pregioni in Tunisi, o in tutto quello reame, fossono liberi, e che monisteri e chiese per gli Cristiani si potessono edificare, e in quelle l’oficio sacro si potesse celebrare; e che per gli frati minori e predicatori e per altre persone eclesiastiche si potesse liberamente predicare il Vangelio di Cristo; e qual Saracino si volesse battezzare e tornare alla fede di Cristo, liberamente il potesse fare; e tutte le spese che i detti re avessono fatte pienamente fossono loro rendute; e oltre a·cciò il re di Tunisi fosse tributario di dare ogni anno a Carlo re di Cicilia XXm dobble d’oro, e molti altri patti, che sarebbono lunghi a dire. Di questa pace alcuni dissono che ’l re Carlo e gli altri signori la faceano per lo migliore, e considerando il loro male stato della corruzzione dell’aria e mortalità de’ Cristiani, che il re di Navarra, morto il re Luis, si partì malato dell’oste e morì in Cicilia, e morì il legato del papa cardinale, e la Chiesa di Roma in quelli tempi vacava di pastore, che dovea provedere a tutto, e Filippo novello re di Francia si voleva partire dell’oste e tornare in Francia col corpo del padre. Altri dierono colpa al re Carlo, che ’l fece per avarizia, per avere innanzi per la detta pace sempre a tributario il re di Tunisi in sua spezialtà; che ’l regno di Tunisi fosse conquistato per lo stuolo de’ Cristiani, ch’era poi a parte del re di Francia, e di quello d’Inghilterra, e di quello di Navarra, e di quello di Cicilia, e della Chiesa di Roma, e di più altri signori ch’erano al conquisto. E potrebbe essere stata l’una cagione e l’altra; ma quale si fosse, compiuto il detto accordo, si partì la detta oste da Tunisi, e arrivati col loro navilio nel porto di Trapali in Cicilia, come piacque a·dDio, sì grande fortuna avenne, essendo il navilio nel detto porto, che sanza nulla redenzione la maggiore parte perirono, e ruppe l’uno legno l’altro, ove tutto l’arnese di quello oste si perdé, ch’era d’inumerabile valuta, e molte genti vi perirono. E per molti si disse che ciò avenne per gli peccati de’ Cristiani, e perché aveano fatto accordo co’ Saracini per cuvidigia di moneta, potendo vincete e conquistare Tunisi e ’l paese.
XXXIX Come fu fatto papa Ghirigoro X a Viterbo, e come vi fu morto Arrigo figliuolo del re d’Inghilterra.
Arrivato lo detto stuolo de’ Cristiani in Cicilia, sì vi soggiornarono alquanto per guerire i malati, e prendere rinfrescamento, e rifare loro navilio; e quelli re e signori furono assai onorati da Carlo re di Cicilia; e poi si partirono di Cicilia, e lo re Carlo co·lloro ne vennero per lo regno di Puglia, e per Calavra a Viterbo, ov’era la corte della Chiesa in vacazione, e a Viterbo soggiornarono i detti re Filippo di Francia, e Carlo di Cicilia, e Adoardo e Arrigo suo fratello e figliuoli del re d’Inghilterra, per fare che’ cardinali ch’erano in discordia eleggessono buono pastore per riformare l’apostolica sedia. E non potendo avere concordia di niuno di loro ch’erano presenti, elessono papa Gregorio X di Piagenza, il quale era cardinale e legato in Soria alla Terrasanta, e lui eletto, tornato d’oltremare fu consecrato papa gli anni di Cristo MCCLXXII. Essendo i sopradetti signori in Viterbo, avenne una laida e abominevole cosa sotto la guardia del re Carlo: che essendo Arrigo fratello d’Adoardo figliuolo del re Ricciardo d’Inghilterra in una chiesa alla messa, celebrandosi a quell’ora il sacrificio del corpo di Cristo, Guido conte di Monforte, il quale era per lo re Carlo vicario in Toscana, non guardando reverenza di Dio né del re Carlo suo signore, uccise di sua mano con uno stocco il detto Arrigo, per vendetta del conte Simone di Monforte suo padre, morto a sua colpa per lo re d’Inghilterra. E di ciò è bene da farne notevole memoria. Regnando inn-Inghilterra Arrigo padre del buono Adoardo, fu uomo di semplice vita, sicché i baroni l’aveano per niente, perch’egli mandò per lo detto conte Simone suo parente che gli guidasse il reame, ch’Adoardo era giovane. Questi era molto temuto e ridottato; e come si vide il reggimento del reame in mano, come fellone e traditore, gli oppuose falsamente che il re avesse fatte certe inique leggi contra il popolo, e mise lui e Adoardo in pregione, nella torre di Dovero, e teneasi il reame. La reina... zia per madre d’Adoardo, per volerlo scampare, sappiendo che per ogni Pasqua il conte Simone venia a Dovero, e traeva Adoardo della torre e facealo cavalcare seco, e come si partia il facea rimettere in pregione con grande e stretta guardia, eziandio di lettere, la savia reina mandò a Dovero una savia e bella damigella che sapea operare di gioelli, borse, e carnieri. Adoardo veggendola si prese di lei, e tanto adoperò colle guardie, che gli menarono la detta damigella, e volendola toccare, gli disse: «Io ci sono per altro»; e trasse fuori lettere gli mandava la reina, avisandolo del suo scampo e salute; e per quelle l’avisò come gli mandava per uno nostro Fiorentino cozzone, ch’avea nome Persona Fulberti, con belli destrieri, e uno batto armato con molti remi, avisandolo come avesse a·ffare. Ora, com’era usato per la Pasqua, il conte Simone venne a Dovero, e tratto Adoardo della torre, e provando i destrieri del detto cozzone, Adoardo con licenza del conte salì in su il migliore, menandolo a grandi rote; alla fine prese campo, e dilungossi, e venne al porto, e trovò apparecchiato il batto. Lasciato il cavallo, su vi salìo, e arrivò in Francia, e poi coll’aiuto del re di Francia, di Fiandra, di Brabante, e della Magna, con grande stuolo passò in Inghilterra, e combatté col conte Simone, e sconfisselo, e prese una coppa, e fecelo tranare, e poi impiccare, e diliberò il padre; e quegli morto, fu Adoardo coronato re d’Inghilterra a grande onore. Tornando a nostra principale materia, come per la detta vendetta fu morto il conte Arrigo, conte di Cornovaglia, fratello del re Adoardo, come dicemmo dinanzi, onde la corte si turbò forte, dando di ciò grande riprensione al re Carlo, che ciò non dovea sofferire, se·ll’avesse saputo, e se no·ll’avesse saputo no·llo dovea lasciare scampare sanza vendetta. Ma il detto conte Guido proveduto di compagnia di gente d’arme a cavallo e a piè, non solamente gli bastò d’avere fatto il detto micidio; perché uno cavaliere il domandò che egli avea fatto, e egli rispuose: «Ie a fet ma vengianze»; e quello cavaliere disse: «Comant? Vostre pere fu trainé»; incontanente tornò nella chiesa, e prese Arrigo per gli capelli, e così morto il tranò infino fuori della chiesa villanamente; e fatto il detto sacrilegio, e omicidio, si partì di Viterbo, e andonne sano e salvo in Maremma nelle terre del conte Rosso suo suocero. Per la morte del detto Arrigo Adoardo suo fratello molto cruccioso e isdegnato contro a·re Carlo si partì di Viterbo, e vennesene con sua gente per Toscana, e soggiornò in Firenze, e fece cavalieri più cittadini, donando loro cavagli e tutti arredi di cavalieri nobilemente, e poi se n’andò inn-Inghilterra, e ’l cuore del detto suo fratello in una coppa d’oro fece porre in su una colonna in capo del ponte di Londra sopra ’l fiume di Tamisi, per memoria agl’Inghilesi del detto oltraggio ricevuto. Per la qual cosa Adoardo poi che fu re, mai non fu amico del re Carlo, né di sua gente. Per simile modo si partì Filippo re di Francia con sua gente, e passò, e albergò più giorni in Firenze; e giunto in Francia, soppellito il corpo del buono re Luis suo padre a grande onore, e’ si fece coronare con grande solennità a Rens.
XL Come i Tartari scesono in Turchia, e come ne cacciarono i Saracini.
Nel detto anno MCCLXX Banducdar soldano de’ Saracini, dopo la presa ch’egli avea fatta della città d’Antioccia, gran parte del reame d’Erminia, passò con suo esercito in Turchia, la quale si tenea per gli Tartari, e per forza e per tradimento la raquistò, e’ Tartari che·ll’abitavano ne cacciò; per la qual cosa lo re d’Erminia andò per soccorso alla grande città del Torigi ad Abaga Cane figliuolo che fu Aloon signore de’ Tartari, onde adietro facemmo menzione. E fornita sua ambasciata, il detto Abaga Cane, il quale era molto amico de’ Cristiani e nimico de’ Saracini, il ricevette onorevolemente, e l’anno appresso venne con suo esercito di Tarteri col detto re d’Erminia in Turchia. E ’l detto soldano sentendo la venuta de’ Tarteri, si partì, e abandonò la Turchia, per la qual cosa i Tarteri ebbono la signoria della Turchia e d’Erminia, e volle il detto Abaga Cane dare a’ Cristiani e a·re d’Erminia la detta Turchia. Lo re d’Erminia non sentendosi poderoso, e la Chiesa e’ signori di ponente per le loro guerre l’aiutavano male, riprese il suo reame d’Erminia, e lasciò a’ Tartari la Turchia, la quale non molto tempo appresso per difetto de’ Cristiani, e spezialmente de’ Greci che vi sono vicini, i Saracini la ripresono.
XLI Come lo re Enzo figliuolo dello imperadore Federigo morì in pregione in Bologna.
L’anno appresso MCCLXXI, del mese di marzo, il re Enzo, figliuolo che fu di Federigo imperadore, morì nella pregione de’ Bolognesi, nella quale era stato lungo tempo, e fu soppellito da’ Bolognesi onorevolemente a la chiesa di San Domenico in Bologna, e in lui finìo la progenia dello imperadore Federigo. Ben si dice ch’ancora n’era uno figliuolo che fu de·re Manfredi, il quale stette lungamente nella pregione del re Carlo nel castello dell’Uovo a Napoli, e in quello per vecchiezza e disagio accecato della vista miseramente finìo sua vita.
XLII Come papa Ghirigoro colla corte venne in Firenze, e fece fare pace tra’ Guelfi e’ Ghibellini.
Negli anni MCLXXII Gregorio decimo di Piagenza, tornato lui della legazione d’oltremare, fu consegrato e coronato papa, e per lo grande affetto e volontà ch’egli avea del soccorso della Terrasanta, e che generale passaggio si facesse oltremare, incontanente che fu fatto papa, ordinò concilio generale a·lLeone sopra Rodano in Borgogna, e fece che per suo mandato gli elettori dello ’mperio d’Alamagna elessono re de’ Romani Ridolfo conte di Furimborgo, il quale era valente uomo d’arme, tutto che fosse di piccola potenza; ma per sua prodezza conquistò Soavia e Osteric: e [in] Osteric che vacava per lo dogio che fu morto con Curradino dal re Carlo fece dogio Alberto suo figliuolo. Il sopradetto papa l’anno appresso la sua coronazione si partì colla corte da Roma per andare a Leone su Rodano al concilio per lui ordinato, e entrò in Firenze co’ suoi cardinali, e collo re Carlo, e collo imperadore Baldovino di Gostantinopoli, il quale fu del legnaggio della casa prima di Fiandra. Questo Baldovino fu figliuolo d’Arrigo fratello del primo Baldovino, che conquistò Gostantinopoli co’ Viniziani, come addietro facemmo menzione. E col papa e col re Carlo vennero in Firenze e più altri signori e baroni a dì di XVIII di giugno, gli anni di Cristo MCCLXXIII, e da’ Fiorentini furono ricevuti onorevolemente. E piaccendogli la stanza di Firenze per l’agio dell’acqua, e per la sana aria, e che la corte avea ogni agiamento, sì ordinò di soggiornare e di fare la state in Firenze. E trovando lui che sì buona città, com’era Firenze, era guasta per cagione delle parti, che n’erano fuori i Ghibellini, volle che tornassono in Firenze, e facessono pace co’ Guelfi, e così fu fatta; e a dì II di luglio nel detto anno il detto papa co’ suoi cardinali, e col re Carlo, e col detto imperadore Baldovino, e con tutta la baronia e gente della corte, e congregato il popolo di Firenze nel greto d’Arno a piè del capo del ponte Rubaconte, fatti in quello luogo grandi pergami di legname ove stavano i detti signori, in presenzia di tutto il popolo diede sentenzia, sotto pena di scomunicazione chi la rompesse, e sopra la differenzia ch’era tra la parte guelfa e la ghibellina, faccendo basciare in bocca i sindachi di ciascuna parte, e fare pace, e dare mallevadori e stadichi; e tutte le castella che’ Ghibellini teneano renderono in mano del re Carlo, e gli stadichi ghibellini andarono in Maremma a la guardia del conte Rosso. La qual pace poco durò, sì come appresso faremo menzione. E quello dì il detto papa fondò la chiesa di Santo Gregorio, e per lo suo nome così la titolòe, la qual feciono fare quegli della casa de’ Mozzi, i quali erano mercatanti del papa e della Chiesa, e in picciolo tempo venuti in grande ricchezza e stato, e ne’ loro palagi in capo del ponte Rubaconte di là da Arno abitò il detto papa, mentre soggiornò in Firenze; e lo re Carlo abitò al giardino de’ Frescobaldi, e lo ’mperadore Baldovino al vescovado. Ma al quarto dì appresso il papa si partì di Firenze, e andonne a soggiornare in Mugello col cardinale Attaviano ch’era della casa degli Ubaldini, da’ quali fu ricevuto, e fatto grande onore. Alla fine della state si partì il papa, e’ suo’ cardinali, e il re Carlo, e andarne oltremonti a Leone sopra Rodano in Borgogna. E la cagione perché il papa si partì così tosto di Firenze si fu che avendo fatti venire in Firenze i sindachi della parte ghibellina, e fattigli basciare in bocca pace faccendo, come detto avemo, co’ sindachi de’ Guelfi, e rimasi in Firenze per dare compimento a’ contratti della pace, e tornando ad albergo a casa i Tebalducci in Orto Sammichele, o vero o non vero che fosse, a·lloro fu detto che ’l maliscalco del re Carlo a petizione de’ grandi Guelfi di Firenze gli farebbe tagliare per pezzi, se non si partissono di Firenze. Alla quale cagione diamo fede per la iniquità delle parti; e incontanente si partirono di Firenze, e andarsene, e fu rotta la detta pace; onde il papa si turbò forte, e partissi di Firenze lasciando la città interdetta, e andonne, come detto avemo, in Mugello; e col re Carlo per questa cagione rimase in grande isdegno.
XLIII Come papa Ghirigoro fece concilio a Leone sopra Rodano.
Negli anni di Cristo MCCLXXIIII papa Gregorio celebrò concilio a Leone sopra Rodano del mese di maggio infino a dì IIII d’agosto, nel quale concilio Paglialoco imperadore de’ Greci e il patriarca di Gostantinopoli si riconciliarono colla Chiesa di Roma, promettendo di correggersi di certi errori che i detti Greci hanno tenuti, e seguire per innanzi secondo la nostra fede e ordini della santa Chiesa romana, tutto che poi no·llo attenessono come promisono. E tutto questo riconciliamento fece il papa co’ Greci per acconcio del passaggio d’oltremare, ordinato per lui al detto concilio, ond’egli ave’ grande affezzione e studio. Ma per lo riconciliamento col Paglialoco e co’ Greci lo re Carlo fu molto contrario e cruccioso, per amore dello ’mperadore Baldovino, suo genero della figliuola, al quale di ragione di conquisto sucedea il detto imperio; e lo re Carlo ch’avea già impreso ad atargliele racquistare, onde crebbe lo sdegno tra lui e ’l papa cominciato in Firenze, come di sopra facemmo menzione. Per lo quale riconciliamento de’ Greci il detto papa confermò il detto Paglialoco imperadore dello ’mperio di Gostantinopoli, e confermò Ridolfo conte di Furimborgo eletto re de’ Romani, signore di gran valore, tutto fosse di piccolo lignaggio, e ch’egli era degno dello ’mperio di Roma, e acciò ch’egli venisse per la corona a Roma, e fosse capitano e imperadore del passaggio d’oltremare, e ch’egli venisse più tosto, il papa gli promise e dipuose de’ danari della Chiesa apo le compagnie di Firenze e di Pistoia, i quali erano mercatanti del papa e della Chiesa, CCm di fiorini d’oro nella città di Melano; e il detto Ridolfo promise sotto pena di scomunicazione d’essere in Melano infra certo tempo; la quale promessione per sue imprese e guerre d’Alamagna non venne, e non passò i monti, e mai nonn-ebbe la corona, né·lla benedizione dello ’mperio, ma rimase scomunicato; e per avere poi sua pace col papa e colla Chiesa, e esser ricomunicato, sì privileggiò la contea di Romagna, come potea di ragione, alla Chiesa di Roma, e da indi innanzi la possedette la Chiesa per sua. E nel detto concilio il detto papa ordinò il passaggio generale d’oltremare a ricovero della Terrasanta, e che·lle decime si ricogliessono per tutta la Cristianità sei anni in susidio del detto passaggio, e diede la croce, e ordinò si desse la croce per tutta Cristianità per lo detto passaggio, perdonando colpa e pena chi·lla prendesse, o v’andasse, o mandasse; e vietò l’usura, e scomunicò chi·lla facesse piuvica, e vietò tutte l’ordini de’ frati mendicanti, salvo che’ll’ordine de’ frati minori e predicatori; confermò i romitani, e’ carmellini si riservò sospesi. E molte altre costituzioni e decreti utili per la Chiesa vi si feciono, e vietò i soperchi ornamenti delle donne per tutta la Cristianità.
XLIV Come la parte ghibellina fu cacciata di Bologna.
Nel detto anno MCCLXXIIII, a dì II del mese di giugno, la parte ghibellina di Bologna, detti Lambertacci per uno casato che n’era capo così chiamato, furono cacciati di Bologna; e ciò fu per cagione e sospetto che·lla parte ghibellina era molto cresciuta in Romagna, e poco innanzi cacciata la parte guelfa di Faenza; alla quale cacciata de’ Ghibellini di Bologna i Fiorentini vi mandarono in servigio de’ Guelfi gente d’arme a cavallo; ma il popolo di Bologna non gli lasciarono entrare nella terra, ma si feciono loro incontro in su il Reno; e fuvi morto il cavaliere della podestà di Firenze ch’era capitano de’ detti cavalieri, dicendo i Bolognesi che non voleano che i Fiorentini guastassono la loro città, siccom’eglino aveano guasta Firenze. La quale sopradetta parte ghibellina di Bologna si ridusse in Faenza; per la qual cosa i Bolognesi il settembre vegnente andarono ad oste alla città di Faenza, e guastarla intorno, onde i Ghibellini di Romagna colli usciti di Bologna feciono loro capitano di guerra Guido conte di Montefeltro, savio e sottile d’ingegno di guerra più che niuno che fosse al suo tempo.
XLV Come giudice di Gallura con certi Guelfi fu cacciato di Pisa. Negli anni di Cristo MCCLXXIIII Giovanni giudice del giudicato di Gallura, grande e possente cittadino di Pisa, con suo séguito d’alquanti Guelfi di Pisa, per oltraggio di sua signoria, e perché il popolo di Pisa si tenea a parte d’imperio, fue cacciato di Pisa. Per la qual cosa il detto giudice si legò co’ Fiorentini, e co’ Lucchesi, e cogli altri Guelfi della taglia di Toscana; e co·lloro insieme del mese d’ottobre andarono ad oste sopra il castello di Montetopoli, il quale ebbono a patti, uscendone i forestieri sani e salvi, e ’l castello rimase al detto giudice di Gallura, il quale poco vivette, perché il maggio seguente, gli anni di Cristo MCCLXXV, morì nel castello di Samminiato.
XLVI D’uno grande miracolo ch’avenne in Baldacca e Mansul oltremare.
Negli anni di Cristo MCLXXV avenne uno grande e bello miracolo, del quale è bene da farne menzione in questa nostra opera, in adificazione della nostra santa fede. Egli era in que’ tempi uno califfo de’ Saracini in Baldacca e ’n Mansul, molto savio e litterato, e nimico e persecutore de’ Cristiani, che in quello paese n’avea assai; e trovando egli per lo Vangelo di santo Matteo, ove Cristo disse a’ suoi discepoli che chi avesse tanta fede quant’uno granello di senape, e nel suo nome comandasse a uno monte si levasse di suo luogo e si ponesse altrove, sì il farebbe essere; trovando questo argomento, per confondere i Cristiani, sì richiese i vescovi e’ caporali de’ Cristiani, e mostrò loro il detto Vangelio, e se ’l volessono aprovare, tutti dissono di sì. Allora comandò loro che «infra X dì voi comandiate a uno grande monte ch’era in quello luogo si levasse e si riponesse in altra parte, e se ciò non farete, voi sete sanza fede al vostro Iddio, e falsi Cristiani, e voglio che rinneghiate Cristo e facciatevi Saracini, e se non, sì vi farò tutti morire di mala morte». Ricevuto l’aspro e crudele comandamento, non sapeano che·ssi dire né che·ssi fare, ma con grandi pianti e dolori, come gente giudicata a morte, ricorsono alla misericordia d’lddio, e alla penitenzia, digiuni, e orazioni di dì e di notte. Infra quegli giorni più volte venne in visione a uno santo vescovo che uno povero ciabattiere, che aveva pure uno occhio, gli doveva liberare: manifestollo al popolo, e cercossi del ciabattiere, e trovossi; il quale era uomo di santa vita, e ciò ch’egli avanzava di sua povera arte, fornita miseramente sua vita, dava per Dio a’ poveri, e l’occhio ch’egli avea meno perdé, che calzando una bella Cristiana gli venne tentazione di carnalità, onde si scandalizzò molto, e ricordandosi del Vangelio di Cristo, ove disse: «Se ’l tuo occhio ti scandalizza, sì il ritrai», ed egli prendendo il semplice della lettera, con una lesina si punse l’occhio, onde il perdé. E venuto il termine del comandamento del calif, furono raunati tutti i Cristiani, uomini e femmine e fanciulli, colle croci innanzi, nel piano dov’era al di sopra il detto monte, i quali erano in quantità di più di Cm, co’ Saracini e Turchi armati intorno a cavallo e a piè per distruggergli. Richiesto il ciabattiere di fare il priego a·dDio, si disdicea come indegno e peccatore; ma per la piatà e pianto del popolo s’inginocchiò, e disse in piagnendo: «Signore Idio onipotente. io ti priego che tu facci grazia e misericordia a questo tuo popolo, e mostri a questi miscredenti la virtù del tuo figliuolo Iesù Cristo, e dimostri visibile miracolo, acciò che sia glorificato il tuo santo nome»; e ciò detto, comandò al monte che per la virtù di Cristo si dovesse mutare, il quale con grandi tremuoti, e spaventevole tempo di tuoni e baleni e venti, si mosse, e si ripuose ove fu comandato; onde il detto popolo cristiano con grande letizia furono liberi, ringraziando e magnificando Iddio. Per lo quale visibile miracolo molti de’ Saracini si feciono Cristiani, e ’l califfo medesimo al segreto; e quando venne a morte gli si trovò la santa croce a collo, e vivuto dopo il miracolo in santa vita.
Lasceremo de’ fatti d’oltremare, e torneremo a quegli d’Italia.
XLVII Come il conte Ugolino con tutto il rimanente de’ Guelfi fu cacciato di Pisa.
Negli anni di Cristo MCCLXXV il conte Ugolino della casa de’ Gherardeschi di Pisa, col rimanente de’ possenti Guelfi di Pisa, fu cacciato di Pisa del mese di maggio; per la qual cosa s’allegò co’ Fiorentini, e Lucchesi, e l’altra taglia de’ Guelfi di Toscana, e andarono ad oste sopra la città di Pisa del mese di luglio prossimo, e guastarono Vicopisano, e ebbono più castella de’ Pisani; e la detta oste fu fatta contra il comandamento del papa, per la qual cosa fece contra loro scomunicazione e interdetto.
XLVIII Come i Bolognesi furono sconfitti al ponte a San Brocolo dal conte da Montefeltro e da’ Romagnuoli.
Negli anni di Cristo MCCLXXV, del mese di giugno, i Bolognesi per comune andarono ad oste in Romagna sopra la città di Forlì e quella di Faenza, perché riteneano i loro usciti ghibellini; e di loro era capitano messer Malatesta da Rimine; dalla parte de’ Romagnuoli era capitano il conte Guido da Montefeltro, il quale col podere de’ Ghibellini di Romagna, e cogli usciti di Bologna, e cogli usciti ghibellini di Firenze, ond’era capitano messer Guiglielmino de’ Pazzi di Valdarno, si feciono loro incontro al ponte a San Brocolo aboccandosi a battaglia; nel quale aboccamento la cavalleria de’ Bolognesi non resse, ma quasi sanza dare colpo si misono alla fugga, chi dice per loro viltà, e chi dice perché il popolo di Bologna, il quale trattava male i nobili, furono contenti i nobili di lasciargli al detto pericolo; e ’l conte da Panago, ch’era co’ nobili di Bologna, quando si partì dal popolo di Bologna, disse per rimproccio: «Leggi gli statuti, popolo marcio». Il quale popolo abandonato da·lloro cavalleria, si tennero amassati in su il campo grande pezza del giorno, difendendosi francamente. Alla perfine il conte da Montefeltro fece venire le balestra grosse, le quali il conte Guido Novello, ch’era podestà di Faenza, aveva tratte della camera del Comune di Firenze quando ne fu signore, e con quelle balestra saettando alle loro schiere, le partì, e le ruppe, e sconfisse, onde molti cittadini di Bologna ch’erano a piè in quella oste furono morti e presi.
XLIX Come i Pisani furono sconfitti da’ Lucchesi al castello d’Asciano.
Nel detto anno, a dì II di settembre, i Lucchesi col conte Ugolino e cogli altri usciti guelfi di Pisa, e con soldati di Firenze, e col vicaro del re Carlo in Toscana, ch’avea nome..., andarono ad oste sopra la città di Pisa contra il comandamento del papa, e sconfissono i Pisani al castello d’Asciano presso Pisa a III miglia, onde molti Pisani vi furono morti e presi, e ’l detto castello rimase a’ Lucchesi.
L Della morte di papa Ghirigoro e di tre altri papi appresso.
Negli anni di Cristo MCCLXXV, a dì XVIII di dicembre, papa Ghirigoro X tornando dal concilio da Leone sopra Rodano, arrivò nel contado di Firenze, e per cagione che·lla città di Firenze era interdetta, e gli uomini di quella scomunicati, perché nonn-aveano oservata la sentenzia della pace ch’avea fatta tra’ Guelfi e’ Ghibellini, come dicemmo adietro, sì non volle entrare in Firenze, ma per ingegno fu guidato di fuori delle vecchie mura; e chi disse che non potéo fare altro, perché ’l fiume d’Arno era per piogge sì grosso ch’egli no·llo poté guadare, ma di nicessità gli convenne passare per lo ponte Rubaconte, sicché non aveggendosi, e non potendo altro fare, entrò in Firenze; mentre passò per lo ponte e per lo borgo di San Niccolò, ricomunicò la terra, e andò segnando la gente, e come ne fu fuori, lasciò lo ’nterdetto, e scomunicò da capo la città, con malo animo dicendo il verso del Saltero che dice: «In camo et freno maxillas eorum constringe etc.»; onde i Guelfi che reggeano Firenze ebbono grande sospetto e paura. E partitosi il detto papa di Firenze, n’andò ad albergare a la badia a Ripole, e di là sanza soggiorno se n’andò ad Arezzo; e giunto lui in Arezzo, cadde malato, e come piacque a·dDio, passò di questa vita a dì X del seguente mese di gennaio, e in Arezzo fu soppellito a grande onore; della cui morte i Guelfi di Firenze furono molto allegri, per la mala volontà che ’l detto papa avea contra loro. Morto il papa, incontanente i cardinali furono rinchiusi, e a dì XX del detto mese di gennaio chiamarono papa Innocenzio quinto nato di Borgogna, il quale era stato frate predicatore, e allora era cardinale; e vivette papa infino al giugno vegnente, sì che poco fece, e morì alla città di Viterbo, e in quella fu soppellito onorevolemente. E appresso lui, a dì XII di luglio, fu chiamato messere Ottobuono cardinale dal Fiesco della città di Genova, il quale non vivette che XXXVIIII dì nel papato, e fu chiamato papa Adriano quinto, e fu soppellito in Roma. E appresso lui, del presente mese di settembre, fu eletto papa maestro Piero Spagnuolo cardinale, il quale fu chiamato papa Giovanni XXI, e non vivette papa che VIII mesi e dì; che dormendo in sua camera in Viterbo gli cadde la volta di sopra adosso, e morìo, e fu soppellito in Viterbo a dì XX di maggio MCCLXXVII; e vacò la Chiesa VI mesi. E nel presente anno fu grandissimo caro di tutte vittuaglie, e valse lo staio del grano soldi XV da soldi XXX il fiorino. E nota una grande e vera visione che avenne della morte del detto papa a uno nostro Fiorentino mercatante della compagnia degli speziali, ch’avea nome Berto Forzetti, della quale è bene da fare menzione. Il detto mercatante avea uno vizio naturale di diversa fantasia, che sovente fra sonno dormendo si levava in su il letto a sedere, e parlava diverse maraviglie; e più ancora, che essendo da’ desti ch’erano co·llui domandato di quello ch’egli parlava, rispondea a proposito, e tuttavia dormia. Avenne che·lla notte che morìo il detto papa, essendo il detto in nave in alto pelago, e andava in Acri, si levò e gridò: «Omè! Omè!». E’ compagni si destarono, e domandarlo ch’egli avesse. Rispuose: «Io veggio uno grandissimo uomo nero con una grande mazza in mano, e vuole abattere una colonna in su ched è una volta». E poco stante rigridò, e disse: «Egli l’hae abattuta, ed è morto»; fu domandato: «Chi?», rispuose: «Il papa». I detti suoi compagni misono in iscritta le parole, e la notte; e giunti loro in Acri, poco tempo appresso vi vennono novelle della morte del detto papa, che apunto in quella notte avenne. E io scrittore ebbi di ciò testimonianza da quegli mercatanti ch’erano presenti col detto in su la detta nave, e udirono il detto Berto, i quali erano uomini di grande autorità e degni di fede, e la fama di ciò fu per tutta la città nostra. Poi fu eletto papa Niccola III di casa gli Orsini di Roma, ch’avea nome propio messer Gianni Guatani cardinale, il quale vivette papa II anni e VIIII mesi e mezzo. Avemo detto de’ sopradetti papi, perché in XVI mesi morirono IIII papi. Lasceremo di dire alquanto de’ detti papi, e diremo delle cose che furono a·lloro tempo in Firenze e per l’universo mondo.
LI Come i Fiorentini e’ Lucchesi sconfissono i Pisani al fosso Arnonico.
Negli anni di Cristo MCCLXXVI, del mese di giugno, i Fiorentini e’ Lucchesi, a sommossa del conte Ugolino e degli altri usciti guelfi di Pisa, col maliscalco del re Carlo ch’avea nome..., in quantità di MD cavalieri e popolo assai, andarono ad oste sopra Pisa verso il Ponte ad Era, e i Pisani, per tema de’ Fiorentini, aveano fatto di nuovo uno grande fosso poco di là dal Ponte ad Era, presso di Pisa a VIII miglia, il quale era lungo più di X miglia, e mettea in Arno, e chiamavasi il fosso Arnonico; e a quello aveano fatti ponti e fortezze di steccati e bertesche, e di là da quello i Pisani stavano co·lloro oste alla difensione. E giuntavi l’oste de’ Fiorentini, combattendo il detto fosso, alcuna parte di loro gente a piè e poi a cavallo di lungi all’oste valicarono per punga il detto fosso lungo l’Arno. I Pisani incontanente che sentirono che’ nemici aveano valicato il fosso, si misono alla fugga e inn-isconfitta, onde l’oste tutta valicò cacciando i Pisani infino a Pisa; onde molti ne furono morti e in grande quantità presi; per la quale sconfitta i Pisani feciono le comandamenta de’ Fiorentini e pace, e rimisono i Pisani il detto conte Ugolino e tutti i loro usciti guelfi.
LII Come furono sconfitti i signori della Torre di Melano.
Negli anni di Cristo MCCLXXVI, a dì XX del mese di gennaio, furono sconfitti i signori della Torre di Milano a Cortenuova dal marchese di Monferrato e da’ nobili cattani, e varvassori, e dagli altri loro seguaci e usciti di Milano, e furono morti due di quegli della Torre in quella battaglia, e presi VI, e eglino e tutta loro parte, i quali teneano a parte guelfa, furono cacciati di Milano, e tornovvi l’arcivescovo, ch’era de’ Visconti, e suoi consorti, e gli altri nobili, e ogni altro uscito; e fu fatto capitano del popolo di Milano messer Maffeo Visconti fratello dell’arcivescovo in questo modo: che tornati i nobili in Milano, furono eletti IIII capitani, i capi delle maggiori case di Milano, messer Maffeo Visconti, messer Otto da Mandello figliuolo di messer Rubaconte, uno di quegli da Posterla, e uno di quegli da Castiglione, e ciascuno dovea essere uno anno; ma il primo fu messer Maffeo per riverenzia dell’arcivescovo, ch’era suo fratello. Poi infra l’anno l’arcivescovo adoperò che Otto fu fatto capitano di Piagenza, e l’altro da Postierla di Pavia, e quello da Castiglione di Lodi: e così in capo del termine rimase signore e capitano messer Maffeo Visconti colla forza e senno dell’arcivescovo; e poi durò molto tempo in signoria, e di fuori quelli della Torre. E nota che’ signori della Torre erano la maggiore e la più possente casa d’avere e di persone che fosse in Italia o in nulla cittade, e di loro era il patriarca Ramondo d’Aquilea, il quale regnò XXVI anni patriarca, e colla sua forza e per loro medesimi metteano MD cavalieri in campo sanza il podere del Comune di Milano, ond’erano al tutto signori, e spezialmente del popolo. E cacciatine i nobili cattani e varvassori, e in quella signoria regnarono uno buono tempo, onde prima fu capitano del popolo di Milano messer Alamanno della Torre, figliuolo che fu di messer Martino e fratello del patriarca, e fu buono uomo e giusto, e amato da tutti; poi fu capitano messer Nappo, overo Nepoleon, suo fratello, e cominciò a tirannezzare; e poi fu capitano messer Francesco loro fratello, il quale fu pessimo in tutte cose, e per lo suo soperchio e oltraggi alla sua signoria furono sconfitti e perderono lo stato, come detto è di sopra.
LIII Come il re Filippo di Francia fece pigliare tutti i prestatori italiani.
Negli anni di Cristo MCCLXXVII, a dì XXIIII d’aprile, in uno giorno il re Filippo di Francia fece pigliare tutti i prestatori italici di suo reame, e eziandio de’ mercatanti, sotto colore che usura non s’usasse in suo paese, accomiatandogli del reame per lo divieto ch’avea fatto papa Ghirigoro al concilio di Leone; ma ciò mostra che facesse più per covidigia di moneta che per altra onestade, però che gli fece finire per libbre LXm di parigini, di soldi X il fiorino d’oro, e poi la maggiore parte si rimasono al paese come di prima a prestare.
LIV Come fu fatto papa Niccola terzo degli Orsini, e quello che fece al suo tempo.
Nel detto anno, come alcuna cosa ricordammo adietro, fu fatto papa messer Gianni Guatani, cardinale di casa degli Orsini di Roma, il quale mentre fu giovane cherico e poi cardinale fu onestissimo e di buona vita, e dicesi ch’era di suo corpo vergine; ma poi che fue chiamato papa Niccola III, fu magnanimo, e per lo caldo de’ suoi consorti imprese molte cose per fargli grandi, e fu de’ primi, o il primo papa, nella cui corte s’usasse palese simonia per gli suoi parenti; per la qual cosa gli agrandì molto di possessioni e di castella e di moneta sopra tutti i Romani in poco tempo ch’egli vivette. Questo papa fece VII cardinali romani, i più suoi parenti, intra gli altri, a priego di messer Gianni capo della casa della Colonna suo cugino, fece cardinale messer Jacopo della Colonna, acciò che’ Colonnesi non s’apprendessono all’aiuto degli Anibaldeschi loro nemici, ma fossono in loro aiuto; e fu tenuta gran cosa, però che·lla Chiesa avea privati tutti i Colonnesi, e chi di loro progenia fosse, d’ogni benificio eclesiastico infino al tempo di papa Allessandro terzo, però ch’aveano tenuto collo imperadore Federigo primo contra a la Chiesa. Appresso il detto papa fece fare i nobili e grandi palazzi papali di Santo Piero; ancora prese tenza col re Carlo per cagione che ’l detto papa fece richiedere lo re Carlo d’imparentarsi co·llui, volendo dare una sua nipote per moglie a uno nipote del re, il quale parentado il re non volle asentire, dicendo: «Perch’egli abbia il calzamento rosso, suo lignaggio nonn-è degno di mischiarsi col nostro, e sua signoria nonn-era retaggio»; per la qual cosa il papa contro a·llui isdegnato, e poi non fu suo amico, ma in tutte cose al sagreto gli fu contrario, e del palese gli fece rifiutare il sanato di Roma e il vicariato dello imperio, il quale avea dalla Chiesa vacante imperio; e fugli molto contra in tutte sue imprese, e per moneta che·ssi disse ch’ebbe dal Paglialoco aconsentì e diede aiuto a favore al trattato e rubellazione ch’al re Carlo fu fatta dell’isola di Cicilia, come innanzi faremo menzione; e tolse alla Chiesa Castello Santo Angelo, e diello a messer Orso suo nipote. Ancora il detto papa si fece privileggiare per la Chiesa la contea di Romagna e la città di Bologna a Ridolfo re de’ Romani, per cagione ch’egli era caduto in amenda alla Chiesa della promessa ch’egli aveva fatta a papa Ghirigoro al concilio da·lLeone su Rodano quando il confermò, cioè di passare in Italia per fornire il passaggio d’oltremare, come adietro facemmo menzione; la qual cosa nonn-avea fatta per altre sue imprese e guerre d’Alamagna. Né questa dazione e brivilegiare alla Chiesa il contado di Romagna e la città di Bologna né potea né dovea fare di ragione; intra l’altre, perché il detto Ridolfo non era pervenuto alla benedizione imperiale: ma quello che’ cherici prendono, tardi sanno tendere. Incontanente che ’l detto papa ebbe privilegio di Romagna, sì-nne fece conte per la Chiesa messer Bertoldo degli Orsini suo nipote, e con forza di cavalieri e di gente d’arme il mandò in Romagna, e co·llui per legato messer fra Latino di Roma cardinale ostiense suo nipote, figliuolo della suora, nato de’ Brancaleoni, ond’era il cancelliere di Roma per retaggio; e ciò fece per trarre la signoria di mano al conte Guido di Montefeltro, il quale tirannescamente la si tenea e signoreggiava; e così fu fatto, per modo che in poco tempo quasi tutta Romagna fu alla signoria della Chiesa, ma non sanza guerra e grande spendio della Chiesa, come innanzi diremo a·lluogo e a tempo.
LV Come lo re Ridolfo de la Magna sconfisse e uccise lo re di Buem.
Negli anni di Cristo MCCLXXVII, essendo grande guerra tra·re Ridolfo della Magna e lo re di Buemme per cagione che nol volea ubbidire né fare omaggio, per la qual cosa il re Ridolfo eletto imperadore con grandissimo oste andò sopra il detto re di Buem, il quale gli si fece incontro con grandissima cavalleria, e dopo la dura e aspra battaglia che fu tra così aspre genti d’arme, come piacque a·dDio il detto re di Buem nella detta battaglia fu morto, e la sua gente sconfitta, nella quale innumerabile cavalleria furono morti e presi, e quasi tutto il reame di Buem Ridolfo ebbe a sua signoria. E ciò fatto, col figliuolo del detto re di Buem fece pace, faccendolsi prima venire a misericordia; e stando il re Ridolfo in sedia in uno grande fango, e quello di Buem stava dinanzi a·llui ginocchione innanzi a tutti i suoi baroni; ma poi lui riconciliato, il re Ridolfo gli diede la figliuola per moglie, e rendégli il reame; e ciò fu a dì XXVI d’agosto del detto anno. Questo re Ridolfo fu di grande affare, e magnanimo, e pro’ in arme, e bene aventuroso in battaglie, molto ridottato dagli Alamanni e dagli Italiani; e se avesse voluto passare in Italia, sanza contasto n’era signore. E mandocci suoi ambasciadori l’arcivescovo di Trievi, e fu in Firenze negli anni MCCLXXX, significando sua venuta, onde i Fiorentini non sapeano che si fare; e se fosse passato, di certo l’avrebbono ubbidito. E lo re Carlo, ch’era così possente signore, il temette forte; e per essere bene di lui, diede a Carlo Martello, figliuolo del figliuolo, la figliuola del detto re Ridolfo per moglie.
LVI Come il cardinale Latino per mandato del papa fece la pace tra’ Guelfi e’ Ghibellini di Firenze, e tutte l’altre della città.
In questi tempi i grandi Guelfi di Firenze riposati delle guerre di fuori con vittorie e onori, e ingrassati sopra i beni de’ Ghibellini usciti, e per altri loro procacci, per superbia e invidia cominciarono a riottare tra·lloro, onde nacquero in Firenze più brighe e nimistadi tra’ cittadini, mortali, e di fedite. Intra l’altre maggiori era la briga tra·lla casa degli Adimari dall’una parte, ch’erano molto grandi e possenti, e dall’altra parte i Tosinghi, e la casa de’ Donati, e quella de’ Pazzi legati insieme contro agli Adimari, per modo che quasi tutta la città n’era partita, e chi tenea coll’una parte e chi coll’altra; onde la città e parte guelfa n’era in grande pericolo. Per la qual cosa il Comune e’ capitani della parte guelfa mandarono loro ambasciadori solenni a corte a papa Niccola, che mettesse consiglio e ’l suo aiuto a pacificare i Guelfi di Firenze insieme; se non, parte guelfa si dovidea, e cacciava l’uno l’altro. E per simile modo gli usciti ghibellini di Firenze mandarono loro ambasciadori al detto papa e pregarlo e richiederlo ch’egli mettesse a seguizione la sentenzia della pace data per papa Ghirigoro nono tra·lloro e’ Guelfi di Firenze. Per le sopradette cagioni il detto papa provide e confermò la detta sentenzia, e ordinò paciato e legato e commise le dette questioni a frate Latino cardinale, ch’era in Romagna per la Chiesa, uomo di grande autorità e scienza, e grande apo il papa, il quale per lo mandamento del papa si partì di Romagna, e giunse in Firenze con CCC cavalieri della Chiesa a dì VIII del mese d’ottobre, gli anni di Cristo MCCLXXVIIII, e da’ i Fiorentini e dal chericato fu ricevuto a grande onore e processione, andandogli incontro il carroccio, e molti armeggiatori; e poi il detto legato il dì di santo Luca Vangelista, nel detto anno e mese, fondò e benedisse la prima pietra della nuova chiesa di Santa Maria Novella de’ frati predicatori, ond’egli era frate; e in quello luogo de’ frati trattò e ordinò generalmente le paci tra tutti i cittadini, Guelfi con Guelfi, e poi da’ Guelfi a’ Ghibellini. E la prima fu tra gli Uberti e’ Bondelmonti (e fu la terza pace), salvo che’ figliuoli di messer Rinieri Zingane de’ Bondelmonti no·llo assentiro, e furono scomunicati per lo legato, e isbanditi per lo Comune. Ma per loro non si lasciò la pace; che poi il legato bene aventurosamente del mese di febbraio vegnente, congregato il popolo di Firenze a parlamento nella piazza vecchia della detta chiesa, tutta coperta di pezze, e con grandi pergami di legname, in su’ quali era il detto cardinale, e più vescovi, e prelati, e cherici, e religiosi, e podestà, e capitano, e tutti i consiglieri, e gli ordini di Firenze, e in quello per lo detto legato sermonato nobilemente e con grandi e molte belle autoritadi, come alla materia si convenia, sì come quegli ch’era savio e bello predicatore; e ciò fatto, sì fece basciare in bocca i sindachi ordinati per gli Guelfi e per gli Ghibellini, pace faccendo con grande allegrezza per tutti i cittadini; e furono CL per parte. E in quello luogo presentemente diede sentenzia de’ modi, e de’ patti, e condizioni che si dovessono oservare intra l’una parte e l’altra, fermando la detta pace con solenni e vallate carte, e con molti idonei mallevadori. E d’allora innanzi poterono tornare e tornarono i Ghibellini in Firenze e le loro famiglie, e furono cancellati d’ogni bando e condannagione; e furono arsi tutti i libri delle condannagioni e bandi ch’erano in camera; e detti Ghibellini riebbono i loro beni e possessioni, salvo che alquanti de’ più principali fu ordinato per più sicurtà della terra che certo tempo stessono a confini. E ciò fatto per lo legato cardinale, fece fare le singulari paci de’ cittadini; e la prima fu quella ond’era la maggiore discordia, cioè tra gli Adimari e’ Tosinghi, e’ Pazzi e’ Donati, faccendo più parentadi insieme; e per simile modo si feciono tutte quelle di Firenze e del contado, quali per volontà e quali per la forza del Comune, datane sentenzia per lo cardinale con buoni sodamenti e mallevadori; delle quali paci il detto legato ebbe grande onore, e quasi tutte s’osservarono, e la città di Firenze ne dimorò buono tempo in pacifico e buono e tranquillo stato. E fece e ordinò il detto legato al governamento comune della città XIIII buoni uomini grandi e popolani, che gli VIII erano Guelfi e VI Ghibellini, e durava il loro uficio di due in due mesi con certo ordine di loro elezione; e raunavansi in su la casa della Badia di Firenze sopra la porta che va a Santa Margherita, e tornavansi a dormire e a desinare alle loro case. E ciò fatto, il detto cardinale Latino con grande onore si tornò in Romagna alla sua legazione. Lasceremo alquanto de’ fatti di Firenze, e diremo d’altre novità ch’avennero in questi tempi, e spezialmente della rubellazione dell’isola di Cicilia al re Carlo, la quale fu notabile e grande, onde poi seguì molto male, e fu quasi cosa maravigliosa e impossibile, e però la tratteremo più distesamente.
LVII Come fu il trattato e tradimento che l’isola di Cicilia fosse rubellata al re Carlo.
Ne’ detti tempi, cioè negli anni di Cristo MCCLXXVIIII, lo re Carlo re di Gerusalem e di Cicilia era il più possente re e il più ridottato in mare e in terra, che nullo re de’ Cristiani; e per lo suo grande stato e signoria imprese (a petizione dello imperadore Baldovino suo genero, il quale era stato scacciato dello ’mperio di Gostantinopoli per Paglialoco imperadore de’ Greci) di fare uno grande passaggio e maraviglioso per prendere e conquistare il detto imperio, con intendimento ch’avendo lo ’mperio di Gostantinopoli assai gli era appresso di raquistare Gerusalem e la Terrasanta; e ordinò e mise in concio d’armare più di C galee sottili di corso, e XX navi grosse; e fece fare CC uscieri da portare cavagli, e più altri legni passaggeri grande numero. E coll’aiuto e moneta della Chiesa di Roma, e col tesoro, che·ll’avea grandissimo, e coll’aiuto del re di Francia, invitò alla detta impresa tutta la buona gente di Francia e d’Italia; e’ Viniziani col loro isforzo vi doveano venire; e lo re col detto navilio, e con XL conti, e con Xm cavalieri dovea e s’apparecchiava di fare il detto passaggio il seguente anno avenire. E di certo gli venia fatto sanza riparo o contasto niuno, che ’l Paglialoco nonn-avea podere, né in mare né in terra, di risistere alla potenzia e apparecchiamento del re Carlo, e già grande parte della Grecia era sollevata a rubellazione. Avenne, come piacque a·dDio, che fu sturbata la detta impresa per abattere la superbia de’ Franceschi, ch’era già tanto montata in Italia per le vittorie del re Carlo, che’ Franceschi teneano i Ciciliani e’ Pugliesi per peggio che servi, isforzando e villaneggiando le loro donne e figlie; per la qual cosa molta di buona gente del Regno e di Cicilia s’erano partiti e rubellati, intra’ quali fu per la sudetta cagione di sua mogliera e figlia a·llui tolte, e morto il figliuolo che·lle difendea, uno savio e ingegnoso cavaliere e signore stato dell’isola di Procita, il qual si chiamava messer Gianni di Procita. Questi per suo senno e industria si pensò di sturbare il detto passaggio, e di recare la forza del re Carlo in basso stato, e in parte gli venne fatto; ch’egli segretamente andò in Gostantinopoli al Paglialoco imperadore per due volte, e mostrogli il pericolo che gli venia adosso per la forza del re Carlo e dello imperadore Baldovino coll’aiuto della Chiesa di Roma, e s’egli volesse credere e dispendere del suo avere e tesoro, disturberebbe i·detto passaggio, faccendo rubellare l’isola di Cicilia al re Carlo coll’aiuto de’ rubelli di Cicilia, e cogli altri signori dell’isola, i quali nonn-amavano il re Carlo né·lla signoria de’ Franceschi, e collo aiuto e forza del re d’Araona, mostrandogli ch’egli imprenderebbe la bisogna per lo retaggio di sua mogliera, figliuola ch’era stata dello re Manfredi. Il Paglialoco, tutto che ciò gli paresse impossibile, conoscendo la potenzia del re Carlo, e com’era ridottato più ch’altro signore, quasi come disperato d’ogni salute e soccorso, seguì il consiglio del detto messer Gianni, e fecegli lettere come gli ordinò il detto messer Gianni, e mandò co·llui in ponente suoi ambasciadori con molti ricchi gioelli, e di moneta gran tesoro. E arrivando messer Gianni cogli ambasciadori del Paglialoco sagretamente in Cicilia, e’ scoperse il detto trattato a messere Alamo da Lentino, e a messere Palmieri Abate, e a messer Gualtieri di Catalagirona, i maggiori baroni dell’isola, gli quali non amavano lo re Carlo né sua signoria; e da’ detti prese lettere a lo re di Raona, raccomandandosi che per Dio gli traesse di servaggio, e promettendo di volerlo per loro signore. E ciò fatto, il detto messer Gianni venne in corte di Roma sconosciuto a guisa di frate minore, e tanto adoperò, ch’egli parlò a papa Niccola III degli Orsini al segreto a uno suo castello che si chiamava Soriana, e manifestogli il suo trattato; e da parte del Paglialoco, raccomandandolo alla sua signoria, e presentò a·llui e a messer Orso del suo tesoro riccamente, secondo che per gli più si disse e si trovò la verità, commovendolo segretamente colla detta moneta contro al re Carlo. E con questo agiunse cagione, perché lo re Carlo non s’era voluto imparentare co·llui, come adietro facemmo menzione; onde il detto papa in segreto e palese sempre adoperò contro al re Carlo, mentre visse in sul papato, e sturbò quello anno il detto passaggio di Gostantinopoli, non ategnendo al re Carlo l’aiuto e promessa di moneta e d’altro che gli avea fatta la Chiesa. E ciò fatto, il detto messer Gianni avute le lettere del detto papa con segreto suggello al re di Raona, promettendogli la signoria di Cicilia, vegnendola a conquistare, si partì messer Gianni di corte e andonne in Catalogna allo re di Raona; e ciò fu l’anno MCCLXXX. E giunto messer Gianni al re Piero di Raona colle lettere del papa ove gli promettea il suo aiuto, e le lettere de’ baroni di Cicilia ove prometteano di rubellare l’isola, e le promesse di Paglialoco, sì accettò sagretamente di fare la ’mpresa; e rimandò adietro messer Gianni e gli altri ambasciadori, che sollecitassono di dare ordine alle cose, e di fare venire la moneta per fornire sua armata. Ma in questo mezzo isturbò molto l’opera la morte di papa Niccola, che morì l’agosto vegnente, come apresso faremo menzione.
LVIII Come morì papa Niccola degli Orsini, e fu fatto papa Martino dal Torso di Francia.
Nell’anno MCCLXXXI, del mese d’agosto, papa Niccola III degli Orsini passò di questa vita nella città di Viterbo, onde lo re Carlo fu molto allegro, non perch’egli sapesse né avesse iscoperto il tradimento che messer Gianni di Procita avea menato col Paglialoco e col detto papa, ma sapea e avedeasi bene ch’egli in tutte cose gli era contrario, e grande sturbo avea messo nella sua impresa e passaggio di Gostantinopoli. Per la qual cosa trovandosi in Toscana quando morì il detto papa, incontanente fu a Viterbo per procacciare d’avere papa che fosse suo amico, e trovò il collegio de’ cardinali in grande disensione e partiti; che l’una parte erano i cardinali Orsini e loro seguaci, e voleano papa a·lloro volontà, e tutti gli altri cardinali erano col re Carlo contrarii; e durò la tira e vacazione più di V mesi. Essendo i cardinali rinchiusi e distretti per gli Viterbesi, alla fine nonn-avendo concordia, i Viterbesi, a petizione si disse del re Carlo, trassono tra ’l collegio de’ cardinali messere Matteo Rosso e messere Giordano cardinali degli Orsini, i quali erano capo della loro setta, e villanamente furono messi in pregione; per la quale cosa gli altri cardinali s’accordarono d’eleggere e elessono papa messer Simone dal Torso di Francia cardinale, e fu chiamato papa Martino quarto; il quale fu di vile nazione, ma molto fu magnanimo e di grande cuore ne’ fatti della Chiesa, ma per sé propio e per suoi parenti nulla cuvidigia ebbe; e quando il fratello il venne a vedere papa, incontanente il rimandò in Francia con piccoli doni e colle spese, dicendo che’ beni erano della Chiesa e non suoi. Questi fu molto amico del re Carlo, e sedette papa tre anni, e uno mese, e XXVII dì. Questi come fu fatto papa, fece conte di Romagna messer Gianni di Epa di Francia per trarne il conte Bertoldo degli Orsini, e scomunicò Paglialoco imperadore di Gostantinopoli e tutti i Greci, perché non ubbidieno la Chiesa di Roma. Questo papa fece fare la rocca e’ grandi palagi di Montefiascone, e là fece molto sua stanzia mentre fu papa; e più altre cose furono al suo tempo, come innanzi faremo menzione. Per la sopradetta presura e villania che’ Viterbesi feciono a’ cardinali degli Orsini, mai la casa degli Orsini furono loro amici, ma corporali nimici; e vennonvi poi ad oste gli Orsini alle loro spese, ove consumarono molto del tesoro male aquistato per loro al tempo di papa Niccola terzo; sì che ogni diritto alla fine Iddio rende per diversi modi. Lasceremo de’ fatti della corte di Roma, e torneremo a nostra materia sopra il trattato di Cicilia.
LIX Come il re Piero d’Aragona giurò e promise al Paglialoco e a’ Ciciliani di venire in Cicilia e prendere la signoria.
Nel detto anno MCCLXXXI il sopradetto messer Gianni di Procita cogli ambasciadori di Paglialoco arrivati in Catalogna la seconda volta, si richiesono il re Piero d’Araona, ch’egli s’allegasse col Paglialoco, e prendesse la signoria dell’isola di Cicilia, e cominciasse la guerra contra lo re Carlo, recandogli grande quantità di moneta perché cominciasse l’armata e impresa promessa di fare; e apresentategli nuove lettere del Paglialoco e quelle de’ baroni di Cicilia, i quali aveano promesso, come ordinato era, di rubellare l’isola, e di dargli la signoria; della qual cosa il detto re Piero stette assai, innanzi che·ssi volesse diliberare di seguire e fare la ’mpresa promessa che prima avea fatta, dubitando e temendo della potenza del re Carlo e della Chiesa di Roma, e maggiormente per la morte di papa Niccola degli Orsini, del quale vivendo si rendea molto sicuro, sappiendo ch’egli nonn-era amico del re Carlo, e quasi per la detta cagione era tutto ismosso di fare la ’mpresa la quale avea promessa. Alla fine per le savie parole e indottive di messer Gianni, e rimproverandogli come quegli della casa di Francia aveano morto il suo avolo, e lo re Carlo il suo suocero re Manfredi, e Curradino nipote del detto Manfredi, e come di ragione di retaggio gli succedea il reame di Cicilia per la reina Gostanza sua moglie, e reda e figliuola del detto re Manfredi, e mostrandogli ancora come i Ciciliani il disideravano a signore, e prometteano di rubellare l’isola al re Carlo, e veggendo la molta moneta che gli mandava Paglialoco, il detto re Piero covidoso d’aquistare signoria e terra, come ardito e franco signore, giurò da capo, e promise di seguire la detta impresa segretamente nelle mani degli ambasciadori del Paglialoco e di messere Gianni di Procita, comandando la credenza, e che tornassono in Cicilia a dare ordine alla rubellazione, quando fosse tempo e luogo, e egli avesse in mare la sua armata; e così fu fatto.
LX Come il detto re d’Araona s’apparecchiò di fare sua armata, e come il papa gliele mandò difendendo.
Lo re Piero di Raona com’ebbe fatto il saramento della sopradetta impresa, e ricevuta la moneta, la quale fu XXXm once d’oro, sanza maggiore quantità che gli promise il Paglialoco, venuto lui in Cicilia, fece di presente apparecchiare galee e navilio, e dando soldo a’ cavalieri e marinari largamente; e diede boce e levò stendale d’andare sopra i Saracini. Divolgata la boce e la fama di suo apparecchiamento, il re Filippo di Francia, il quale avea avuto per moglie la serocchia del detto re d’Araona, mandò a·llui suoi ambasciadori per sapere in che paese e sopra quali Saracini andasse, promettendoli aiuto di gente e di moneta; il quale re Piero non gli volle manifestare sua impresa, ma ch’egli di certo andava sopra i Saracini, il luogo e dove non volea manifestare, ma tosto si saprebbe per tutto il mondo; ma domandogli aiuto di libbre XLm di buoni tornesi, e lo re di Francia gliele mandò incontanente. E conoscendo il re di Francia che il re Piero d’Araona era ardito e di gran cuore, ma, come Catalano, di natura fellone, e per la coperta risposta, mandò a·ddire incontanente, e per suoi ambasciadori il fece assapere al suo zio lo re Carlo in Puglia, ch’egli si prendesse guardia di sue terre. Lo re Carlo incontanente venne a corte a papa Martino, e fecegli assapere della ’mpresa del re d’Araona, e quello che il re Filippo di Francia gli aveva mandato a·ddire; per la qual cosa il papa incontanente mandò al re d’Araona suo ambasciadore uno savio uomo, frate Jacopo de’ predicatori, per volere sapere in qual parte sopra i Saracini andasse, che volea pur sapere, però che·lla Chiesa gli volea dare aiuto e favore, e era impresa che molto toccava alla Chiesa; e oltre a·cciò mandandogli comandando che non andasse sopra niuno fedele Cristiano. Il quale ambasciadore giunto in Catalogna, e disposta sua ambasciata, lo re ringraziò molto il papa della larga proferta, raccomandandosi a·llui; ma di sapere in qual parte andasse, al presente in nulla guisa il potea sapere; e sopra ciò disse uno motto molto sospetto, che se·ll’una delle sue mani il manifestasse all’altra, ch’egli la taglierebbe. Non potendo l’ambasciadore del papa avere altra risposta, si tornò in corte, e dispuose al papa e al re Carlo la risposta del re di Raona, la quale ispiacque assai a papa Martino. Lo re Carlo, ch’era di sì grande cuore e teneasi sì possente, poco o niente ne curò, ma per dispetto disse a papa Martino: «Non vi diss’io che Piero d’Araona era uno fellone briccone?». Ma non si ricordò lo re Carlo del proverbio del comune popolo che dice: «Se t’è detto "Tu hai meno il naso’, ponviti la mano»; anzi si diede a non calere, e non si mise a sentire i trattati e tradimenti che si faceano in Cicilia per messer Gianni di Procita, e per gli altri baroni ciciliani; ma cui Idio vuole giudicare, è apparecchiato chi fa tosto l’esecuzione.
LXI Come e per che modo si rubellò l’isola di Cicilia al re Carlo.
Negli anni di Cristo MCCLXXXII, i·llunedì di Pasqua di Risoresso, che fu a dì XXX di marzo, sì come per messer Gianni di Procita era ordinato, tutti i baroni e’ caporali che teneano mano al tradimento furono nella città di Palermo a pasquare. E andandosi per gli Palermitani, uomini e femmine, per comune a cavallo e a piè alla festa di Monreale fuori della città per tre miglia (e come v’andavano quelli di Palermo, così v’andavano i Franceschi, e il capitano del re Carlo a diletto), avenne, come s’adoperò per lo nimico di Dio, ch’uno Francesco per suo orgoglio prese una donna di Palermo per farle villania: ella cominciando a gridare, e la gente era tenera, e già tutto il popolo commosso contra i Franceschi, per famigliari de’ baroni dell’isola si cominciò a difendere la donna, onde nacque grande battaglia tra’ Franceschi e’ Ciciliani, e furonne morti e fediti assai d’una parte e d’altra; ma il peggiore n’ebbono quegli di Palermo. Incontanente tutta la gente si ritrassono fuggendo alla città, e gli uomini ad armarsi, gridando: «Muoiano i Franceschi!». Si raunavano in su la piazza, com’era ordinato per gli caporali del tradimento, e combattendo al castello il giustiziere che v’era per lo re, e lui preso e ucciso, e quanti Franceschi furono trovati nella città furono morti per le case e nelle chiese, sanza misericordia niuna. E ciò fatto, i detti baroni si partirono di Palermo, e ciascuno in sua terra e contrada feciono il somigliante, d’uccidere tutti i Franceschi ch’erano nell’isola, salvo che in Messina s’indugiarono alquanti dì a ribellarsi; ma per mandato di quegli di Palermo, contando le loro miserie per una bella pistola, e ch’egli doveano amare libertà e franchigia e fraternità co·lloro, sì·ssi mossono i Missinesi a ribellazione, e poi feciono quello e peggio che’ Palermitani contra’ Franceschi. E trovarsene morti in Cicilia più di IIIIm, e nullo non potea nullo scampare, tanto gli fosse amico, come amasse di perdere sua vita; e se l’avesse nascoso, convenia che ’l rassegnasse o uccidesse. Questa pestilenzia andò per tutta l’isola, onde lo re Carlo e sua gente ricevettono grande dammaggio di persone e d’avere. Queste contrarie e ree novelle l’arcivescovo di Monreale incontanente le fece assapere al papa e al re Carlo per suoi messi.
LXII Come lo re Carlo si compianse alla Chiesa e al re di Francia e a tutti suoi amici e l’aiuto ch’ebbe da·lloro.
Nel detto tempo lo re Carlo era in corte col papa: com’ebbe la dolorosa novella della rubellazione di Cicilia, cruccioso molto nell’animo e ne’ sembianti, e’ disse: «Sire Iddio, dapoi t’è piaciuto di farmi aversa la mia fortuna, piacciati che ’l mio calare sia a petitti passi». E incontanente fu a papa Martino e a’ suoi cardinali, domandando loro aiuto e consiglio, i quali si dolfono assai co·llui insieme, e confortarono lo re che sanza indugio intendesse a raquisto, prima per via di pace, se potesse, e se non, per via di guerra, promettendogli ogni aiuto che·lla Chiesa potesse fare, spirituale e temporale, sì come a figliuolo e campione di santa Chiesa. E fece il papa legato per andare in Cicilia a trattare l’accordo, e con molte lettere e processi, messer Gherardo da Parma cardinale, uomo di gran senno e bontà, il quale si partì di corte col re Carlo insieme, e andarne in Puglia. Per simile modo si pianse lo re Carlo per lettere e ambasciadori al re di Francia suo nipote, e mandò a Carlo suo figliuolo prenze di Salerno, ch’era in Proenza, che ’ncontanente dovesse andare in Francia al re, e al conte d’Artese, e agli altri baroni a pregargli che ’l dovessono aiutare. Il quale prenze dal re di Francia fu ricevuto graziosamente, dogliendosi lo re co·llui della perdita del re Carlo, dicendo: «Io temo forte che questa ribellazione di Cicilia non sia fatta a sommossa del re d’Araona, però che quand’egli facea sua armata, e ch’io gli prestai libbre XLm di tornesi, e mandalo pregando mi facesse assapere ove e in che parte dovesse andare, nol mi volle manifestare; ma non port’io mai corona, s’egli avrà fatta questa tradigione alla casa di Francia, s’io non ne fo alta vendetta». E ciò attenne bene, ch’assai ne fece innanzi, sì ch’egli ne morì con molta di sua baronia, come innanzi a·lluogo e a tempo ne faremo menzione. E di presente disse lo re al prenze, che ne tornasse in Puglia, e appresso di lui mandò il conte di Lanzone della casa di Francia con più altri conti e baroni e grande cavalleria alle spese del re di Francia per aiuto del re Carlo.
LXIII Come quegli di Palermo e gli altri Ciciliani mandarono a papa Martino loro ambasciadori.
In questo tempo, parendo a quegli di Palermo e agli altri Ciciliani avere mal fatto, e sentendo l’apparecchiamento che il re Carlo facea per venire sopra loro, sì mandarono loro ambasciadori frati e religiosi a papa Martino, dimandandogli misericordia, proponendo in loro ambasciata solamente: «Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere nobis; Agnus Dei qui tollis peccata mundi, miserere nobis; Agnus Dei qui tollis peccata mundi, dona nobis pacem». E il papa in pieno concestoro fece loro questa risposta, sanza altre parole, che questo è scritto nel Passio Domini: «Ave rex Iudeorum, et dabant ei alapam. Ave rex Iudearum, et dabant ei alapam. Ave rex Iudeorum, et dabant ei alapam». Onde si partirono molto sconsolati.
LXIV Dell’aiuto che ’l Comune di Firenze mandò al re Carlo.
Il Comune di Firenze mandò in aiuto del re Carlo cinquanta cavalieri di corredo, e cinquanta donzelli gentili uomini di tutte le case di Firenze per farli cavalieri, e con loro compagnia furono Vc bene a cavallo e in arme, e loro capitano fu per lo Comune il conte Guido da Battifolle della casa de’ conti Guidi, e giunsono a la Catona in Calavra, quando lo re v’era con sua oste e stuolo per valicare a Messina, onde lo re si tenne dal Comune di Firenze riccamente servito, e ricevette la detta cavalleria graziosamente; e molti di loro fece cavalieri, e servirlo mentre dimorò a Messina alle spese del detto Comune. E portovvi il detto conte e capitano il padiglione grande del Comune di Firenze, il quale rimase alla partita da Messina, e’ Missinesi il misono per ricordanza nella loro grande chiesa. E per simile modo molte città di Toscana e di Lombardia mandarono aiuto di genti a lo re, ciascuno secondo suo podere.
LXV Come lo re Carlo si puose a oste a Messina per mare e per terra.
Lo re Carlo ordinata sua oste a Napoli per andare in Cicilia, tutta sua cavalleria e gente a piè mandò per terra in Calavra alla Catona incontra a Messina, il Faro in mezzo, e lo re n’andò a Brandizio, ov’era in concio il suo navilio, il quale avea apparecchiato più tempo dinanzi per passare in Gostantinopoli, e furono CXXX tra galee, e uscieri, e legni grossi, sanza gli altri legni di servigio, che furono in grande quantità; e di Brandizio sì partirono col detto navilio, e giunse incontra Messina a dì VI di luglio, gli anni di Cristo MCCLXXXII, e puosesi a campo da la parte di Tavermena a Santa Maria di Rocca Maiore; e poi ne venne a le Paliare, assai presso alla città di Messina, e il navilio nel Fare incontro al porto. E fu lo re con più di Vm uomini a cavallo tra Franceschi, e Provenzali, e Italiani, e popolo sanza numero. E ciò veggendo i Missinesi impaurirono forte, veggendosi abandonati d’ogni salute, e la speranza del soccorso del re d’Araona pareva loro lunga e vana, sì mandarono incontanente loro ambasciadori nel campo al re Carlo e al legato, pregandogli per Dio che perdonasse il loro misfatto, e avesse di loro misericordia, e mandasse per la terra. Lo re insuperbito no·lli volle torre a misericordia, che di certo a queto avea la terra e poi tutta l’isola, però ch’erano i Missinesi e Ciciliani isproveduti, e non ordinati a difensione, né con nullo capitano; ma fellonescamente gli disfidò lo re a morte loro e’ loro figliuoli, siccome traditori della Chiesa di Roma e della corona, ch’elli si difendessono, s’avessono podere, e mai con patti gli venissono innanzi; onde lo re fallò troppo apo Idio, e in suo danno; ma a cui Iddio vuole male gli toglie il senno. I Missinesi udendo la crudele risposta del re, non sapeano che·ssi fare, e per IIII dì istettono in contesa tra·lloro d’arrendersi o di difendersi con grande paura.
LXVI Come la gente del re ebbono Melazzo, e come i Missinesi mandarono per lo legato per trattare accordo col re Carlo.
Avenne in questa stanzia che lo re fece passare co suo’ uscieri per lo Fare dinanzi a Messina il conte di Brenna e quello di Monforte con VIIIc cavalieri e più pedoni, dall’altra parte di Messina verso Melazzo, guastando il paese d’intorno. Per la qual cosa certi di quegli di Messina venendo al soccorso di Melazzo, e per non lasciargli prendere terra, con que’ di Melazzo insieme furono sconfitti dalla gente del re Carlo, e furonne morti presso di mille, tra di Messina e di Melazzo, chi alla battaglia, e molti traffelando, fuggendo verso Messina; e fu presa la terra e castello di Melazzo per la gente del re. E come i Missinesi ebbono la detta novella, incontanente mandarono nel campo al legato cardinale, che per Dio venisse in Messina per acconciargli col re Carlo. Il legato venuto, v’entrò incontanente con grande buono volere per accordargli, e appresentò le lettere del papa al Comune di Messina, per le quali gli mandava molto riprendendo della follia fatta per loro contro allo re Carlo e sua gente; e questa fu la forma: «A’ perfidi e crudeli dell’isola di Cicilia, Martino papa terzo quelle salute che voi sete degni, siccome corrompitori di pace, e de’ Cristiani ucciditori, e spargitori del sangue de’ nostri fratelli. A voi comandiamo che vedute le nostre lettere, dobbiate rendere la terra al nostro figliuolo e campione Carlo re di Gerusalem e Cicilia per autorità di santa Chiesa, e che dobbiate lui e noi ubbidire, siccome vostro legittimo signore; e se ciò non faceste, mettiamo voi scomunicati e interdetti secondo la divina ragione, anunziandovi giustizia spirituale». E lette le dette lettere per lo legato cardinale, sì comandò che sotto pena di scomunicazione, e d’esser privati d’ogni benificio di santa Chiesa si dovessono accordare col re, e rendergli la terra, e ubbidirlo come loro signore e campione di santa Chiesa; e ’l detto legato con savie parole amonendogli e consigliandogli che ciò dovessono fare per lo loro migliore; per la qual cosa i Missinesi elessono XXX buoni uomini della città a trattare l’accordo col legato, e vennero a volere questi patti, cioè: «Che·llo re ci perdoni ogni misfatto, e noi gli renderemo la terra dandogli per anno quello che’ nostri antichi davano al re Guiglielmo; e volemo signoria latina, e non Franceschi né Provenzali, e sarello obbedienti e buoni fedeli». I quali patti il legato mandò dicendo al re per lo suo camerlingo, pregandolo per Dio dovesse loro perdonare e prendere i detti patti, però che da poi saranno indurati e messisi alla difensione, ogni dì peggiorrebbe patti; ma avendo egli la terra con volontà de’ cittadini medesimi, ogni dì gli potrebbe allargare: ed era sano e buono consiglio. Come lo re ebbe la detta risposta s’adirò forte, e disse fellonosamente: «I nostri suditi che contro a noi hanno servita morte domandano patti, e voglionne torre la signoria, e vogliommi rendere censo all’uso del re Guiglielmo, che quasi nonn-avea niente; non ne farei nulla; ma dapoi che al legato piacce, io perdonerò loro in questo modo, ch’io voglio di loro VIIIc stadichi quali io vorrò, e farne mia volontà, e tenendo da me quella signoria che a·mme piacerà, sì come loro signore, pagando quelle colte e dogane che sono usati; e se questo vogliono fare, sì ’l prendano, e se non, sì·ssi difendano». La qual risposta fu molto biasimata da’ savi; che se·llo re non gli avea voluti prendere a’ primi patti, quando si puose all’asedio, ch’erano per lui più larghi e onorevoli, a’ secondi fece fallo del doppio, e non considerò gli avenimenti e casi fortunosi ch’agli assedi delle terre possono avenire, e che avennero a·llui, come innanzi faremo menzione: onde fu esemplo, e sarà sempre a quegli che saranno, di prendere i patti che·ssi possono avere da’ nemici, potendo avere la terra assediata. Ma cui vince il peccato universale della superbia e dell’ira in nullo caso può prendere buono consiglio.
LXVII Come si ruppe il trattato dell’acordo ch’avea menato il legato dal re Carlo a’ Messinesi.
Come i lettori di Messina ebbono l’acerba risposta dal legato, che lo re avea fatta al suo camerlingo, i detti XXX buoni uomini raunarono il popolo, e feciolla loro manifesta, onde tutti come disperati gridando: «In prima mangiamo i nostri figliuoli, che a questi patti ci arendiamo; che ciascuno di noi sarebbe di quegli VIIIc ch’egli domanda: innanzi volemo tutti morire dentro alla città nostra, colle mogli nostre e co’ figliuoli, ch’andare morendo per tormenti e pregioni in istrani paesi». Come il legato vide i Missinesi così male disposti a rendersi a lo re Carlo, fu molto cruccioso, e innanzi si partisse gli pronunziò scomunicati e interdetti, e comandò a tutti i cherici che infra ’l terzo dì si dovessono partire della terra, e protestò al Comune che infra i XL dì dovessono mandare per sofficiente sindaco a comparire dinanzi al papa, e ubbidire e udire sentenzia, e partissi della terra molto turbato.
LXVIII Come Messina fu combattuta dalla gente del re Carlo, e come si difesono.
Come il cardinale fu tornato nell’oste, i più de’ maggiori dell’oste ne furono molto crucciosi, perché parea loro il migliore e il più senno ad avere presa la terra ad ogni patto; ma lo re Carlo era sì temuto, che nullo gli ardiva a dire nulla più ch’a·llui piacesse. Ma tegnendo lo re consiglio di quello ch’avesse a·ffare, i più de’ conti e baroni consigliaro che dapoi ch’egli nonn-avea voluta la terra a patti, ch’ella si combattesse aspramente da più parti, e spezialmente dall’una parte che·lla terra nonn-avea muro, ma eravi barrata di botti e altro legname; e assai era possibile di poterla vincere per battaglia, che cominciandovisi uno badalucco, i nostri Fiorentini aveano già vinte le sbarre e entrati dentro alquanti; e se que’ dell’oste avessono seguito, s’avea la terra per forza. Ma sappiendolo il re Carlo, fece suonare le trombe alla ritratta, e disse che non volea guastare sua villa, onde avea grande rendita, né uccidere i fantini, ch’erano innocenti, ma che la voleva per affanno d’edificii, e per assedio aseccargli di vivanda, vincere. Ma non fece ragione di quello che potea avenire nel lungo assedio, e bene gli avenne. Ma al fallo della guerra incontanente v’è la disciplina e penitenzia apparecchiata. Per lo detto modo stette lo re con sua oste intorno a Messina da due mesi, e dando la sua gente alcuna battaglia dalla parte ove nonn-era murata, i Missinesi colle loro donne, le migliori e maggiori della terra, e con loro figliuoli piccioli e grandi, subitamente in tre dì feciono il detto muro, e ripararono francamente agli asalti de’ Franceschi. E allora si fece una canzonetta che disse:
Deh, com’egli è gran pietade
Delle donne di Messina,
Veggendole scapigliate
Portando pietre e calcina.
Iddio gli dea briga e travaglia,
A chi Messina vuole guastare etc.
Lasceremo alquanto dell’asedio di Messina, e diremo quello che fece Piero d’Araona con sua armata.
LXIX Come lo re Piero d’Araona si partì di Catalogna e venne in Cicilia, e come fu fatto e coronato re da’ Ciciliani.
Nel detto anno MCCLXXXII, del mese di luglio, lo re Piero d’Araona colla sua armata si partì di Catalogna, e furono L galee e con VIIIc cavalieri e altri legni di carico assai, della quale armata fece suo amiraglio uno valente cavaliere di Calavra, ribello del re Carlo, il quale avea nome messer Ruggieri di Loria, e arrivò in Barberia nel reame di Tunisi, e a la infinta si puose ad assedio ad una terra che·ssi chiamava Ancalle per attendere novelle di Cicilia, e a quella diede alcuna battaglia, e stettonvi XV giorni. E in quella stanza, sì come era ordinato, vennero a·llui con messer Gianni di Procita ambasciadori di Messina e sindachi con pieno mandato di tutte le terre di Cicilia, a pregarlo ch’egli prendesse la signoria, e s’avacciasse di venire nell’isola per soccorrere la città di Messina, la quale dal re Carlo e da sua oste era molto stretta. Lo re Piero udendo la gente e la potenza del re Carlo, e che la sua a comparazione era niente, alquanto temette; ma per lo conforto e consiglio di messer Gianni, e veggendo che tutta l’isola era per fare le sue comandamenta, e aveano tanto misfatto al re Carlo, che di loro si potea bene sicurare, sì rispuose ch’egli era apparecchiato del venire e del soccorrere Messina. E incontanente si levò da oste da Ancolle, e ricolsesi a galee, e misesi in mare, e arrivò alla città di Trapali all’entrante d’agosto. E come giunse a Trapali, per messere Gianni di Procita e per gli altri baroni di Cicilia fu consigliato che sanza soggiorno cavalcasse a Palermo, e ’l navilio mandasse per mare; e a Palermo saputo novelle dell’oste del re Carlo e dello stato di Messina, prenderebbono consiglio. E così fu fatto, che a dì X d’agosto lo re Piero giunse nella città di Palermo, e da’ Palermitani fu ricevuto a grande onore e processione sì come loro signore, e credendo scampare da morte per lo suo aiuto; e a grido di popolo il feciono loro re, salvo che non fu coronato per l’arcivescovo di Monreale, come si costumava per gli altri re, però che s’era partito e itosene al papa; ma coronollo il vescovo di Cefalù d’una picciola terra di Cicilia, ch’era rubello del re Carlo.
LXX Del parlamento che ’l re d’Araona tenne in Palermo per soccorrere la città di Messina.
Quando il re Piero fu coronato in Palermo, fece grande parlamento sopra ciò ch’avesse a·ffare, ove furono tutti i baroni dell’isola. I baroni veggendo il picciolo podere del re d’Araona apo la grande potenzia del re Carlo, sì furono molto isbigottiti, e feciono di loro parlatore messer Palmieri Abati, il quale ringraziò molto lo re di sua venuta, e che·lla sua promessa era venuta bene fornita, se fosse venuto con più gente d’arme, però che·llo re Carlo avea più di Vm cavalieri e popolo infinito, e temiamo che Messina non sia già renduta, sì era stretta di vivanda; e consigliava che·ssi raunasse gente, e si richiedessono gli amici di tutte parti, sicché l’altre città e terre dell’isola si potessono difendere. Come il re Piero intese il consiglio de’ baroni di Cicilia, ebbe grande dottanza, e parvegli esser in mal luogo, e pensò di partirsi dell’isola, se il re Carlo o sua gente venisse verso Palermo. Avenne che stando quello parlamento, al re d’Araona venne da Messina una saettia armata con lettere, nelle quali si contenea che Messina era sì stretta di vivanda, che non si potea tenere più di VIII giorni, e che gli piacesse di soccorrergli; se non, sì·lli convenia di necessità arendere al re Carlo. Come lo re Piero ebbe le dette novelle, le mostrò a’ baroni, e domandò consiglio. Levossi messer Gualtieri di Catalagirona, e disse che per Dio si soccorresse Messina, che s’ella si perdesse, tutta l’isola e eglino tutti erano in grande pericolo e aventura; e pareali che ’l re Piero con tutta sua gente cavalcasse verso Messina pressovi a L miglia, per avventura lo re Carlo si leverà da oste. Messer Gianni di Procita si levò, e poi disse che·llo re Carlo nonn-era garzone che·ssi movesse per lieva lieva, «ma colla buona e grande cavalleria ch’ha seco ci verrebbe incontro per la battaglia; ma parmi che il nostro re gli mandi suoi messaggi a dirgli ch’egli si parta di sua terra, la quale gli scade per retaggio di sua mogliera, e fugli confermata per la Chiesa di Roma per papa Niccola terzo degli Orsini; e se ciò non vuole fare, il disfidi. Ciò fatto, incontanente si mettessono in concio tutte le galee sottili, e che l’amiraglio andasse su per lo Fare, prendendo trite e ogni legno di carico ch’a l’oste portasse vittuaglia, e per questo modo con poco rischio e fatica asseccheremo il re Carlo, e sua oste converrà si parta dall’asedio; e se rimane in terra, egli e sua gente morranno di fame». Incontanente per lo re e per tutti i baroni fu preso il consiglio di messere Gianni, e furono mandati due cavalieri catalani con lettere e coll’ambasciata assai oltraggiosa e villana, e questa fu la forma della lettera.
LXXI La lettera che ’l re d’Araona mandò al re Carlo.
«Piero d’Araona e di Cicilia re, a te Carlo re di Gerusalem e di Proenza conte.
Significhiamo a te il nostro avenimento nell’isola di Cicilia, siccome nostro giudicato reame per l’autorità di santa Chiesa, e di messer lo papa, e de’ venerabili cardinali, e però comandiamo a te che, veduta questa lettera, ti debbi levare dell’isola di Cicilia con tutto tuo podere e gente, sappiendo che se nol facessi, i nostri cavalieri e fedeli vedresti di presente in vostro dammaggio, offendendo voi e vostra gente».
LXXII Come lo re Carlo tenne suo consiglio, e rispuose al re d’Araona per sua lettera.
Come i detti ambasciadori furono nel campo e oste del re Carlo, e date loro lettere, e sposta l’ambasciata al re Carlo e a tutti suoi baroni, tennero sopra ciò consiglio, e parve uno grande orgoglio e dispetto quello che ’l re d’Aragona avea mandato a dire al maggiore o de’ maggiori re de’ Cristiani, e egli era di sì piccolo affare; e queste parole furono del conte di Monforte, dicendo che contro a·llui si volea fare gran vendetta. Il conte di Brettagna consigliò che il re Carlo gli rispondesse per sua lettera, comandandogli che sgombrasse l’isola, appellandolo come traditore, e disfidandolo; e così fu preso di fare. E la somma della lettera la quale mandò il re Carlo fu in questa forma.
LXXIII Come lo re Carlo rispuose per sua lettera al re d’Araona.
«Carlo per la Dio grazia di Gerusalem e di Cicilia re, prenze di Capova, d’Angiò e di Folcalchieri e di Proenza conte, a te Piero d’Aragona re, e di Valenza conte.
Maravigliamo molto come fosti ardito di venire in su il reame di Cicilia, giudicato nostro per l’autorità di santa Chiesa di Roma; e però ti comandiamo che, veduta questa lettera, ti debbi partire del reame nostro di Cicilia, sì come malvagio traditore d’Iddio e di santa Chiesa; e se ciò non facessi, disfidianti siccome nostro nemico e traditore, e di presente ci vedrete venire in vostro dammaggio, però che disideriamo di vedere voi e vostra gente colle nostre forze».
LXXIV Come il re d’Araona mandò il suo amiraglio per prendere il navilio del re Carlo.
Come al re d’Aragona furono per gli suoi ambasciadori apresentate le dette lettere, e disposta l’ambasciata e risposta del re Carlo, incontanente fu a consiglio per prendere partito di quello ch’avesse a·ffare. Allora si levò messer Gianni di Procita, e disse: «Signore nostro, com’io t’ho detto altra volta, per Dio, manda l’amiraglio tosto colle tue galee a la bocca del Fare, e fa’ prendere il navilio che porta la vivanda all’oste, e avrai vinta la guerra; e se il re Carlo si mette a stare, rimarrà preso e morto con tutta sua gente». Il consiglio di messer Gianni fu preso, e messer Ruggieri di Loria amiraglio, uomo di grande ardire e valore, e il più bene aventuroso in battaglie in terra e in mare che fosse mai di suo essere, come innanzi faremo menzione in più parti, s’apparecchiò con LX galee sottili armate di Catalani e Ciciliani. Queste cose sentì una spia di messer Aringhino da Mare di Genova amiraglio del re Carlo, e incontanente con una saettia armata venne a Messina, e anunziò al detto amiraglio la venuta dell’armata del re d’Araona. Incontanente messer Aringhino fu al re Carlo e al suo consiglio, e disse: «Per Dio, sanza indugio pensiamo di passare colla nostra gente in Calavra, ch’i’ ho novelle vere come l’amiraglio del re d’Araona viene qua di presente con sue galee armate; e io nonn-ho galee armate da battaglia, ma legni di mestieri, e disarmati; se non ci partiano, egli prenderà e arderà tutto nostro navilio sanza nullo riparo, e tu re con tutta tua gente perirai per difalta di vittuaglia; e ciò fia intra tre giorni, secondo m’aporta la mia vera spia: e però non si vuole punto di dimoro, però che ancora ci viene adosso il verno, e in Calavra nonn-ha porti vernerecci, tutti i legni con tua gente potrebbono perire a le piagge, s’avessono uno tempo contrario».
LXXV Come allo re Carlo convenne per necessità partire dall’asedio di Messina, e tornossene nel Regno.
Quando il re Carlo udì questo, isbigottì forte, che mai per pericolo di battaglia né per altra aversità non avea avuto paura, e sospirando disse: «Volesse Idio ch’io fossi morto, dapoi che·lla fortuna m’è così contraria, ch’ho perduta mia terra avendo tanta potenzia di gente in mare e in terra; e non so perché m’è tolta da gente ch’io mai non diservì; e molto mi doglio, ch’io non presi Messina con patti ch’io la potei avere. Ma da che altro non posso», con grande dolore disse, «levisi l’oste, e passiamo; e chi m’avrà colpa di questo tradimento, o cherico o laico, ne farò grande vendetta». E il primo giorno fece passare la reina con ogni gente di mestiere e con parte degli arnesi dell’oste; il secondo dì passò il re con tutta sua gente, salvo ch’a cautela di guerra lasciò in aguato di fuori da Messina due capitani con MM cavalieri, a·ffine che levata l’oste, se quegli di Messina uscissono fuori per guadagnare della roba del campo, venissono loro adosso e entrassono nella terra; e se fatto venisse, ritornerebbe il re con sua gente incontanente. L’ordine fu bene fatto, e così fu bene contrapensato, che’ Missinesi iscopersono il guato, e comandarono sotto pena della vita che nullo uscisse fuori della città; e così fu fatto. I Franceschi ch’erano rimasi in aguato, veggendosi scoperti, procacciarono di passare, e vennorne il terzo dì a lo re in Calavra, e dissono come il suo aviso era loro fallito; onde al re Carlo radoppiò il dolore, perché alcuna speranza n’avea. E così fu partita tutta l’oste da Messina, e diliberata la città ch’era in ultima stremità di vivanda, che non avea che vivere tre giorni, a dì XXVII di settembre, gli anni di Cristo MCCLXXXII. Il seguente dì giunse l’amiraglio del re d’Araona con sua armata su per lo Fare di Messina menando grande gazzarra e trionfo, e prese XXVIIII tra galee grosse e trite, intra·lle quali furono V galee del Comune di Pisa, ch’erano al servigio del re Carlo. E poi vegnendo alla Catona e a Reggio in Calavra, il detto amiraglio fece mettere fuoco e ardere da LXXX uscieri del re Carlo, ch’erano alle piagge disarmati, e questo vide il re Carlo e sua gente sanza potergli soccorrere, onde gli radoppiò il dolore. E avendo il re Carlo una bacchetta in mano, com’era sua usanza di portare, per cruccio la cominciò a rodere, e disse: «Ai Dius, molt m’aves sofert a sormonter; gie t’en pri che l’avallee soit tut bellamant». E così si mostra che senno umano né forza di gente non ha riparo al giudicio d’Iddio. Come lo re Carlo fu passato in Calavra, diede commiato a tutti gli suoi baroni e amici, e molto doloroso si ritornò a Napoli. Lo re Piero d’Araona avuta la novella della partita del re Carlo e di sua oste da Messina, e come il suo amiraglio avea operato, fu molto allegro; e di presente si partì da Palermo con tutti i baroni e cavalieri, e venne a Messina a dì X d’ottobre della detta indizione, e da’ Missinesi, uomini e donne, fu ricevuto a grande processione e festa, siccome loro novello signore, e che gli avea liberati delle mani del re Carlo e de’ suoi Franceschi. Lasceremo alquanto dello stato in che rimase l’isola di Cicilia, e lo Regno di qua dal Fare, e direno della progenia del detto re di Raona, perché séguita materia grande de’ suoi fatti e de’ suoi figliuoli.
LXXVI Chi fu il primo re d’Araona cristiano.
Quelli della casa d’Araona non furono anticamente di legnaggio reale, ma grandi conti furono, cioè conte di Barzellona e di Valenza; e come dicemmo addietro, l’antico loro, ciò fu il conte Anfuso, fu sconfitto e morto da’ Franceschi a l’oste a Carcasciona al tempo del re Filippo il Bornio re di Francia. E dicesi ch’anticamente quelli d’Araona furono d’uno legnaggio col conte di Tolosa e del buono conte Ramondo di Proenza; ma poi il buono conte Giammo figliuolo del detto Anfus e padre che fu del re Piero che prese Cicilia, onde tanto avemo parlato, per sua prodezza e valore prese sopra i Saracini di Spagna il reame d’Araona, e uccise il loro re, e del loro reame si coronò, e popolò de’ suoi Catalani, e fecelo uno colla Catalogna, e fu egli e sue rede confermato re d’Araona per la Chiesa di Roma. E poi appresso per simile modo conquistò sopra i Saracini il reame e l’isola di Maiolica e di Minorica, e per avere pace co’ Franceschi diede la figliuola per moglie al re Filippo, figliuolo che fu del buono re Luis di Francia, e in dote parte della signoria di Perpignano e di Monpulieri. E quando venne a morte, lo ’nfante Piero suo primo figliuolo fece e lasciò re d’Araona, e Giammo il secondo figliuolo re di Maiolica, onde poi sono discesi valenti re e signori, come innanzi faremo menzione. E la loro arme principale è oro e fiamma, cioè addogata per lungo ad oro e vermiglia, le bande di fuori ad oro. Lasceremo di quegli d’Araona e della rubellazione di Cicilia infino che luogo e tempo verrà di ciò parlare, e torneremo a nostra materia de’ fatti di Firenze, e raccontando in brieve dell’altre novità notevoli per l’universo mondo avenute in questi tempi.
LXXVII Come i Lucchesi arsono e guastarono la terra di Pescia.
Negli anni di Cristo MCCLXXXI i Lucchesi arsono e guastarono tutto il castello e terra di Pescia in Valdinievole, perché teneano parte d’imperio e ghibellina, e non voleano ubbidire né stare sotto la signoria della città di Lucca; e alla detta oste vi furono i Fiorentini molto grossi in servigio de’ Lucchesi. E perché i Fiorentini s’intramisono nella detta oste d’accordo da’ Lucchesi a que’ di Pescia, quando l’oste tornò in Lucca, a’ Fiorentini fu fatta e detta villania dal popolo di Lucca.
LXXVIII Come Ridolfo eletto imperadore mandò suo vicario in Toscana.
Nel detto anno MCCLXXXI Ridolfo re de’ Romani essendo in Alamagna a richiesta e priego de’ Ghibellini di Toscana, mandò nella detta Toscana per suo vicario messer..... conte di..... d’Alamagna con IIIc cavalieri, acciò che’ Toscani facessono la sua fedeltà e comandamenti; ma non trovò nulla terra che ’l volesse ubbidire, se non la città di Pisa e Samminiato del Tedesco. E nel detto Samminiato colle sue masnade, e col favore de’ Pisani cominciò guerra a’ Fiorentini, e a’ Lucchesi, e ad altre terre guelfe d’intorno; ma alla fine per poco podere e séguito s’aconciò co’ Fiorentini e cogli altri Guelfi di Toscana, e tornossi in Alamagna.
LXXIX Come di prima si criò l’uficio de’ priori in Firenze.
Negli anni di Cristo MCCLXXXII, essendo la città di Firenze al governamento dell’ordine di XIIII buoni uomini, come avea lasciato il cardinale Latino, ciò erano VIII Guelfi e VI Ghibellini, come addietro facemmo menzione, parendo a’ cittadini il detto uficio de’ XIIII uno grande volume e confusione, ad accordare tanti divisati animi a uno, e massimamente perché a’ Guelfi non piacea la consorteria nell’uficio co’ Ghibellini per le novitadi ch’erano già nate, siccome della perdita che ’l re Carlo avea già fatta dell’isola di Cicilia, e della venuta in Toscana del vicario dello ’mperio, e sì per guerre cominciate in Romagna per lo conte di Montefeltro per gli Ghibellini, per iscampo e salute della città di Firenze sì annullarono il detto uficio de’ XIIII, e si creò e fece nuovo uficio e signoria al governo della detta città di Firenze, il quale si chiamarono priori dell’arti; il quale nome priori dell’arti viene a dire i primi eletti sopra gli altri; e fu tratto del santo Vangelio, ove Cristo disse a’ suoi discepoli: «Vos estis prior». E questo trovato e movimento si cominciò per li consoli e consiglio dell’arte di Calimala, de la quale erano i più savi e possenti cittadini di Firenze, e del maggiore séguito, grandi e popolani, i quali intendeano a procaccio di mercatantia ispezialmente, che i più amavano parte guelfa e di santa Chiesa. E’ primi priori dell’arti furono tre, i nomi de’ quali furono questi: Bartolo di messer Jacopo de’ Bardi per lo sesto d’Oltrarno e per l’arte di Calimala; Rosso Bacherelli per lo sesto di San Piero Scheraggio per l’arte de’ cambiatori; Salvi del Chiaro Girolami per lo sesto di San Brancazio e per l’arte della lana. E cominciarono il loro officio in mezzo giugno del detto anno, e durò per due mesi infino a mezzo agosto, e così doveano seguire di due in due mesi per le dette tre maggiori arti tre priori. E furono rinchiusi per dare audienza, e a dormire e a mangiare alle spese del Comune nella casa della Badia, dove anticamente, come avemo detto addietro, si raunavano gli anziani al tempo del popolo vecchio, e poi i XIIII. E fu ordinato a’ detti priori VI berrovieri e VI messi per richiedere i cittadini; e questi priori col capitano del popolo aveano a governare le grandi e gravi cose del Comune, e raunare e fare i consigli e le provisioni. E stando i detti due mesi, a’ cittadini piacque l’uficio; e per gli altri due mesi seguenti ne chiamarono VI, uno per sesto, e agiunsono alle dette tre maggiori arti l’arte de’ medici e speziali, e l’arte di porte Sante Marie, e quella de’ vaiai e pillicciai. Poi di tempo in tempo vi furono aggiunte tutte l’altre infino alle XII maggiori arti; ed eranvi de’ grandi come de’ popolani uomini grandi di buona fama e opere, e che fossono artefici o mercatanti. E così seguì infino che·ssi fece il secondo popolo in Firenze, siccome innanzi al tempo debito fairemo menzione. D’allora innanzi non vi fu niuno grande; ma fuvi arroto il gonfaloniere della giustizia, e talora furono XII priori secondo le mutazioni dello stato della città e opportuni bisogni che occorressono, e del numero di tutte e XXI arti, e di quegli che non erano artefici, essendo stati artefici i loro anticessori. La lezione del detto uficio si facea per gli priori vecchi colle capitudini delle XII arti maggiori, e con certi arroti ch’alleggiano i priori per ciascuno sesto, andando a squittino segreto, e quale più boci avea, quegli era fatto priore; e questa elezione si facea nella chiesa di San Piero Scheraggio, e ’l capitano del popolo stava allo ’ncontro della detta chiesa nelle case che furono de’ Tizzoni. Avenne tanto detto del cominciamento di questo officio de’ priori, perché molte e grandi mutazioni ne seguirono alla città di Firenze, come innanzi per gli tempi faremo menzione. Lasceremo di dire al presente alquanto de’ fatti di Firenze, e diremo d’altre novitadi che furono in questi tempi.
LXXX Come papa Martino mandò messer Gianni d’Epa conte in Romagna, e come prese la città di Faenza, e assedio Forlì.
Nel detto anno MCCLXXXII, essendo il conte Guido da Montefeltro colla forza de’ Ghibellini entrato in Romagna, e’ gran parte delle terre fece ribellare alla Chiesa, sì come quegli ch’era il più sagace e il più sottile uomo di guerra che al suo tempo fosse in Italia. Per la qual cosa papa Martino rimosse messer Bertoldo Orsini che n’era conte e rettore per la Chiesa, e mandòvi messer Gianni d’Epa, gentile uomo di Francia, e molto provato cavaliere in arme, e tenuto uno de’ migliori battaglieri di Francia; e portava in sue arme il campo verde e gli aguglini ad oro. Il quale messer Gianni d’Epa il detto papa per la Chiesa il fece conte, e con grande cavalleria di soldati per la Chiesa, Franceschi e Italiani, entrò in Romagna; e i Perugini vi mandarono al loro soldo C cavalieri; al quale fu data per tradimento e moneta la città di Faenza per Tribaldello de’ Manfredi de’ maggiori di quella terra. Poi il detto messer Gianni d’Epa colle masnade della Chiesa, e coll’aiuto de’ Bolognesi, e con CC cavalieri che vi mandò il Comune di Firenze in servigio della Chiesa, e colla forza de’ Malatesti da Rimino e di quegli da Polenta di Ravenna assediarono la città di Forlì, ma no·lla poterono avere.
LXXXI Come messere Gianni d’Epa conte di Romagna fu sconfitto a Forlì dal conte da Montefeltro.
Nel detto tempo, stando il detto messer Gianni d’Epa conte di Romagna in Faenza, e facea guerra alla città di Forlì, cercò trattato d’avere per tradimento la detta terra; il qual trattato il conte Guido da Montefeltro, che n’era signore, fece muovere e cercare, come quegli che n’era mastro di guerra e de’ trattati, e conosceva la follia de’ Franceschi. Alla fine, il dì di calen di maggio, gli anni di Cristo MCCLXXXII, il detto messer Gianni con sua gente la mattina per tempo anzi giorno venne alla città di Forlì, credendolasi avere; e come per lo conte da Montefeltro era ordinato, gli fu data l’entrata d’una porta, il quale v’entrò con parte di sua gente, e parte ne lasciò di fuori con ordine, che a ogni bisogno soccorressono a que’ d’entro, e se caso contrario avenisse, si ramassassono tutta sua gente in uno campo sotto una grande quercia. I Franceschi ch’entrarono in Forlì corsono la terra sanza contasto niuno; e ’l conte da Montefeltro, che sapea tutto il trattato, con sue genti se n’uscì fuori della terra; e dissesi per agurio e consiglio d’uno Guido Bonatti ricopritore di tetti, che·ssi facea astrolago, overo per altra arte, il conte da Montefeltro si reggea e davagli le mosse; e alla detta impresa gli diede il gonfalone, e disse: «In tale punto l’hai che, mentre se ne terrà pezzo, ove il porterai sarai vittorioso»; ma più tosto credo che·lle sue vittorie fossero per lo suo senno e maestria di guerra; e come avea ordinato, e’ percosse a quelli di fuori ch’erano rimasi all’albero, e miseli in rotta. Quelli ch’entrarono dentro, credendosi avere la terra, aveano fatta la ruberia e prese le case; come ordinato fu per lo conte da Montefeltro, fu alla maggiore parte di loro tolti i freni e·lle selle de’ cavagli da’ cittadini; e incontanente il detto conte con parte di sua gente da una delle porte rientrò in Forlì e corse la terra, e parte di sua cavalleria e genti a piè lasciò sotto la quercia schierati, com’era l’ordine e postura de’ Franceschi. Messer Gianni d’Epa e’ suoi veggendosi così guidati, credendosi avere vinta la terra, si tennero morti e traditi, e chi potéo ricoverare a suo cavallo si fuggì della terra, e andonne all’albero di fuori credendovi trovare la loro gente; e là andando, erano da’ loro nimici o presi o morti, e simile quegli ch’erano rimasi nella terra, onde i Franceschi e la gente della Chiesa ricevettono grande sconfitta e dannaggio, e morirvi molti buoni cavalieri franceschi e de’ Latini caporali, intra gli altri il conte Taddeo da Montefeltro cugino del conte Guido, il quale per quistioni de’ suoi eretaggi tenea colla Chiesa contro al detto conte Guido; e morivvi Tribaldello de’ Manfredi ch’avea tradita Faenza, e più altri; ma il conte di Romagna, messer Gianni d’Epa, pure scampò con certi della detta sconfitta, e tornossi in Faenza.
LXXXII Come Forlì s’arrendé alla Chiesa, e fu accordo in Romagna.
Come papa Martino seppe la detta sconfitta di Forlì, sì mandò al conte di Romagna gente assai a cavallo e a piè al soldo della Chiesa, faccendo guerra a Forlì; e in questa istanzia, a mezzo marzo vegnente MCCLXXXII, il detto conte ebbe per tradimento la città di Cervia in Romagna, per XVIm fiorini d’oro che se ne spesono per la Chiesa. Per la qual cosa per trattato d’accordo quegli di Forlì s’arrenderono alla Chiesa del mese di maggio MCCLXXXIII a patti, salvi l’avere e le persone, mandandone fuori il conte Guido da Montefeltro, e disfaccendosi le fortezze della terra; e quasi tutta Romagna fu all’ubidienza della Chiesa. E poi il detto conte da Montefeltro con sue masnade partito da Forlì, si ridusse nel castello di Meldola, faccendo grande guerra; per la qual cosa il conte di Romagna con tutte le masnade della Chiesa v’andò ad oste del mese di luglio, e stettervi V mesi, e no·lla potero avere. In quella stanzia dell’asedio di Meldola venne fatta a messer Gianni d’Epa una presta e notabile cavalleria, ch’egli avea in usanza ogni giorno in sulla terza, egli con poca compagnia e quasi disarmato, andava intorno al castello proveggendo; uno valente uomo uscito di Firenze, il quale era dentro, ch’avea nome Baldo da Montespertoli, sì pensò d’uccidere messer Gianni d’Epa, e armossi di tutte armi a cavallo, e a corsa coll’elmo in capo e colla lancia abassata si mosse per fedire messer Gianni, il quale s’avide della venuta del cavaliere, ma però non si mosse, ma attese; e come s’apressò, diede del bastone che portava in mano nella lancia del giostratore e levollasi da dosso, e passando oltre, il prese a braccia, e levollo della sella del cavallo in terra, e di sua mano col suo spuntone l’uccise; e così quegli che credea uccidere, da colui medesimo fu morto. Lasceremo de’ fatti di Romagna, e direno d’altre novitadi che furono per l’universo mondo ne’ detti tempi, che nel detto anno ne furono assai.
LXXXIII Come il re d’Erminia con grande gente di Tarteri fu sconfitto alla Cammella in Soria dal soldano d’Egitto.
Nel detto anno MCCLXXXII, lo re d’Erminia essendo andato al grande Cane de’ Tartari per soccorso e aiuto contro a’ Saracini loro nemici, li diede uno suo nipote, ch’ave’ nome Mangodamor, con XXXm Tarteri a cavallo, il quale venne in Soria col detto re d’Erminia, ove s’accozzarono co’ Cristiani dinanzi alla città de Hames, detta oggi la Camelle, ov’era ad assedio il soldano d’Egitto con grandissimo esercito di Saracini. E congiunte le dette osti, grande e pericolosa battaglia fu tra l’una parte e l’altra; ed avendo a la prima i Cristiani co’ Tartari insieme quasi la vittoria sopra i Saracini, il detto Mangodamor, corrotto per danari da’ Saracini, usò tradimento contro a’ Cristiani in questo modo: che quand’elli vide che’ Saracini erano messi in isconfitta, Mangodamor capitano de’ Tartari ismontò da cavallo, onde tutti i suoi Tartari, com’è loro usanza, ismontarono quando vidono ismontato loro signore; per la qual cosa il soldano, com’era ordinato, raccolse sue genti, e ricoverò il campo, e sconfisse i Cristiani con grandissimo danno di loro, e tutte le terre della Soria ch’avea perdute si riprese. Ma tornando i Tartari che scamparono di quella sconfitta ad Abaga gran Cane, tutti i caporali fece uccidere, e agli altri comandò che sempre andassono vestiti come femmine per loro dirisione, e così feciono a sua vita.
LXXXIV Come si cominciò la guerra da’ Genovesi a’ Pisani.
In questi tempi la città di Pisa era in grande e nobile stato de’ grandi e possenti cittadini più d’Italia, e erano in accordo e unità, e manteneano grande stato, che v’era cittadino il giudice di Gallura, il conte Ugolino, il conte Fazio, il conte Nieri, il conte Anselmo; il giudice d’Alborea n’era cittadino; e ciascuno per sé tenea gran corte. E con molti cittadini e cavalieri affiati cavalcavano ciascuno per la terra; e per la loro grandezza erano signori di Sardigna, e di Corsica, e d’Elba, onde aveano grandissime rendite in propio e per lo Comune; e quasi dominavano il mare co·lloro legni e mercatantie; e oltremare nella città d’Acri erano molto grandi, e con molti parentadi con grandi borgesi d’Acri. Per la qual cosa avendo per più tempo dinanzi avuta gara co·lloro vicini Genovesi per la signoria di Sardigna, e quasi in mare gli aveano come femmine, e in ogni parte gli soperchiavano, e in Acri gli oltraggiarono molto i Pisani, e colla forza de’ loro parenti borgesi d’Acri disfeciono per battaglia e per fuoco la ruga de’ Genovesi d’Acri, e cacciargli della terra. Per la qual cosa i Genovesi veggendosi soperchiati, e di loro natura erano molto orgogliosi, per vendicarsi de’ Pisani, feciono una armata di LXX galee, e del mese d’agosto, gli anni di Cristo MCCLXXXII, vennero sopra Porto Pisano a due miglia. I Pisani colla loro armata di LXXV galee uscirono di Porto per combattere co’ Genovesi, i quali veggendo ch’erano più di loro, e la loro armata era il più de’ Lombardi e Piemontani a soldo, non si vollono mettere alla fortuna della battaglia, ma si tornarono a Genova. I Pisani ne montarono in superbia, e del mese di settembre vegnente colla detta armata andarono infino nel porto di Genova per la condotta di messer Natta Grimaldi rubello di Genova, e saettarono nella città quadrella d’ariento, poi tornarono a Portovenero, e puosonsi all’isola del Tiro, e guastarono intorno a Portoveneri, e al golfo della Spezia; e partendosi di là per tornare a Pisa, essendo in alto mare, come piacque a·dDio, si levò una fortuna con vento a gherbino sì forte e impetuoso, che tutta isciarrò la detta armata, e parte di loro galee, intorno di XXIII, percosse, e ruppono alla piaggia del Viereggio e alla foce di Serchio, ma poche genti vi perirono, ma tornarono in Pisa chi ignudo e chi in camicia, a modo di sconfitta. E per tema che s’ebbe in Pisa della detta rotta, si commosse tutta la città, e le donne scapigliate a pianto e dolore, e ciascuna si credea avere meno chi il marito, e chi il padre, o figliuolo, o fratello. E questo fu grande segno del futuro danno de’ Pisani, come innanzi per gli tempi faremo menzione. I Genovesi per l’oltraggio ricevuto da’ Pisani si dispuosono di vendicarsi, e come valenti uomini feciono ordine di non navicare in legni grossi né in navi, se non in galee sottili, e di non armarle di niuno soldato forestiere, com’erano usati di fare, ma de’ migliori e maggiori cittadini che vi fossono compartite per soprasaglienti per galee, e studiare alle balestra e galeotti di loro riviera; e per questo modo divennero prodi e sperti in mare, e ricoverarono loro stato, e ebbono vittoria sopra i Pisani, come innanzi al tempo faremo menzione. Lasceremo alquanto della incominciata guerra de’ Pisani e Genovesi, e torneremo a la materia cominciata per lo re d’Araona al re Carlo, e parte delle seguenti di quella.
LXXXV Come il prenze figliuolo del re Carlo con molta baronia di Francia e di Proenza passarono per Firenze per andare sopra i Ciciliani.
Nel detto anno MCCLXXXII, del mese d’ottobre, venne in Firenze Carlo prenze di Salerno e figliuolo primogenito del grande re Carlo con VIc cavalieri, il quale veniva di Proenza e di Francia per mandato del suo padre per essere all’assedio di Messina colla sua oste, e venuto a corte di Roma al papa, siccome addietro facemmo menzione. In Firenze fu ricevuto il detto prenze a grande onore, e fece tre cavalieri della casa de’ Bondelmonti; e incontanente se n’andò a corte di Roma, ov’era il re Carlo con sua baronia. Per simile modo passarono e vennero in Firenze, a dì XXIIII di novembre vegnente, il conte di Lanzone fratello del re di Francia con molti baroni e cavalieri, i quali il re Filippo di Francia mandava in soccorso al re Carlo. E soggiornati alquanti dì in Firenze, e da’ Fiorentini veduti onorevolemente, se n’andaro a corte di Roma al re Carlo.
LXXXVI Come lo re Carlo e lo re Piero d’Araona s’ingaggiarono di combattere insieme a Bordello in Guascogna per la tenza di Cicilia.
In questi tempi essendo lo re Carlo con tutta la sua baronia a corte di Roma nella città di Roma, e dinanzi a papa Martino e a tutti i suoi cardinali avea fatto appello di tradigione contro a Piero re d’Araona, il quale gli avea tolta l’isola di Cicilia, e che il detto re Carlo era apparecchiato di provarlo per battaglia, il detto re Piero mandati suo’ ambasciadori alla detta corte a contastare al detto appello, e a scusarsi di tradigione, e che ciò ch’avea fatto era a·llui con giusto titolo, e che di ciò era apparecchiato di combattere corpo a corpo col re Carlo in luogo comune; onde si prese concordia sotto saramento in presenza del papa di fare la detta battaglia, ciascuno de’ detti re con C cavalieri, i migliori che sapessono scegliere, a Bordello in Guascogna, sotto la guardia del balio, overo siniscalco, del re d’Inghilterra, di cui era la terra; con patti, che quale de’ detti re vincesse la detta battaglia avesse di queto l’isola di Cicilia con volontà della Chiesa, e quelli che fosse vinto s’intendesse per ricreduto e traditore per tutti i Cristiani, e mai non s’apalesasse re, dispognendosi d’ogni onore. Per la qual cosa il detto re Carlo si tenne molto per contento, disiderando la battaglia, e parendogli avere ragione; e invitarsi a·llui de’ migliori cavalieri del mondo d’arme per essere alla detta battaglia, per parte più di Vc, e feciono apparecchio, la maggiore parte Franceschi e Provenzali, e alcuno altro baccelliere d’arme nominato, d’Alamagna, e d’Italia, e di Firenze se ne profersono assai. E simile al re Piero d’Araona s’invitarono molti cavalieri, i più di suo paese, e alquanti Spagnuoli, e alcuno Italiano di parte ghibellina, e alcuno Tedesco del legnaggio di Soave; e il figliuolo del re di Morrocco saracino si proferse al re d’Araona, e promise, se ’l volesse, di farsi Cristiano quello giorno. E partissi di Cicilia, e lasciòvi don Giacomo suo secondo figliuolo per re, e egli n’andò in Catalogna per essere a Bordello alla detta giornata. E ’l detto re Carlo lasciò Carlo prenze suo figliuolo alla guardia del Regno, e partissi di corte per andare a Bordello, e passò per Firenze a dì XIIII di marzo, nel detto anno MCCLXXXII, e da’ Fiorentini fu ricevuto con grande onore, e fece in Firenze VIII cavalieri tra Fiorentini, e Lucchesi, e Pistolesi. E ciò fatto, se n’andò a Lucca, e alla piaggia di Mutrone si ricolse in XVI galee armate venute di Proenza, e andonne a Marsilia, e di là in Francia per esser a la detta battaglia ordinata a Bordello. E dissesi, e fu manifesto, che·lla maggiore cagione perché lo re d’Araona ingaggiò la detta battaglia, fu fatto per lui con grande senno e per grande sagacità di guerra, per fare partire lo re Carlo d’Italia, acciò che non andasse più con armata e sua oste sopra i Ciciliani, però ch’egli era povero di moneta, e non poderoso al soccorso e riparo de’ Ciciliani contro a re Carlo e della Chiesa di Roma, e temea de’ Ciciliani che non si volgessono per paura o per altra cagione, però che non gli sentiva costanti, e egli e sua gente Catalani erano ancora co·lloro salvatichi, come nuovo signore e nuova gente. E così il savio provedimento gli venne fatto.
LXXXVII Come lo re Piero d’Araona fallì la giornata promessa a Bordello, onde per lo papa fu scomunicato e privato.
Come lo re Carlo fu in Francia, sì apparecchiò sé e’ suoi cavalieri d’arme e di cavagli, come a così alta e grande impresa si convenia, e partissi di Parigi, e co·llui lo re Filippo di Francia suo nipote con molta baronia, e bene con IIIm cavalieri d’arme, per andare a Bordella. E quando furono presso a Bordella a una giornata, lo re di Francia rimase colla sua gente e baronia, e lo re Carlo con suoi C cavalieri andò a Bordella alla giornata promessa, la quale fu a dì XXV di giugno MCCLXXXIII, e in quello luogo il detto re Carlo con suoi C cavalieri comparirono alla giornata armati e a cavallo per fare la promessa e giurata battaglia, e tutto il giorno dimorarono armati in sul campo, attendendo lo re Piero d’Araona co’ suoi cavalieri, il quale non vi venne né comparì. Ben si disse che·lla sera della giornata al tardi comparì sconosciuto dinanzi al siniscalco del re d’Inghilterra, per non rompere il saramento, e protestò com’era venuto e apparecchiato di combattere, quando il re di Francia con sua gente, il quale v’era presso a una giornata, ond’elli avea tema e sospetto, si partisse; e ciò fatto, sanza soggiornare si tornò in Araona, e il primo dì che·ssi partì cavalcò bene LXXXX miglia. Per la qual cosa il re Carlo si tenne forte ingannato, e lo re Filippo di Francia molto adontato, e tornaronsi a Parigi. E saputa la novella papa Martino della difalta del re Piero d’Araona, col suo collegio de’ cardinali diede sentenzia contro al detto Piero d’Araona, sì come scomunicato, e pergiuro, e ribello, e occupatore delle possessioni di santa Chiesa, e sì ’l privò e dispuose del reame d’Araona e d’ogni altro onore, e scomunicò chiunque l’obedisse o chiamasse re. Ma il detto re d’Araona per leggiadria si fece intitolare «Piero d’Araona cavaliere, e padre di due re, e signore del mare». E il detto papa Martino fatto il detto processo, sì brivileggiò del detto reame d’Araona Carlo conte di Valos, secondo figliuolo del detto re Filippo re di Francia, e mandò in Francia uno legato cardinale a confermare il detto Carlo della detta elezione, e predicare croce e indulgenzia contro al detto Piero d’Araona e sue terre. E lo re Carlo con dispensagione del papa diede per moglie al detto messer Carlo di Valos la sua nipote, figliuola del prenze Carlo suo figliuolo, e in dota la contea d’Angiò, acciò ch’egli col padre re di Francia fossero più ferventi alla guerra del re d’Araona. Lasceremo alquanto de’ fatti del re Carlo e di quello d’Araona, e torneremo a quelli di Firenze.
LXXXVIII Come in Firenze fu diluvio d’acque e grande caro di vittuaglia.
Negli anni di Cristo MCCLXXXII, a dì XV di dicembre, per soperchie pioggie fu grandissimo diluvio d’acque, e crebbono i fiumi disordinatamente, e in Firenze crebbe sì il fiume d’Arno, che uscito de’ termini suoi allagò grande parte del sesto di San Piero Scheraggio, e più altre contrade della città che sono nella riva d’Arno. E in questo anno fu grande caro d’ogni vittuaglia, e valse lo staio del grano alla misura rasa soldi XIIII di soldi XXXIII il fiorino d’oro; che, acomputando la moneta e la misura, fu grandissimo caro.
LXXXIX Come ne la città di Firenze si fece una nobile corte e festa, vestiti tutti di robe bianche.
Nell’anno appresso MCCLXXXIII, del mese di giugno, per la festa di santo Giovanni, essendo la città di Firenze in felice e buono stato di riposo, e tranquillo e pacifico stato, e utile per li mercatanti e artefici, e massimamente per gli Guelfi che signoreggiavano la terra, si fece nella contrada di Santa Felicita Oltrarno, onde furono capo e cominciatori quegli della casa de’ Rossi co·lloro vicinanze, una compagnia e brigata di M uomini o più, tutti vestiti di robe bianche, con uno signore detto dell’Amore. Per la qual brigata non s’intendea se non in giuochi, e in sollazzi, e in balli di donne e di cavalieri e d’altri popolani, andando per la terra con trombe e diversi stormenti in gioia e allegrezza, e stando in conviti insieme, in desinari e in cene. La qual corte durò presso a due mesi, e fu la più nobile e nominata che mai fosse nella città di Firenze o in Toscana; alla quale vennero di diverse parti molti gentili uomini di corte e giocolari, e tutti furono ricevuti e proveduti onorevolemente. E nota che ne’ detti tempi la città di Firenze e’ suoi cittadini fu nel più felice stato che mai fosse, e durò insino agli anni MCCLXXXIIII, che si cominciò la divisione tra ’l popolo e’ grandi, appresso tra’ Bianchi e’ Neri. E ne’ detti tempi avea in Firenze da CCC cavalieri di corredo e molte brigate di cavalieri e di donzelli, che sera e mattina metteano tavola con molti uomini di corte, donando per le pasque molte robe vaie; onde di Lombardia e di tutta Italia traeano a·fFirenze i buffoni e uomini di corte, e erano bene veduti, e non passava per Firenze niuno forestiere, persona nominato o d’onore, che a gara erano fatti invitare dalle dette brigate, e accompagnati a cavallo per la città e di fuori, come avesse bisogno.
XC Come i Genovesi feciono gran danno a’ Pisani che tornavano di Sardigna.
Nel detto anno e mese di giugno, vegnendo dell’isola di Sardigna V navi grosse e V galee armate de’ Pisani, cariche di mercatantia e d’argento sardesco, i Genovesi avendone novelle, armarono XXV galee, onde fu amiraglio messer... di Genova. E andando incontro alle dette navi e galee, le scontrò sopra capo Corso, e combattendo co·lloro, dopo la fiera battaglia i Genovesi gli sconfissono, e presono, e menarono in Genova, che v’avea su più di MD Pisani, che tutti furono pregioni con altra buona gente, e tanta mercatantia e argento, che fu stimato di valuta di Cm libbre di genovini, ch’erano più di CXXm di fiorini d’oro, onde i Pisani ricevettono una grande perdita e sconfitta.
XCI Ancora de’ fatti de’ Pisani co’ Genovesi.
Apresso acrebbe a’ Pisani, come piacque a·dDio, giudicio sopra la loro infortuna, che del mese d’aprile appresso, l’anno MCCLXXXIIII, mandando in Sardigna il conte Fazio loro grande cittadino con armata di XXX galee e una nave grossa, i Genovesi si scontrarono co·lloro sopra... con XXXV galee, ond’era amiraglio messer..., e combatterono con loro in mare, e fu aspra e dura battaglia, e molti ne furono morti e d’una parte e d’altra. Alla fine i Genovesi isconfissono i Pisani, e presono il detto conte Fazio con molti buoni cittadini di Pisa, e presono bene la metà delle dette galee, e menargli pregioni in Genova, onde i Pisani ricevettono grande perdita e dannaggio.
XCII Come i Genovesi sconfissono i Pisani a la Meloria.
Negli anni di Cristo MCCLXXXIIII, del mese di luglio, i Pisani non istanchi delle sconfitte avute da’ Genovesi, come di sopra avemo fatta menzione, feciono loro isforzo per vendicarsi delle ’ngiurie ricevute da’ Genovesi, e armarono, tra di loro genti e di soldati toscani e altri, da LXX galee, onde fu amiraglio messer Benedetto Buzacherini, e andarono insino nel porto di Genova, e in quello stettero, e balestrarono, com’altra volta aveano fatto, quadrella d’argento, e feciono grande onta e soperchio a’ Genovesi, e presono più barche e altri legni, e rubarono e guastarono in più parti della riviera, e con grande pompa e romore, essendo nel porto di Genova, richiesono i Genovesi di battaglia. I Genovesi non ordinati né disposti alla battaglia, però ch’aveano disarmate le loro galee, con leggiadra e signorile risposta feciono loro iscusa, e dissono che perch’eglino combattessono co·lloro, e vincessongli nel loro porto e contrada, non avrebbono fatta loro vendetta né sarebbe loro onore, ma ch’eglino si tornassono al loro porto, e eglino si metterebbono in concio, e sanza indugio gli verrebbono a vedere, e sarebbono signori della battaglia. E così fu fatto, che’ Pisani si partirono faccendo grandi grida, di rimprocci e schernie de’ Genovesi, e tornaronsi in Pisa. I Genovesi sanza indugio niuno armarono CXXX tra galee e legni, e suso vi montarono tutta la buona gente di Genova e della riviera, ond’era amiraglio messer Uberto Doria, e del mese d’agosto vegnente vennero colla detta armata nel mare di Pisa. I Pisani sentendo ciò, a grido e a romore entrarono in galee, chi a Porto Pisano, e la podestà, e il loro amiraglio, e tutta la buona gente montarono in galee tra’ due ponti di Pisa in Arno. E levando il loro istendale con grande festa, e essendo l’arcivescovo di Pisa in sul ponte parato con tutta la chericia per fare all’armata la sua benedizione, la mela e la croce ch’era in su l’antenna dello stendale cadde; onde per molti savi si recòe per mala agura del futuro danno. Ma però non lasciarono, ma con grande orgoglio, gridando: «Battaglia, battaglia!», uscirono della foce d’Arno, e accozzarsi colle galee del porto, e furono da LXXX tra galee e legni armati; e’ Genovesi colla loro armata aspettando in alto mare, s’affrontarono alla battaglia co’ Pisani all’isoletta, overo scoglio, il quale è sopra Porto Pisano, che si chiama la Meloria, e ivi fu grande e aspra battaglia, e morìvi molta buona gente d’una parte e d’altra di fedite, e d’anegati in mare. Alla fine, come piacque a·dDio, i Genovesi furono vincitori, e’ Pisani furono sconfitti, e ricevettono infinito dammaggio di perdita di buone genti, che morti e che presi, bene XVIm uomini, e rimasono prese XL galee de’ Pisani, sanza l’altre galee rotte e profondate in mare; le quali galee co’ pregioni menarono in Genova, e sanza altra pompa, se non di fare dire messe e processioni rendendo grazie a·dDio; onde furono molto commendati. In Pisa ebbe grande dolore e pianto, che non v’ebbe casa né famiglia che non vi rimanessero più uomini o morti o presi; e d’allora innanzi Pisa non ricoverò mai suo stato né podere. E nota come il giudicio d’Iddio rende giusti e debiti meriti e pene, e tutto che talora s’indugino e sieno occulti a noi. Ma in quello luogo propio ove i Pisani sursono e anegarono in mare i prelati e’ cherici che venieno d’oltremonti a Roma al concilio l’anno MCCXXXVII, come addietro facemmo menzione, ivi furono sconfitti e morti e gittati in mare i Pisani da’ Genovesi, come detto avemo. Lasceremo a·ddire alquanto de’ Pisani, e torneremo a quello che fu ne’ detti tempi della guerra di Cicilia dal re Carlo a quello d’Araona, ch’ancora ne surge materia.
XCIII Come Carlo prenze di Salerno fu sconfitto e preso in mare da Ruggieri di Loria coll’armata de’ Ciciliani.
Negli anni di Cristo MCCLXXXIIII, a dì V del mese di giugno, messer Ruggieri di Loria amiraglio del re d’Araona venne di Cicilia con XLV tra galee e legni armati di Ciciliani e Catalani nelle parti di Principato, facendo guerra e grande danno alla gente del re Carlo; e il sopradetto dì venne nel porto di Napoli colla detta armata gridando e dicendo grandi spregi del re Carlo e di sue genti, e domandando battaglia, e saettando nella terra. E ciò facie il detto Ruggieri di Loria per trarre il prenze e sue genti a battaglia, come quegli ch’era il più savio amiraglio di guerra di mare ch’allora fosse al mondo, e sapea per sue saettie che il re Carlo colla sua grande armata venia di Proenza, e già era nel mare di Pisa, sicché s’affrettava o di trarreli a battaglia, o di partirsi e tornare in Cicilia, acciò che il re Carlo nol sopraprendesse. Avenne, come piacque a·dDio, che ’l prenze figliuolo del re Carlo ch’era in Napoli con tutta la sua baronia, Franceschi, e Provenzali, e del Regno, veggendosi così oltraggiare da’ Ciciliani e Catalani, a furia sanza ordine o provedimento montarono in galee, così i cavalieri come le genti di mare in compagnia del prenze, eziandio contro al comandamento spresso che il re Carlo avea fatto al figliuolo, che per niuno caso che incorresse si mettesse a battaglia infino alla sua venuta. E così disubidiente e male ordinato si mise con XXXV galee e più altri legni con tutta la sua cavalleria alla battaglia fuori del porto di sopra a Napoli. Ruggieri di Loria maestro di guerra percosse colle sue galee vigorosamente, amonendo i suoi che non intendessono a niuna caccia, ma lasciassono fuggire chi volesse, ma solamente attendessono alla galea dello stendale, ov’era la persona del prenze con molti baroni, e così fu fatto; ché come le dette armate galee si percossono insieme, più galee di quegli di Principato, e spezialmente quelle di Surrenti, sì diedono la volta e tornaronsi a Surrenti, e per simile modo feciono grande parte delle galee di Principato. Il prenze rimaso alla battaglia colla metà delle sue galee, ov’erano i baroni e’ cavalieri, che di battaglia di mare s’intendeano poco, tosto furono isconfitti e presi con VIIII delle loro galee; e il prenze Carlo in persona con molta baronia furono presi e menati in Cicilia, e furono messi in pregione in Messina nel castello di Mattagrifone. E avenne, come fu fatta la detta sconfitta e preso il prenze, che quelli di Surrenti mandarono una loro galea co·lloro ambasciadori a Ruggieri di Loria con IIII cofani pieni di fichi fiori, i quali egli chiamavano palombole, e con CC agostari d’oro per presentare al detto amiraglio; e giugnendo a la galea ov’era preso il prenze, veggendolo riccamente armato e con molta gente intorno, credettono che fosse messer Ruggieri di Loria, sì gli si inginocchiarono a’ piedi, e feciongli il detto presente, dicendo: «Messer l’amiraglio, come ti piace, da parte del tuo Comune da Sorrenti ilocati quissi palombola, e stipati quissi agostari per uno taglio di calze: e plazesse a·dDeo com’hai preso lo figlio avessi lo patre; e sacci che fuimo li primi che boltaimo». Il prenze Carlo con tutto il suo dammaggio cominciò a ridere, e disse all’amiraglio: «Per le san Dio, che sont bien fetable a monsignor le roi!». Questo avemo messo in nota per la poca fede ch’hanno quegli del Regno al loro signore.
XCIV Come il re Carlo arrivò a Napoli colla sua armata, e poi s’apparecchiò per passare in Cicilia.
Il giorno seguente che fu la detta sconfitta lo re Carlo arrivò a Gaeta con LV galee armate e con tre navi grosse cariche di baroni e cavalli e arnesi; e come intese la novella della sconfitta e presa del prenza suo figliuolo, fu molto cruccioso e disse: «Or fost il mort, por se qu’il a falli nostre mandamant!». Ma sentendo la poca fede degli uomini del Regno, e che quegli di Napoli già ciancellavano, e certi corsa la terra e gridando: «Muoia il re Carlo, e viva Ruggieri di Loria!», incontanente si partì da Gaeta e giunse in Napoli a dì VIII di giugno; e come fu sopra Napoli non volle ismontare nel porto, ma di sopra al Carmino, con intendimento di fare mettere fuoco nella città e arderla, per lo fallo che’ Napoletani aveano fatto di levare a romore la terra contro al re. Ma messer Gherardo da Parma legato cardinale con certi buoni uomini di Napoli gli vennero incontro per domandargli perdono e misericordia, dicendo: «Furono folli». Lo re riprese: «I savi come ciò aveano sofferto a’ folli?». Ma per gli prieghi del legato, fatta fare giustizia di farne impiccare più di CL, sì perdonò alla cittade, e riformata la terra, si fece lo re compiere d’armare colle galee, ch’egli avea menate infino in LXXV galee, e partissi di Napoli a dì XXIII di giugno; l’armata mandò verso Messina, e il re Carlo n’andò per terra a Brandizio per accozzare l’armata ch’avea fatta apparecchiare in Puglia con quella di Principato per andare in Cicilia. E di Brandizio si partì lo re coll’altra armata a dì VII di luglio del detto anno, e acozzossi coll’armata di Principato a Controne in Calavra, e furono CX tra galee e uscieri armati, e con cavalieri, con molti altri legni grossi e sottili di carico. In questa stanzia avea in Cicilia due legati cardinali, messer Gherardo da Parma e messer..., i quali aveva mandati il papa a trattare pace, e per riavere il prenze Carlo; e stando il detto stuolo in bistento in attendere novelle de’ detti legati, come avessero adoperato, i quali maestrevolemente dal re d’Araona furono tenuti in parole sanza potere fare nullo accordo acciò che ’l detto stuolo non ponesse in Cicilia, sì·ssi trovò la detta armata del re Carlo male proveduta, e con difalta di vittuaglia. Per la qual cosa lo re fu consigliato che convenia di necessità che tornasse a Brandizio, perché s’appressava l’autunno, e gli tempi contrarii a sostenere in mare sì grande armata; e ch’egli facesse disarmare, e riposasse sé e sue genti infino al primo tempo; e così fu fatto, onde lo re Carlo si diede grande dolore sì per la presura del figliuolo, e che la fortuna gli era fatta così aversa e contraria, e per gli più si disse che ciò fu cagione dell’avacciamento di sua morte, come diremo appresso.
XCV Come lo buono re Carlo passò di questa vita alla città di Foggia in Puglia.
Lo re Carlo tornato con suo stuolo a Brandizio, sì ’l fece disarmare, e tornossi a Napoli per dare ordine, e fornirsi di moneta e di gente per ritornare in Cicilia al primo tempo. E come quegli che·lla sua sollecita mente non posava, come fu passato il mezzo dicembre, ritornò in Puglia per essere a Brandizio per fare avacciare il suo navilio. Com’egli fu a Foggia in Puglia, e come piacque a·dDio, amalò di forte malatia, e passò di questa vita il seguente giorno della Bifania, dì VII di gennaio, gli anni di Cristo MCCLXXXIIII. Ma innanzi che morisse, con grande contrizione prendendo il corpo di Cristo, disse con grande reverenza «Sire Idius, con ie croi vraimant che vos est mon salveur, ensi vos pri que vos aies mersi de ma arme, ensi con ie fis l’amproise de roiame de Sesilia plus por servir sante Egrise que per mon profit o altre covidise, ensi me perdones mes pecces»; e passò poco appresso di questa vita; e fu recato il suo corpo a Napoli, e dopo il grande lamento fatto di sua morte fu soppellito all’arcivescovado di Napoli con grande onore. Di questa morte del re Carlo fu grande maraviglia, che il dì medesimo ch’elli passò fu piuvicato in Parigi per uno frate Arlotto ministro de’ minori e per maestro Giandino da Carmignanola maestro allo Studio, e vegnendo ciò in notizia del re di Francia, mandò per loro per sapere onde l’aveano. Dissono che sapeano la sua natività, ch’era sotto la signoria di Saturno, e per gli suoi effetti erano procedute le sue esultazioni e le sue aversità: e alcuno disse che ’l sapeano per revelazione di spirito, che ciascuno di loro erano grandi astrolagi e negromanti. Quello Carlo fu il più temuto e ridottato signore, e il più valente d’arme e con più alti intendimenti, che niuno re che fosse nella casa di Francia da Carlo Magno infino a·llui, e quegli che più esaltò la Chiesa di Roma; e più avrebbe fatto, se non che alla fine del suo tempo la fortuna gli tornò contraria. Venne poi per guardiano e difenditore del Regno Ruberto conte d’Artese cugino del detto re, con molti cavalieri franceschi, e colla prenzessa e col figliuolo del prenze nipote del re Carlo, il quale per lui ebbe nome Carlo Martello, e era d’età di XII in XIII anni. Del re Carlo non rimase altra reda che Carlo secondo prenze di Salerno, di cui avemo fatta menzione. E questo Carlo era bello uomo del corpo, e grazioso, e largo, e vivendo il re Carlo suo padre, e poi, ebbe più figliuoli della prenzessa sua moglie figliuola e reda del re d’Ungaria. Il primo fu il detto Carlo Martello, che poi fu re d’Ungaria; il secondo fu Lois, che si rendé frate minore, e poi fu vescovo di Tolosa; il terzo fu Ruberto duca di Calavra; il quarto fu Filippo prenze di Taranto; il quinto fu Ramondo Berlinghieri conte (dovea essere) di Proenza; il sesto fu messer Gianni prenze della Morea; il settimo fu messer Piero conte d’Eboli.
XCVI Come il prenze figliuolo del re Carlo fu condannato a morte da’ Ciciliani, e poi per la reina Gostanza mandato in Catalogna preso.
Nel detto anno partiti i detti cardinali legati di Cicilia, e perché nonn-aveano potuto fare accordo, fortemente agravarono di scomuniche, e di torre ogni benificio e grazie spirituali, a·re d’Araona e a’ Ciciliani. Per questa cagione e per la morte de·re Carlo que’ di Messina si mossono a·ffurore, e corsono alle pregioni dov’erano i Franceschi per uccidergli, e egli difendendosi, i Missinesi misono fuoco nelle pregioni, e a grande dolore e stento gli feciono morire. E fu bene giudicio di Dio, che l’orgoglio e superbia de’ Franceschi usata in Cicilia fosse pulita per così disordinata e furiosa sentenzia de’ Ciciliani, come fu a questa volta, e era suta alla rubellazione, come addietro facemmo menzione. Dopo questo fatto tutte le terre di Cicilia feciono sindaco con ordine, e congregati insieme di concordia, condannarono a morte il prenze Carlo, il quale aveano in pregione, e che gli fosse tagliata la testa, siccome lo re Carlo suo padre avea fatto a Curradino. Ma come piacque a·dDio, la reina Gostanza moglie del re Piero d’Araona, la quale allora era in Cicilia, considerando il periglio ch’al suo marito e a’ suoi figliuoli poteva avenire della morte del prenze Carlo, prese più sano consiglio, e disse a’ sindachi delle dette terre che nonn-era convenevole che·lla loro sentenzia procedesse sanza la volontà del re Piero loro signore, ma le parea che ’l prenze si mandasse a·llui in Catalogna, e egli come signore ne facesse a·ssua volontà; e così fu preso, e poi fatto. Lasceremo di questa materia, e torneremo a’ fatti di Firenze.
XCVII Come in Firenze fu grande diluvio d’acqua, e rovinò parte del poggio de’ Magnoli.
Negli anni di Cristo MCCLXXXIIII, il dì di domenica d’ulivo a dì II d’aprile, in Firenze ebbe grandissimo diluvio d’acque e di piova sì disordinatamente, che ’l fiume d’Arno crebbe sì disordinatamente, ch’allagò molta della città presso alle sue rive; e per la detta acquazzone il poggio che·ssi chiamava de’ Magnoli di sotto a San Giorgio e di sopra a Santa Lucia si commosse a ruina, e venne rovinando infino in Arno, e fece cadere e guastare più di L case ch’erano sopra il detto poggio, e in su la via di Santa Lucia lungo l’Arno, e morìvi gente assai.
XCVIII Come i Fiorentini con Genovesi e con Toscani feciono lega sopra i Pisani, onde i Ghibellini furono cacciati di Pisa.
Nel detto anno, del mese di settembre, i Fiorentini feciono lega e compagnia con saramento co’ Lucchesi, e’ Sanesi, e’ Pistolesi, e’ Pratesi, e’ Volterrani, e San Gimignano, e Colle, insieme co’ Genovesi, sopra la città di Pisa a·ffare guerra; i Fiorentini co’ detti Toscani per terra, e’ Genovesi per mare. E’ Fiorentini ch’erano in Pisa se ne partirono a dì X di novembre, per comandamento del Comune di Firenze; e mandarono i Fiorentini dalla parte di Volterra VIc cavalieri a·ffare guerra a’ Pisani, e così mandarono tutte l’altre terre della lega secondo la loro taglia. E in Valdera feciono grande guerra, e presono molte castella di quelle de’ Pisani, e ordinarono d’assediare Pisa alla primavera vegnente per mare e per terra. Per la qual cagione il conte Ugolino de’ Gherardeschi, ch’era il maggiore cittadino di Pisa, cercò trattato d’accordo co’ Fiorentini e’ Sanesi e gli altri Toscani di cacciare i Ghibellini di Pisa, e farne signori i Guelfi, acciò che·ll’oste ordinata della taglia detta che si dovea fare sopra Pisa non procedesse; e così fu fatto. E dissesi in Firenze che ’l detto conte Ugolino presentando a certi caporali cittadini di Firenze vino di vernaccia in certi fiaschi, che vi mandò dentro col vino fiorini d’oro, acciò che assentissono al detto accordo sanza la richiesta de’ Genovesi e de’ Lucchesi; e ciò ordinato, del mese di gennaio vegnente il detto conte Ugolino cacciò di Pisa i Ghibellini, e fecene signore sé co’ Guelfi. Ma al detto accordo non furono richiesti i Genovesi, e’ Lucchesi nol vollono assentire, onde i Genovesi e’ Lucchesi si tennero gravati e ingannati da’ Fiorentini e dagli altri Toscani della taglia; e non lasciarono però di venire sopra Pisa, com’era ordinato, i Genovesi per mare con LXX galee armate, e’ Lucchesi ad oste per terra, e guastarono e disfeciono Porto Pisano; e’ Lucchesi dalla loro parte presono più castella. E di certo se’ Fiorentini avessono attenuta la ’mpromessa, la città di Pisa sarebbe stata presa, e disfatta, e recata a borghi, com’era ordinato. Ma i Fiorentini ordinarono che’ Sanesi mandassono i loro cavalieri alla guardia de’ Guelfi di Pisa, e perciò fu difesa; onde i Fiorentini furono molto ripresi da’ Genovesi e Lucchesi per lo rompere che feciono di loro promessa e saramento per scampare Pisa; ma ebbonne il merito e il guidardone da’ Pisani ch’a·cciò si convenia, siccome innanzi per gli tempi faremo menzione; onde i Fiorentini n’ebbono poi più volte pentimento per la ’ngratitudine e superbia de’ Pisani.
XCIX Come i Fiorentini cominciarono a fondare le porte per fare le nuove mura alla cittade.
Nel detto anno, del mese di febbraio, essendo i Fiorentini in buono e pacefico stato, e la città cresciuta di popolo e di grandi borghi, sì ordinarono di crescere il circuito della città, e cominciarsi a fondare le nuove porte, ove poi conseguirono le nuove mura, cioè quella di Santa Candida di là di Santo Ambruogio, e quella di San Gallo in sul Mugnone e quella del Prato d’Ognisanti, e quella d’incontro a le Donne che·ssi dicono di Faenza ancora in sul Mugnone; il quale fiumicello di Mugnone alquanto dinanzi era adirizzato, che prima correa avolto per Cafaggio e presso alle seconde cerchie della città, faccendo molesto assai alla città quando crescea, e fecionvi su i ponti dinanzi alle dette porte, e rimase il lavoro di quelle innanzi che fossono a l’arcora, per la novella che venne in Firenze che ’l prenze Carlo era stato sconfitto in mare da Ruggieri di Loria e da’ Ciciliani. E in questi tempi si fece per lo Comune di Firenze la loggia sopra la piazza d’Orto Sammichele, ove si vende il grano, e lastricossi e amattonossi intorno, la quale allora fu molto ricca e bella opera e utile. E nel detto anno si cominciò a rinnovare la Badia di Firenze, e fecesi il coro e le cappelle che vengono in su la via del palagio e ’l tetto; che prima era la Badia più addietro, piccola, e disorrevole in sì fatto luogo della cittade.
C Delle grandi novitadi che furono tra’ Tarteri dal Turigi.
Nel detto anno MCCLXXXIIII Tangodar fratello d’Abaga Cane signore de’ Tarteri dal Torigi e di Persia, il quale da giovane fu Cristiano battezzato e chiamato Niccola, com’egli ebbe la signoria, si fece Saracino e rinnegato, e fecesi chiamare Mahomet, e grande persecuzione fece a’ Cristiani in due anni ch’egli regnò in signoria. Alla fine Argon suo nipote e padre che fu di Casano, onde innanzi faremo al suo tempo menzione, si rubellò da·llui, e gli tolse il regno e la vita. Questo Argon fu figliuolo d’Abaga Cane, e fu grande amico de’ Cristiani e nimico de’ Saracini, e fece rifare tutte le chiese de’ Cristiani che Maomet suo zio avea fatte distruggere in suo regno, e gli Cristiani rimise in istato, e gli tempii de’ Saracini fece distruggere e abbattere, e tutti i Saracini cacciare di suo paese, e fu uno savio e valoroso signore in arme.
CI Come i Saracini presono e distrussono Margatto in Soria.
Negli anni di Cristo MCCLXXXV, del mese di maggio, i Saracini col soldano d’Egitto vennono ad oste a la terra di Margatto in Soria, la quale era della magione dello Spedale di Santo Giovanni, e era molto fortissimo, e quello con cave misono grande parte in puntelli, e sicurarono i capitani d’entro che venissono a vedere com’era puntellato; per la qual cosa i Cristiani che v’erano dentro, veggendo che non si poteano tenere, s’arrenderono, salve le persone; e il castello rimase a’ Saracini. Lascereno delle novità d’oltremare, e torneremo a dire della grande impresa che·llo re di Francia fece sopra lo re d’Araona.
CII Come il re Filippo di Francia andòe con grande esercito sopra lo re Piero d’Araona.
Negli anni di Cristo MCCLXXXIIII, a mezza quaresima, vegnente l’ottantacinque, lo re Filippo di Francia figliuolo di san Luis, avendo grande animo contro a Piero d’Araona per la nimistà presa contro a·llui per lo re Carlo, e a·ppetizione del papa e della Chiesa di Roma, abbiendo raunata grande oste in tolosana di più di XXm cavalieri e più di LXXXm di pedoni di croce segnati, che Franceschi, Provenzali, e della Magna, e altre genti, e raunato infinito tesoro, si partì di Francia con Filippo e Carlo suoi figliuoli, e con messer Cervagio, detto Gian Coletto, cardinale e legato del papa, e andonne a Nerbona per passare in Catalogna per prendere il reame d’Araona, onde Carlo suo secondo figliuolo era privileggiato dalla Chiesa di Roma, e per mare avea armate in Proenza CXX tra galee e altri legni; e trovossi con Giacomo re di Maiolica fratello e nimico del re Piero d’Araona, però ch’egli gli avea fatta torre l’isola di Maiolica ad Anfus suo primogenito figliuolo, e coronatolne re il detto Anfus; e del mese di maggio MCCLXXXV si partì il detto esercito di nerbonese, e andarne a Perpignano per le terre del detto re di Maiolica; e trovando nella contea di Rossiglione la città di Ianne, la qual s’era rubellata al re di Maiolica e teneasi per lo re d’Araona, il re di Francia vi puose l’assedio; e per forza combattendo l’ebbe, e uccisono uomini, femmine, e fanciulli, che non ne rimase altro che ’l bastardo di Rossiglione con pochi, il quale s’arrendé in uno campanile; e poi che ’l re l’ebbe presa, la fece tutta distruggere; e ciò fatto, si partì del paese e andonne co l’oste infino a piè delle montagne dette Pirre altissime molto, le quali sono alle confini della Catalogna. Lo re Piero d’Araona sentendosi venire adosso sì fatto esercito, si provide di non mettersi a battaglia campale, però che·lla sua forza era niente apo quella del re di Francia; ma di stare alle difese, e guardare i passi; e aveva fornito e afforzato il passo delle Schiuse, onde si valicavano le dette montagne di gente d’arme; e egli in persona v’era alla guardia a tende e a padiglioni per non lasciare passare l’oste del re di Francia. E a quella contesa stette l’oste de’ Franceschi più dì, che in nulla guisa poteano passare; alla fine il re di Francia per consiglio del bastardo di Rossiglione fece armare tutta la sua gente, e fece vista di combattere il detto passo. E una mattina molto per tempo il detto re con parte di sua gente, alla guida del detto bastardo, tennero per altro camino su per le montagne, lasciando il più di sua oste e tutti i suoi arnesi incontro al passo delle Schiuse, e tennero per aspre e diverse vie piene di spine e di pietre, le quali erano impossibili a potersi fare per gente umana, e onde Piero d’Araona non si prendea guardia; ma alla fine con grande affanno, e perdendo e guastando molti di loro cavagli, furono di sopra alla detta montagna. Piero d’Araona veggendo che ’l re di Francia gli era al di sopra del passo, abbandonò la speranza di quello, e partissi con tutta sua gente, lasciando le tende e gli arnesi, e tornossi adietro in sue terre, e lasciò il detto passo. Allora tutta la gente ch’era rimasa a piè del passo nel campo del re di Francia con loro somieri e arnesi e bestiame passarono per lo detto passo sanza contrario niuno, e vennero là dov’era il re di Francia, la quale oste stette in su le montagne tre giorni con grande difalta di vittuaglia. Poi lo re con tutta sua oste scese delle montagne nel piano di Catalogna, e prese e ebbe al suo comandamento Pietralata, e Fighiera, e molte terre del contado d’Ampuri; e ’l navilio e l’armata sua, ch’era a l’Agua Morta in Proenza carichi di vittuaglia e d’arnesi da oste, fece venire per mare al porto di Roses. E lo re con sua oste si puose ad assedio alla città di Girona, la quale era molto forte e ben guernita, e eravi dentro per guardia e capitano messer Ramondo signore di Cardona con buona compagnia. E vegnendo l’oste de’ Franceschi, misono fuoco nel borgo acciò che·lla terra fosse più forte, e molto danneggiavano l’oste de’ Franceschi e difendeano la terra. Ma lo re di Francia giurò di mai non partirsi, ch’egli avrebbe la terra. Ma stando al detto assedio, l’oste del re di Francia cominciò molto a scemare per cagione del lungo dimoro del campo in uno luogo fermo; per la molta ordura e carogna di bestie morte, per lo grande caldo v’apparìo diversa quantità di mosche e di tafani, i quali pareano avelenati, e pugnendo, e uomini e bestie ne morivano; e crebbe tanto la pestilenzia, che·ssi corruppe l’aria, e molta gente morieno nell’oste, onde al re di Francia, e al suo consiglio, e a tutta l’oste molto era grave, e volentieri vorrebbe lo re essere sofferto del suo saramento.
CIII Come lo re d’Araona fu sconfitto e fedito da’ Franceschi, della quale fedita poi morìo.
Istando lo re di Francia all’assedio di Gironda, la vittuaglia e fornimento dell’oste gli venia dal suo navilio dal porto di Roses, presso all’oste a IIII miglia. Lo re Piero d’Araona con sua gente impediva quanto potea la scorta che conducea la vittuaglia, e convenia che e’ Franceschi la guidassono con molta gente e con grande fatica. Avenne che·lla vilia di santa Maria d’agosto lo re d’Araona s’era messo in aguato con Vc de’ migliori de’ suoi cavalieri e con MM mugaveri a piè per impedire la scorta del re di Francia, e ancora si dicea che in quella scorta venia la paga della gente del re di Francia, e però lo re d’Araona in persona si mise nell’aguato: fu rapportato per una spia a messer Raul di Rasi e a messer Gian d’Ericorte conastabole e maliscalco dell’oste del re di Francia. I detti ebboro loro consiglio, e co’ migliori cavalieri dell’oste, per andare a combattere col detto aguato, e ragionando d’andarvi grossi di gente, erano certi che ’l re d’Araona né sua gente non uscirebbono a battaglia, com’altre volte non avea fatto se non a suo vantaggio. Ma disse messer Raul di Rois valente cavaliere: «Se noi volemo essere valenti uomini, e trarrelo a battaglia, andianvi con poca gente, sì che gli paia avere buono mercato di noi». E così fu fatto; ch’eglino presono il conte della Marcia e de’ più eletti baroni e baccellieri d’arme che fossono in tutta l’oste, infino in quantità di IIIc cavalieri sanza più, e misonsi contro l’aguato. Lo re d’Araona veggendo che non erano maggior quantità, e egli avea gente troppa più di loro, lasciando i pedoni s’affrettò di fedire co’ suoi cavalieri, e si mise alla battaglia, la quale fu dura e aspra, sì come di tanti eletti e provati cavalieri. Alla fine, come piacque a·dDio, i Franceschi sconfissono il re d’Araona, e egli fu fedito duramente nel viso d’una lancia, e fu ritenuto e preso per le redine di suo cavallo. Il detto re con tutta la fedita ch’avea, fu accorto, e colla spada tagliò le redine al suo cavallo, e diegli degli sproni, e uscì della pressa, e fuggì con sua gente; alla quale battaglia rimasono morti da C buoni cavalieri araonesi e catalani, e molti fediti. Lo re Piero tornato a Villafranca, non abbiendo buona cura della sua fedita, e per alcuno si disse ch’egli giacque carnalmente con una donna non essendo salda né guerita la piaga, onde poco appresso ne morìo, a dì VIIII del mese di novembre, gli anni di Cristo MCCLXXXV, e fu soppellito in Barzellona nobilemente. Ma innanzi ch’egli morisse raquistò Gironda, come appresso faremo menzione, e fece suo testamento, e lasciò che l’isola di Maiolica fosse renduta al re Giamo suo fratello, e lasciò re d’Araona Nanfus suo primogenito figliuolo, e Giacomo suo secondo figliuolo re di Cicilia, con tutto che ’l detto Nanfus vivette poco, e succedette il reame al suo fratello re Giamo. Il sopradetto Piero re d’Araona fu valente signore e pro’ in arme, e bene aventuroso e savio, e ridottalo da’ Cristiani, e da’ Saracini altrettanto o più, come nullo che regnasse al suo tempo.
CIV Come lo re di Francia ebbe la città di Gironda, e come la sua armata fu sconfitta in mare.
Come lo re d’Araona fu sconfitto per lo modo detto di sopra, il re di Francia ebbe grande allegrezza, e misesi forte a strignere la città di Gironda, la quale sentendo come lo re d’Araona loro signore era stato sconfitto e fedito a morte, e essendo in grande stretta di vittuaglia, che non era loro rimaso a vivere che per tre giorni, sì s’arrenderono al re di Francia, salve le persone e ciò che nne potessono trarre, e così fu fatto; e lo re fece fornire Gironda di vittuaglia e di sua gente. In questa stanzia lo re di Francia prese suo consiglio di tornare a vernare in tolosana, e parte di suo navilio s’era partito dal porto di Roses in Catalogna e tornato in Proenza. Avenne che in quegli giorni era venuto di Cicilia in Catalogna Ruggieri di Loria ammiraglio del re d’Araona con XLV galee armate in aiuto di suo signore; sentendo che ’l navilio del re di Francia era nel porto di Roses, e assai scemato e straccato, sì l’asaliro colle sue galee e coll’aiuto di quegli della terra che·ssi rubellarono al re di Francia e tennono co’ Ciciliani, sì furono sconfitti e presi i Franceschi, e fu arso gran parte del navilio del re di Francia, e fu preso l’amiraglio, ch’avea nome messer Inghirramo di Baliuolo. E alla detta battaglia del porto di Roses venne al soccorso dell’oste del re di Francia il suo maliscalco con grande gente a piede e a cavallo; ma poco e niente poterono adoperare alla difensione del loro navilio ch’era in mare, ma veggendolo preso, misono fuoco nella terra del porto di Roses, e si tornarono all’oste del re di Francia.
CV Come il re di Francia si partì d’Araona, e morì a Perpignano.
Lo re Filippo di Francia veggendosi la fortuna così mutata e contraria, e preso e arso il suo navilio che gli portava la vittuaglia a l’oste, sì si diede molta maninconia e dolore, per la quale amalò forte di febbre e di flusso, onde i suoi baroni presono per consiglio di partirsi e tornare in tolosana, e per nicessità il conveniva loro fare per la difalta della vittuaglia, e del tempo contrario dell’autunno, e per la malatia del loro re. E così si partirono intorno le calen di ottobre, recandone lo re malato in bara, e con poca ordine sciarrati, e chi meglio e più tosto potea camminare; onde passando il forte passo delle Schiuse delle grandi montagne Phyris, i Raonesi e’ Catalani ch’erano al passo vollono impedire la bara dove il re di Francia era malato. Veggendo ciò i Franceschi, come disperati si misono alla battaglia contro a quegli ch’erano al passo, per non lasciare prendere il corpo del re, e per forza d’arme gli ruppono e sconfissono, e cacciarono del passo; ma molta gente minuta a piè de’ Franceschi furono presi e morti, e molti somieri, arnesi, e cavagli straccati e presi per gli Catalani e Raonesi. E poco appresso la partita del re di Francia e di sua oste il re d’Araona riebbe Gironda a patti. E giunta l’oste del re di Francia a modo di sconfitta a Perpignano, come piacque a·dDio, il re Filippo di Francia passò di questa vita a dì VI d’ottobre, gli anni di Cristo MCCLXXXV, ed in Perpignano la reina Maria sua moglie con sua compagnia feciono grande corrotto e dolore. E poi Filippo e Carlo suoi figliuoli feciono recare il corpo a Parigi, e fu soppellito a San Donis co’ suoi anticessori a grande onore. Questa impresa d’Araona fue colla maggiore perdita di gente, e consumazione di cavagli e di tesoro, che quasi mai per gli tempi passati avesse avuto il reame di Francia; che poi lo re appresso il detto Filippo e gli più de’ baroni sempre furono in debito e male agiati di moneta. E appresso la morte del re Filippo di Francia fu fatto re di Francia il re Filippo il Bello suo maggiore figliuolo, e coronato a re alla città di Riens colla reina Giovanna di Navarra sua moglie il giorno della Pifania appresso. E nota che in uno anno o poco più, come piacque a·dDio, morirono IIII così grandi signori de’ Cristiani, come fu papa Martino, e il buono Carlo re di Cicilia e di Puglia, e il valente Piero re d’Araona, e il possente Filippo re di Francia, di cui avemo fatta menzione. Questo re Filippo fu signore di gran cuore, e in sua vita fece grandi imprese, prima quando andò sopra lo re di Spagna, e poi sopra lo conte di Fusci, e poi sopra il re d’Araona, con più potenzia che mai suo anticessoro avesse fatto. Lasceremo a dire de’ fatti d’oltremonti, ch’assai ne avemo detto a questa volta, e torneremo a dire de’ fatti della nostra Italia avenuti ne’ detti tempi.
CVI Della morte di papa Martino quarto, e come fu fatto papa Onorio de’ Savelli di Roma.
Negli anni di Cristo passati MCCLXXXV, a dì XXIIII di marzo, morì papa Martino in Perugia, e là fu soppellito onorevolemente. Questi fu buono uomo e molto favorevole per santa Chiesa a quelli della casa di Francia, perché era natio dal Torso in Torena di Francia. E poi la domenica appresso, primo dì d’aprile, gli anni di Cristo MCCLXXXVI, fu eletto e fatto papa Onorio quarto della casa de’ Savelli gentili uomini di Roma, e vivette nel papato II anni e II dì, e quello che fu al suo papato ne faremo menzione appresso per gli tempi.
CVII Come certo navilio de Genovesi furono presi da’ Pisani.
Nel detto anno MCCLXXXV, del mese di novembre, i Pisani presono V navi grosse de’ Genovesi e più altri legni di Catalani e Ciciliani, i quali veniano di Romania e di Cicilia, e per fortuna di tempo, per forza del vento a scilocco, fuggirono in Porto Pisano, non possendolo schifare, e parte ne ruppono, e’ Pisani vi trassono da Pisa a cavallo e a piè, e presono il detto navilio; onde i Genovesi ricevettono danno di valuta di Lm fiorini d’oro, e gli uomini rimasono pregioni, e’ legni de’ Catalani e Ciciliani furono mendi per li Pisani.
CVIII Come il conte Guido da Montefeltro signore in Romagna s’arrendé alla Chiesa di Roma.
Negli anni di Cristo MCCLXXXV, essendo papa Onorio quarto de’ Savelli di Roma, il conte Guido da Montefeltro, il quale più tempo avea tenuta occupata la provincia di Romagna, sì come tiranno contro alla Chiesa di Roma in parte ghibellina, ove grandissimo spargimento di sangue era fatto, come in parte è fatta menzione adietro, e innumerabile spoglio di moneta per la Chiesa di Roma, e per gli Fiorentini e Bolognesi in servigio della Chiesa, e già perduta per lo detto conte da Montefeltro la città di Faenza e quella di Cervia, e rendute alle comandamenta della Chiesa, il detto conte Guido con patti ordinati venne a’ comandamenti del detto papa, il quale gli perdonò, e mandollo a’ confini in Piemonte, e tenne due suoi figliuoli per stadichi, e riformò tutta Romagna alla ubbidienza di santa Chiesa, e mandovvi il papa per conte messer Guiglielmo Durante di Proenza.
CIX Come papa Onorio mutò l’abito a’ frati carmelliti.
Al tempo del detto papa Onorio de’ Savelli, portando i frati del Carmino uno abito, il quale secondo religiosi pareva molto disonesto, ciò era la cappa di sopra acerchiata con larghe doghe bianche e bigie, dicendo che quello era l’abito di santo Elia profeta, il quale stava nel Monte Carmelio in Soria, il detto papa Onorio il fece per più onestà mutare, e fare la cappa tutta bigia. Per la quale mutazione si dice che ’l soldano de’ Saracini che allora era, il quale (tutto che quelli frati eremita ch’erano di quello ordine, che stavano nel Monte Carmelio, fossono Cristiani) gli aveva in reverenzia per onore di santo Elia profeta, ch’era stato capo di quello luogo e di quello ordine, dapoi che mutarono l’abito, per dispetto del papa e de’ cristiani gli fece cacciare del Monte Carmelio, e abitarlo per Saracini.
CX Come il vescovo d’Arezzo fece rubellare il Poggio a Santa Cecilia nel contado di Siena, e come si racquistò.
Nel detto anno, all’uscita del mese d’ottobre, messer Guiglielmino degli Ubertini di Valdarno, che allora era vescovo d’Arezzo, e era più uomo d’arme che a onestà di chericia, per suo inducimento mandando Vc fanti ghibellini del contado di Firenze e d’Arezzo e di Siena, fece rubellare incontro a’ Sanesi uno forte castello del contado di Siena, che si chiamava Poggio Santa Cecilia, per fare guerra a’ Sanesi, onde grande turbazione fu a tutta parte guelfa di Toscana, però ch’era in parte da fare molta guerra. Per la qual cosa il Comune di Siena colla forza de’ Fiorentini, che vi cavalcò molta buona gente cittadini di Firenze, e la taglia de’ Guelfi di Toscana, ond’era capitano il conte Guido di Monforte, v’andarono ad oste, faccendovi gittare dentro molti difici, e durovvi l’assedio più di V mesi. E raunando il detto vescovo sua oste di tutta parte ghibellina di Toscana per levare il detto assedio, non ebbe podere, però che·lla parte de’ Guelfi erano più possenti; per la qual cosa quegli del castello avendo perduta la speranza del soccorso, n’uscirono la notte di sabato d’ulivo del mese d’aprile, e molti ne furono morti e presi, e quegli che furono menati in Siena, furono chi impiccato e chi tagliato il capo, e ’l castello fu tutto disfatto insino alle fondamenta.
CXI Come in Italia ebbe grande carestia di vittuaglia.
Nell’anno MCCLXXXVI, spezialmente del mese d’aprile e di maggio, fu grande caro di vittuaglia in tutta Italia, e valse in Firenze lo staio del grano alla misura rasa soldi XVIII di soldi XXXV il fiorino dell’oro.
CXII Come messer Prezzivalle dal Fiesco venne in Toscana per vicario d’imperio.
Nel detto anno aconsentìo papa Onorio che messer Prezzivalle dal Fiesco de’ conti da·lLavagna di Genova fosse vicario d’imperio, e andò in Alamagna, e fecesi confermare al re Ridolfo, il quale era eletto re de’ Romani, e venne il detto vicario in Toscana per raquistare le ragioni dello ’mperio. Fu in Firenze in casa i Mozzi, e richiese i Fiorentini, e’ Sanesi, e’ Lucchesi, e’ Pistolesi, e l’altre terre e baroni di parte guelfa di Toscana che giurassono le comandamenta dello ’mperio, i quali non vollono ubbidire né giurare; per la qual cosa il detto vicario si partì di Firenze in discordia, e condannòe i Fiorentini in LXm marchi d’ariento, e consequente per rata tutte le terre guelfe che nol vollono ubbidire, e poi n’andò in Arezzo, e fece isbandire i Fiorentini in avere e in persona, e per simile modo tutte l’altre terre disubidienti. Ma istando in Arezzo, e non avendo séguito, però che i Guelfi nol voleano ubbidire per non rassultare lo ’mperio, e’ Ghibellini l’aveano a sospetto perch’era di progenia e nazione stati Guelfi, e però si tornò al re Ridolfo in Alamagna con suo poco onore.
CXIII Come morìo papa Onorio de’ Savelli.
Negli anni di Cristo MCCLXXXVII, a dì III d’aprile, morìo papa Onorio in Roma, e là fu soppellito a grande onore nella chiesa di Santo... Questi sostenne anzi parte ghibellina che guelfa, e poco aiuto o niente diede all’erede del re Carlo alla guerra di Cicilia, onde montò molto lo stato e podere del re Giamo d’Araona, che se ne avea fatto coronare re, e tutta parte ghibellina d’Italia, come innanzi faremo menzione.
CXIV Come in Firenze ebbe certa novitade in questo tempo.
Nel detto anno, essendo podestà di Firenze messer Matteo da Fogliano di Reggio, avendo preso e condannato nella testa per micidio fatto uno grande guerriere e caporale, ch’avea nome Totto de’ Mazzinghi da Campi, e andando alla giustizia, messer Corso de’ Donati con suo seguito il volle torre alla famiglia per forza; per la qual cosa la detta podestà fece sonare la campana a martello; onde s’armarono e trassono al palagio tutta la buona gente di Firenze, chi a cavallo e chi a piè, gridando: «Iustizia, iustizia!». Per la qual cosa la detta podestà aseguì il suo processo, e dove al detto Totto dovea essere tagliata la testa, il fece strascinare per la terra, e poi impiccare per la gola, e condannò in moneta coloro ch’aveano cominciato il romore e impedita la giustizia.
CXV Come furono cacciati i Guelfi d’Arezzo, onde si cominciò la guerra tra’ Fiorentini e gli Aretini.
Nel detto anno, del mese di giugno, vacante la Chiesa, e la parte ghibellina presa molta baldanza in Toscana perché non v’era papa, essendo nella città d’Arezzo alquanto tempo dinanzi creato popolo, e fatto uno caporale che chiamavano il priore del popolo, il quale perseguitava molto i grandi e possenti, per la qual cosa messer Rinaldo de’ Bostoli cogli altri Guelfi si legarono con messer Tarlato e cogli altri grandi Ghibellini per abbattere il detto popolo. E così feciono, e presono il detto priore, e feciongli cavare gli occhi; per la qual cosa rimasono signori i grandi guelfi e ghibellini; ma i Ghibellini tradirono i Guelfi e gl’ingannarono per rimanere signori, e ordinarono col vescovo d’Arezzo che facesse sua raunata di gente ghibellina di fuori d’Arezzo, e così fece col podere di Bonconte da Montefeltro, e de’ Pazzi di Valdarno, e Ubertini; e usciti’ Ghibellini di Firenze, una notte vennero ad Arezzo, non prendendosi guardia i Guelfi, e per tradimento essendoli data una porta d’Arezzo, entrarono nella città, e cacciaronne fuori la parte guelfa, e fecesene fare signore. Per la quale mutazione e novità in Firenze n’ebbe grande paura e gelosia. Gli usciti guelfi cacciati d’Arezzo presono il castello di Rondine e il Monte San Savino, e feciono lega co’ Fiorentini e coll’altre terre guelfe di Toscana, i quali dierono loro i cavalieri della taglia, ch’erano Vc, perché facessono guerra agli Aretini, e per la detta cagione si cominciò la guerra tra gli Aretini e’ Fiorentini. E in questo tempo, com’era ordinato per gli Ghibellini, tornò messere Prezzivalle del Fiesco, vicario dello imperio d’Alamagna, in Arezzo con alquanta gente ch’ebbe dal re Ridolfo, e là fece capo con tutti i Ghibellini di Toscana, faccendo guerra a’ Fiorentini e a’ Sanesi. E del mese di febbraio vegnente cavalcò la gente ch’era in Arezzo, intorno di cinquecento cavalieri e pedoni assai, in sul contado di Firenze, e intorno a Monteguarchi arsono case e capanne, e levarono preda, né già per loro cavalcata non uscirono le masnade de’ Fiorentini di Monteguarchi né di San Savino, onde gli Aretini si tornarono in Arezzo sani e salvi; ma poco appresso, faccendo i Ghibellini d’Arezzo loro cavalcata alla città di Chiusi, ne cacciarono la parte guelfa, e feciono i Chiusini lega co·lloro contro a’ Sanesi e Montepulciano.
CXVI D’uno grande fuoco che s’accese in Firenze.
Nel detto anno MCCLXXXVII, del mese di..., di notte s’apprese il fuoco in Firenze nel palagio de’ Cerretani dalla porta del vescovo, e arse il detto palagio, e più case d’intorno, con grande danno di loro e de’ vicini, e morivi una balia con uno fanciullo; che poi ch’ella ne fu fuori si ricordò di suoi danari ch’avea lasciati in una cassetta, e per covidigia vi tornò, onde rimase nel fuoco. Di questa vile ricordanza avemo fatta memoria per esemplo della folle avarizia delle femmine. Lasceremo de’ fatti di Firenze, e torneremo alquanto a contare della guerra di Cicilia.
CXVII Come l’armata di Carlo Martello presono la città d’Agosta in Cicilia, e come la loro armata fu sconfitta in mare da Ruggieri di Loria.
Nel detto anno MCCLXXXVII, a dì XXII d’aprile, si partirono da Napoli L tra galee e uscieri armate con Vc cavalieri, le quali avea fatte apparecchiare il conte d’Artese, il quale era balio e governatore di Carlo Martello giovane figliuolo di Carlo secondo, e di tutto il Regno, e di quelle fece amiraglio e capitano messer Rinaldo da Velli. E passò in Cicilia, e prese per forza per lo sùbito e improviso avenimento la città d’Agosta, e rimandò il navilio a Brandizio in Puglia per guernigione, e quella Agosta afforzò molto per difenderla e tenerla per l’erede del re Carlo, come valoroso e savio cavaliere. Come don Giamo d’Araona signore di Cicilia seppe ciò, sì andò con tutto suo isforzo all’assedio della detta città d’Agosta ribellata, e fece armare al suo amiraglio messer Ruggieri di Loria XLV galee, acciò che guardasse le marine, che vittuaglia non potesse venire alla guernigione dell’Agosta, e che se armata si facesse a Napoli, non si potesse agiugnere con quella di Brandizio. Come il conte Artese ebbe la novella della presa dell’Agosta, ordinò d’armare a Brandizio il navilio e galee ch’erano tornate con molta vittuaglia e guernigione, e a Napoli poi fece armare LX galee per soccorrere l’Agosta, e passare in Cicilia con grande oste, e con molti baroni e cavalieri franceschi e provenzali e italiani, e della detta armata era amiraglio messer Arrighino da Mare di Genova. Come Ruggieri di Loria seppe la novella, incontanente, come savio amiraglio e maestro di guerra, si diliberò di venire adosso all’armata di Napoli, e per sottrarreli alla battaglia innanzi che s’accozzassero coll’armata di Puglia che dovea partire da Brandizio; e così gli venne fatto, che il dì di santo Giovanni, del mese di giugno del detto anno, Ruggieri di Loria colla sua armata venne insino nel porto di Napoli, faccendo saettare nella terra, e con grida e villane parole e a isvergognare il conte Artese e’ suoi Franceschi, i quali come gente poco savi di guerra di mare, vedendosi dispregiare a’ Catalani e a’ Ciciliani, presono isdegno, e con furia e sanza ordine montarono in galee, e ciò fu il conte Guido di Monforte, e il conte di Brenna, e messer Filippo figliuolo del conte di Fiandra, e più altri baroni e cavalieri, e colle dette LX galee armate di molta buona gente uscirono del porto di Napoli seguendo l’armata de’ Ciciliani. Ruggieri di Loria amiraglio di Cicilia, avendosi dilungato da Napoli intorno di VI miglia, veggendo venire la detta armata isparta e non ordinata, come valente amiraglio prese suo vantaggio, non guardando perché fossono più galee che le sue: sì fece vogliere le sue galee e fedire a la detta armata, spezialmente alle galee ov’erano i signori franceschi, i quali conoscea per mali maestri di mare. La battaglia fu aspra e dura, che con tutto che’ baroni e’ cavalieri franceschi e provenzali non fossono usi di battaglia di mare, pure erano valenti e virtudiosi in arme; ma alla fine abandonati dal loro amiraglio messer Arrighino da Mare (non piaccendogli la battaglia non volle fedire colle sue galee genovesi), le galee de’ baroni furono sconfitte e prese gran parte, e menati in Cicilia; ma poi per danari la maggiore parte de’ baroni e cavalieri si ricomperarono, salvo il conte di Monforte che morì in pregione. La detta sconfitta fu grande abbassamento della parte di Carlo Martello e del conte d’Artese, che teneano il Regno, e grande esultamento de’ Ciciliani e de’ Catalani; per la qual cosa, del mese di luglio presente, s’arendé la città d’Agosta a don Giamo, salve le persone, e fecesi triegua tra·lle dette parti dalla san Michele vegnente a uno anno. Lasceremo alquanto della detta materia, e diremo d’altre novitadi di Firenze e di Toscana ne’ detti tempi.
CXVIII Come s’apprese uno grande fuoco in Firenze in casa Cerchi.
Nel detto anno, a dì VIIII di febbraio, la notte di carnasciale s’apprese il fuoco in Firenze nelle case e palagi de’ Cerchi neri da porte San Piero, e arse dalla volta ch’era in su l’antica porta insino a la ’ncontra di Santa Maria in Campo, i quali erano molto belli e ricchi palagi e casamenti; e arsevi molta roba e ricchi arnesi, ma non v’ebbe danno di persona. Ma poco tempo appresso i detti Cerchi, ch’erano di grande ricchezza e podere, le feciono rifare più belle che prima.
CXIX Della chiamata di papa Niccola IIII d’Ascoli.
Negli anni di Cristo MCCLXXXVII, in mezzo febbraio, il dì di caffera san Piero fu eletto papa Niccola IIII della città d’Ascoli della Marca. Questi avea nome Girolamo, e fu frate minore, e per sua bontà e scienzia fu fatto ministro generale dell’ordine, e poi cardinale, e poi papa; e sedette anni IIII, e mesi I, e dì VIII; e vacò la Chiesa dopo la sua morte anni II, e mesi III, e dì VIII. Quello che fu fatto per lui, e al suo tempo, faremo menzione per gli tempi ordinatamente. Questi favorò molto parte ghibellina occultamente, e tutta sua famiglia erano Ghibellini, e quegli della casa della Colonna agrandì molto, e fece cardinale messer Piero della Colonna, nonostante ch’avesse moglie, la quale dispensò e fece fare monaca; e per partire gli Orsini, a petizione de’ Colonnesi fece cardinale messer Nepoleone Orsini di que’ dal Monte, loro parente e nemico degli altri; per la qual cosa molto montò lo stato de’ Ghibellini, e abbassò lo stato del re Carlo e de’ Guelfi.
CXX D’una grande oste che ’l Comune di Firenze fece sopra la città d’Arezzo, e alla partita i Sanesi furono sconfitti alla pieve al Toppo.
Negli anni di Cristo MCCLXXXVIII, i Fiorentini coll’altre terre guelfe della taglia di Toscana, veggendo che ’l vescovo d’Arezzo col suo séguito de’ Ghibellini di Toscana, e del Ducato, e di Romagna, e della Marca aveano fatto capo in Arezzo, e raunata di gente a cavallo e a piè, e faceano guerra in sul contado di Firenze e in su quello di Siena, i Fiorentini si dispuosono di contastare all’orgoglio degli Aretini, e impuosono tra·lloro VIIIc cavallate con ricchi e grossi cavalli, e bandirono oste sopra Arezzo, e date loro insegne, a dì XXIII di maggio del detto anno, alla signoria di messer Antonio da Fosseraco di Lodi, mandarono le dette bandiere e insegne alla badia a Ripole, e là stettono VIII giorni spiegate. E ciò usavano i Fiorentini in quello tempo per grandigia e signoria, che voleano che·lla loro uscita ad oste fosse palese e nota a’ nemici e a·ttutta gente. Poi si mosse l’oste il primo dì di giugno, e furono XXVIc di cavalieri e XIIm pedoni; che VIIIc furono cavallate di propii cittadini di Firenze grandi e popolani, e IIIc soldati propii de’ Fiorentini, e Vc della taglia della compagnia de’ Guelfi di Toscana e IIIc di Lucca, e CL di Pistoia, e L di Prato, e L di Volterra, e L di Samminiato, e L di San Gimignano, e XXX di Colle, e da CCL d’altra amistà, e de’ conti Guidi guelfi, Maghinardo da Susinana, messer Iacopo da·fFano, Filippuccio da Iegi, e’ marchesi Malispini, e giudice di Gallura, e’ conti Alberti, e altri baroncelli di Toscana; e fu la più grande e ricca oste che facessono i Fiorentini dapoi che’ Guelfi tornarono in Firenze. E stettono a oste in sul contado d’Arezzo XXII dì, e presono il castello di Leona e disfeciollo, e presono Castiglione degli Ubertini, e le Conie, e più di XL altre castella e fortezze della Valle d’Ambra e del contado intorno ad Arezzo. E puosonsi ad oste al castello di Laterino, e stettonvi VIII dì, ed ebbollo a patti, che v’era dentro per capitano Lupo degli Uberti, veggendosi chiudere e steccare d’intorno; onde molto fu biasimato da’ Ghibellini, però che si potea tenere, e era fornito per più di III mesi. Ma Lupo si scusava per motti, che nullo lupo nonn-era costumato di stare rinchiuso. E renduto Laterino a’ Fiorentini, guernirlo; e in questa stanza vi vennero i Sanesi con loro isforzo di IIIIc cavalieri e di IIIm pedoni molto bella gente, e guastarono tutte le vigne e giardini intorno alle mura d’Arezzo, e tagliarono l’olmo. Ma istando a campo, la vilia di santo Giovanni Batista fu maggiore turbico di vento e d’acqua che·ssi ricordi, e abbatté trabacche e padiglioni, ispezialmente nel campo de’ Sanesi, che tutte le stracciò e portò il vento in aria, e fu segno del loro futuro danno. E poi il dì di san Giovanni Batista vennero i Fiorentini schierati in sul prato d’Arezzo, e in quello dinanzi alla porta della città feciono correre il palio, siccome per loro costuma si facea per la detta festa in Firenze, e fecionvisi XII cavalieri di corredo. E ciò fatto, l’oste de’ Fiorentini si partì il dì appresso, e lasciando in Laterino in guernigione C cavalieri per guerreggiare Arezzo; e tornò l’oste in Firenze co·lloro amistà bene aventurosamente, sanza contasto o vista di niuna forza de’ nimici. E vollono che’ Sanesi per loro sicurtà ne venissono colla loro oste insieme infino a Montevarchi, e di là se n’andassero a Siena per la via di Montegrossoli; onde i Sanesi tenendosi possenti e leggiadri, isdegnarono, e non vollono fare quella via, né vollono compagnia de’ Fiorentini, e feciono la via diritta per guastare il castello di Licignano di Valdichiane, salvo che co·lloro andò il conte Allessandro da Romena, allora capitano della taglia, con certi di sua gente. I capitani di guerra della città d’Arezzo, che ve n’avea assai e buoni, il caporale Bonconte da Montefeltro e messer Guiglielmino Pazzo, sentendo la partita che doveano fare i Sanesi, misono uno guato con IIIc cavalieri e IIm pedoni al valico della pieve al Toppo, onde valicavano i Sanesi male ordinati, per troppa baldanza isproveduti, e giugnendo al detto valico, assaliti dagli Aretini, per la poca loro ordine e sproveduto assalto furono assai tosto sconfitti, e furonne tra morti e presi più di IIIc pur de’ migliori cittadini di Siena, e de’ migliori e gentili uomini di Maremma ch’erano in loro compagnia, intra’ quali vi morìo Rinuccio di Pepo di Maremma, molto nomato capitano; della quale sconfitta i Sanesi n’ebbono grande abbassamento, e’ Fiorentini e tutti i Guelfi di Toscana ne sbigottirono assai, e gli Aretini ne montarono in grande orgoglio, come innanzi faremo menzione.
CXXI Come furono cacciati di Pisa il giudice di Gallura e la parte guelfa, e preso il conte Ugolino.
Negli anni di Cristo MCCLXXXVIII, del mese di luglio, essendo criata in Pisa grande divisione e sette per cagione della signoria, che dell’una era capo il giudice Nino di Gallura di Visconti con certi Guelfi e l’altro era il conte Ugolino de’ Gherardeschi coll’altra parte de’ Guelfi, e l’altro era l’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini co’ Lanfranchi, e Gualandi, e Sismondi, con altre case ghibelline, il detto conte Ugolino per essere signore s’accostò coll’arcivescovo e sua parte, e tradì il giudice Nino, non guardando che fosse suo nipote figliuolo della figliuola, e ordinarono che fosse cacciato di Pisa co’ suoi seguaci, o preso in persona. Giudice Nino sentendo ciò, e non veggendosi forte al riparo, si partì della terra, e andossene a Calci suo castello, e allegossi co’ Fiorentini e’ Lucchesi per fare guerra a’ Pisani. Il conte Ugolino innanzi che giudice Nino si partisse, per coprire meglio suo tradimento, ordinata la cacciata di giudice, se n’andò fuori di Pisa a uno suo maniero che·ssi chiamava Settimo. Come seppe la partita di giudice Nino, tornò in Pisa con grande allegrezza, e da’ Pisani fu fatto signore con grande allegrezza e festa; ma poco stette in su la signoria, che·lla fortuna gli si rivolse al contrario, come piacque a·dDio, per gli suoi tradimenti e peccati; che di vero si disse ch’egli fece avelenare il conte Anselmo da Capraia suo nipote, figliuolo della serocchia, per invidia, e perché era in Pisa grazioso, e temendo non gli togliesse suo stato. E avenne al conte Ugolino quello che di poco dinanzi gli avea profetato uno savio e valente uomo di corte, chiamato Marco Lombardo; che quando il conte fu al tutto chiamato signore di Pisa, e quando era in maggiore stato e felicità, fece per lo giorno di sua natività una ricca festa, ov’ebbe i figliuoli, e’ nipoti, e tutto suo lignaggio e parenti, uomini e donne, con grande pompa di vestimenti e d’arredi, e apparecchiamento di ricca festa. Il conte prese il detto Marco, e vennegli mostrando tutta sua grandezza e potenzia, e apparecchiamento della detta festa; e ciò fatto, il domandò: «Marco, che te ne pare?». Il savio gli rispuose subito, e disse: «Voi siete meglio apparecchiato a ricevere la mala meccianza, che barone d’Italia». E il conte temendo della parola di Marco, disse: «Perché?». E Marco rispuose: «Perché non vi falla altro che·ll’ira d’Iddio». E certo l’ira d’Iddio tosto gli sopravenne, come piacque a·dDio, per gli suoi tradimenti e peccati, ché come era conceputo per l’arcivescovo di Pisa e’ suoi seguaci di cacciare di Pisa giudice Nino e’ suoi, col tradimento e trattato dal conte Ugolino, scemata la forza de’ Guelfi, ordinò l’arcivescovo di tradire il conte Ugolino; e subitamente a furore di popolo il fece assalire e combattere al palagio, faccendo intendere al popolo ch’egli avea tradito Pisa, e rendute le loro castella a’ Fiorentini e a’ Lucchesi; e sanza nullo riparo rivoltoglisi il popolo adosso, s’arrendéo preso, e al detto assalto fu morto uno suo figliuolo bastardo e uno suo nipote, e preso il conte Ugolino, e due suoi figliuoli, e tre nipoti figliuoli del figliuolo, e misorgli in pregione, e cacciarono di Pisa la sua famiglia e suoi seguaci, e Visconti, e Ubizzinghi, Guatani, e tutte l’altre case guelfe. E così fu il traditore dal traditore tradito; onde a parte guelfa di Toscana fu grande abassamento, e esultazione de’ Ghibellini per la detta revoluzione di Pisa, e per la forza de’ Ghibellini d’Arezzo, e per la potenzia e vittorie di don Giamo di Raona e de’ Ciciliani contra l’erede del re Carlo.
CXXII Come i Lucchesi presono sopra i Pisani il castello d’Asciano.
Nel detto anno, del mese d’agosto, i Lucchesi con giudice di Gallura e cogli usciti guelfi di Pisa (e di Firenze v’andarono XII cavalieri di corredo con CC cavalieri soldati) andarono ad oste in sul contado di Pisa, e puosonsi al castello d’Asciano presso di Pisa a tre miglia, e ebbollo a patti, salve le persone, e tornarono in Lucca sani e salvi sanza nullo contasto de’ Pisani. E per loro dispetto i Lucchesi, preso il castello, nella maggiore torre feciono mettere più specchi, perché i Pisani vi si specchiassono.
CXXIII Come’ soldati de’ Pisani che venieno di Campagna furono sconfitti in Maremma da’ soldati de’ Fiorentini.
Nel detto anno, del mese di settembre, vegnendo di terra di Roma e di Campagna CC cavalieri soldati per lo Comune di Pisa, i quali guidava il conticino da Ilci di Maremma, sentendo la loro venuta il giudice di Gallura ch’era in Samminiato, con ordine de’ Fiorentini, mandarono loro incontro IIIc cavalieri di quegli della taglia con certi Fiorentini, onde fu capitano messer Guelfo de’ Cavalcanti e Berardo da Rieti conastabole per condotta di Minuccio da Biserno; e scontrandosi co’ detti soldati de’ Pisani in Maremma, gli ruppono e sconfissono, e molti ne furono morti e presi, che pochi ne scamparono col conticino da Ilci; e le loro insegne recate in Firenze con grande festa, e il detto Berardo da Rieti conastabole fu fatto cavaliere per lo Comune di Firenze, e feciongli ricchi doni e grande onore.
CXXIV Della cavalcata che’ Fiorentini feciono a Laterina per andare sopra ad Arezzo.
Nel detto tempo, a dì XV di settembre, essendo gli Aretini ad oste sopra uno loro castello rubellato per gli Guelfi, ch’avea nome Corciano, i Fiorentini, per farne levare da oste gli Aretini, cavalcarono subitamente a Laterino per andare verso Arezzo, e furono le cavallate di Firenze, e da CCL loro soldati; sicché furono intorno di M uomini a cavallo e da IIIIm pedoni, e in quella oste e cavalcata si diede di prima la ’nsegna reale dell’arme del re Carlo, e ebbela messer Berto Frescobaldi, e poi sempre l’usarono i Fiorentini in loro oste per la mastra insegna. E sentendo gli Aretini la detta cavalcata, per tema della terra, di notte si levarono dal detto castello, quasi a modo di sconfitta, non aspettando l’uno l’altro, e tornarono in Arezzo; e ciò fatto, per rinvigorire loro parte mandarono a’ Fiorentini che gli atendessono, che voleano la battaglia; i quali avuta la novella, allegramente gli attesono al castello di Laterino: gli Aretini co·lloro amistà di Marchigiani, e Romagnuoli, e usciti ghibellini di Firenze e delle terre di Toscana, in quantità di VIIc cavalieri e di VIIIm pedoni, vennero schierati alla ripa di là dall’Arno che si chiama Ca della Riccia, incontro a Laterino. I Fiorentini veggendo i nimici, francamente s’armaro, e usciro di Laterino, e schierarsi in su la riva d’Arno, il quale fiume d’Arno in quello tempo era molto sottile d’acqua, e agevole a passare a quegli da piè, non che a quegli da cavallo. E ciò fatto, i Fiorentini richiesono gli Aretini che scendessono al piano in su l’Arno, o dessono campo a·lloro di passare in su il loro piano per venire alla battaglia; ma gli Aretini a·cciò non feciono risposta, ma guardavano di prendere loro vantaggio della battaglia al passare dell’Arno; e così stette ciascuna parte alla gara. Alla fine gli Aretini, schifando la battaglia, si partirono sconciamente e tornaronsi in Arezzo, e’ Fiorentini rimasono schierati in su la riva d’Arno infino al vespro, e poi si tornarono in Laterino; e vegnendone poi verso Firenze, disfeciono Montemarciano, e Poggio Tazi, e Montefortino, castella de’ Pazzi di Valdarno. Ma partiti i Fiorentini di Laterino, la masnada d’Arezzo con certi Ghibellini essendo in Bibbiena in Casentino, per condotta di certi isbanditi e rubelli ghibellini di Valdisieve, cavalcarono infino al Ponte a Sieve presso a·fFirenze a X miglia, levando preda, e ardendo, e guastando per quelle contrade, e faccendo danno assai, si tornarono sanza contasto in Bibbiena; e ciò fu a dì XIII d’ottobre del detto anno.
CXXV Come il prenze Carlo uscì dalla pregione del re d’Araona.
Nel detto anno, del mese di novembre, il prenze Carlo uscì della pregione del re d’Araona per procaccio del re Adoardo re d’Inghilterra, con patti, che promise a don Anfus re d’Araona ch’a suo podere procaccerebbe che messer Carlo di Valos fratello de·re di Francia rinunzierebbe con volontà del papa il privilegio del reame d’Araona, che gli avea dato la Chiesa al tempo di papa Martino, come addietro facemmo menzione; e se ciò non facesse, promise e giurò di ritornare in sua pregione dal giorno a tre anni. E per fermezza della detta promessa lasciò per istadichi III suoi figliuoli, Ruberto, e Ramondo, e Giovanni, e L de’ migliori cavalieri di Proenza. E costogli il detto accordo XXXm marchi di sterlini. E ciò fatto, il detto prenze Carlo n’andò in Francia al re per fare rinunziare a messer Carlo, ma niente ne poté fare.
CXXVI D’uno grande diluvio d’acqua che fu in Firenze.
Nel detto anno, a dì V di dicembre, fu in Firenze e nel contado uno grande diluvio di piova, onde il fiume d’Arno crebbe sì disordinatamente, e durò col detto empito fuori d’ogni termine usato dalla mattina alla sera, e fece ruvinare palazzi e case degli Spini e de’ Gianfigliazzi, ch’erano di costa al ponte a Santa Trinita, e grande danno fece nel contado di Firenze e in quello di Pisa.
CXXVII Come gli Aretini vennero guastando per lo contado di Firenze insino a San Donato in Collina.
Nel detto anno, a dì XII del mese di marzo, la masnada d’Arezzo, intorno di IIIc uomini a cavallo e ben IIIm a piè, vennero infino a Montevarchi, ardendo e guastandolo intorno; e arsono il borgo del castello, e tutto dì combatterono la terra. E stando l’oste degli Aretini a Montevarchi, certi usciti di Firenze con alquanti scorridori a cavallo e a piè corsono insino a San Donato in Collina presso a·fFirenze a VII miglia, ardendo e guastando, sicché i fummi delle case e dell’arsione si vedea della città di Firenze, e cominciarono a tagliare l’olmo da San Donato per dispetto de’ Fiorentini. E ciò fatto, si tornarono nel borgo di Fegghine, e stettonvi uno dì e una notte; né già per la detta cavalcata non si mosse uomo di Firenze, anzi ebbe nella terra grande gelosia, temendo che·lla detta cavalcata non fosse fatta per tradimento della terra, perché in Firenze erano rimasi molti Ghibellini grandi e popolani, de’ quali per quello sospetto molti ne furono mandati a’ confini, e la città rimase sanza sospetto.
CXXVIII Come i Pisani feciono loro capitano il conte da Montefeltro, e come feciono morire di fame il conte Ugolino e’ figliuoli e’ nipoti.
Nel detto anno MCCLXXXVIII, del detto mese di marzo, riscaldandosi le guerre di Toscana tra’ Guelfi e’ Ghibellini, per la guerra cominciata de’ Fiorentini e Sanesi agli Aretini, e de’ Fiorentini e Lucchesi a’ Pisani, i Pisani elessono per loro capitano di guerra il conte Guido di Montefeltro, dandogli grande giuridizione e signoria; il quale ruppe i confini ch’avea per la Chiesa, e partissi di Piemonte, e venne in Pisa; per la qual cosa egli e’ suoi figliuoli e famiglia, e tutto il Comune di Pisa, dalla Chiesa di Roma furono scomunicati, siccome ribelli e nimici di santa Chiesa. E giunto il detto conte in Pisa del detto mese di marzo, i Pisani, i quali aveano messo in pregione il conte Ugolino e due suoi figliuoli, e due figliuoli del conte Guelfo suo figliuolo, siccome addietro facemmo menzione, in una torre in su la piazza degli anziani, feciono chiavare la porta della detta torre, e le chiavi gittare in Arno, e vietare a’ detti pregioni ogni vivanda, gli quali in pochi giorni vi morirono di fame. Ma prima domandando con grida il detto conte penitenzia, non gli concedettono frate o prete che ’l confessasse. E tratti tutti e cinque insieme morti della detta torre, vilmente furono sotterrati; e d’allora innanzi la detta carcere fu chiamata la torre della fame, e sarà sempre. Di questa crudeltà furono i Pisani per l’universo mondo, ove si seppe, forte biasimati, non tanto per lo conte, che per gli suoi difetti e tradimenti era per aventura degno di sì fatta morte, ma per gli figliuoli e nipoti, ch’erano giovani garzoni e innocenti; e questo peccato commesso per gli Pisani non rimase impunito, siccome per gli tempi innanzi si potrà trovare. Lasceremo alquanto de’ fatti di Firenze e di Toscana, e diremo d’altre novità ch’a’ detti tempi apparirono, e furono per l’universo mondo.
CXXIX Come i Saracini presono Tripoli di Soria.
Negli anni di Cristo MCCLXXXVIIII, del mese di maggio, il soldano di Babbillonia d’Egitto con grandissimo esercito di Saracini a cavallo e a piè venne in Soria, e puosesi ad oste alla città di Tripoli, la quale si tenea per gli Cristiani, e quella per dificii e cave ebbe per forza; e molti Cristiani che v’avea dentro furono morti; e li giovani garzoni, e le donne e pulcelle furono violate villanamente da’ Saracini, e menate in servaggio; alquanti ne scamparono in galee e legni ch’erano nel porto, e fuggirsi ad Acri. E entrativi i Saracini, la rubarono e spogliarono d’ogni sustanzia, la quale era piena di molte gioie e mercatantie e cose. E ciò fatto, la feciono abattere e disfare insino alla fondamenta, salvo il castello chiamato Nelisino, il quale era di fuori alla città ad una balestrata, e guernitollo di Saracini alla guardia, perché la città di Tripoli non si rifacesse per gli Cristiani.
CXXX Della coronazione del re Carlo secondo, e come passò per Firenze, e lasciò messer Amerigo di Nerbona per capitano di guerra de’ Fiorentini.
Nel detto anno, a dì II di maggio, venne in Firenze il prenze Carlo figliuolo del grande re Carlo, il quale tornava di Francia poi ch’era uscito di pregione, e andavane a corte a Rieti dov’era il papa, e da’ Fiorentini fu ricevuto con grande festa, e fugli fatto grande onore e presenti da’ Fiorentini; e dimorato III giorni in Firenze, si partì per fare suo cammino verso Siena. E lui partito, venne in Firenze novella che·lle masnade d’Arezzo s’apparecchiavano d’andare in sul contado di Siena per impedire o fare vergogna al detto prenze Carlo, il quale ave’ piccola compagnia di gente d’arme. Incontanente i Fiorentini feciono cavalcare i cavalieri delle cavallate, ove furono tutto il fiore della buona gente di Firenze e’ soldati ch’erano in Firenze, e furono in quantità di VIIIc cavalieri e IIIm pedoni per accompagnare il detto prenze; onde il prenze l’ebbe molto per bene di sì onorato servigio, e sùbito e non richesto soccorso di tanta buona gente, e con tutto che non facesse bisogno; ché sentito per gli Aretini la cavalcata de’ Fiorentini, non s’ardirono d’andarvi; ma però i Fiorentini accompagnarono il detto prenze infino di là da la Bricola a’ confini del contado di Siena e d’Orbivieto. E adomandato per lo Comune di Firenze al prenze uno capitano di guerra, e che confermasse loro di portare in oste la ’nsegna reale, dal prenze fu accettato, e fece cavaliere Amerigo di Nerbona grande gentile uomo, e prode e savio in guerra, e diello loro per capitano; il quale messer Amerigo con sua compagnia, intorno di C uomini a cavallo, venne in Firenze colla detta cavalleria, e il prenze n’andò a corte, e dal papa Niccola IIII e da’ suoi cardinali onorevolemente fu ricevuto; e il dì della Pentecosta vegnente, a dì XXVIIII di maggio MCCLXXXVIIII, nella città di Roma fu dal detto papa coronato il detto Carlo re di Cicilia e di Puglia con grande onore, solennità e festa, e dalla Chiesa fattegli molte grazie e grandi presenti di gioielli e di moneta, e susidii di decime per aiuto della guerra di Cicilia. E ciò fatto si partì lo re Carlo di corte, e andonne nel Regno.
CXXXI Come i Fiorentini sconfissono gli Aretini a Certomondo in Casentino.
Nel detto anno e mese di maggio, tornata la cavalleria di Firenze da accompagnare il prenze Carlo, e col loro capitano messer Amerigo di Nerbona, per soperchi ricevuti dagli Aretini incontanente feciono bandire oste sopra la città d’Arezzo, e diedono loro insegne di guerra a dì XIII di maggio, e la ’nsegna reale ebbe messer Gherardo Ventraia de’ Tornaquinci, e incontanente che furono date le portarono alla badia a Ripole, com’era usato, e là le lasciarono con guardia, faccendo vista d’andare per quella via sopra la città d’Arezzo. E venuta l’amistà e fornita l’ordine, con segreto consiglio presono ordine e partito d’andare per la via di Casentino, e subitamente a dì II di giugno, sonate le campane a martello, si mosse la bene aventurosa oste de’ Fiorentini, e le bandiere ch’erano a Ripole feciono passare Arno, e tennono la via del Ponte a Sieve, e accamparsi per attendere tutta gente in su Monte al Pruno, e là si trovarono da MVIc cavalieri e da Xm pedoni, de’ quali v’ebbe VIc cittadini con cavallate, i meglio armati e montati ch’uscissono anche di Firenze, e IIIIc soldati colla gente del capitano messer Amerigo al soldo de’ Fiorentini; e di Lucca v’ebbe CL cavalieri, e di Pistoia LX cavalieri e pedoni, di Prato XL cavalieri e pedoni, e di Siena CXX cavalieri, e di Volterra XL cavalieri, e di Bologna loro ambasciadori co·lloro compagnia, e di Samminiato, e di San Gimignano, e di Colle, di ciascuna terra v’ebbe gente a cavallo e a piè; e Maghinardo da Susinana buono capitano e savio di guerra con suoi Romagnuoli. E raunata la detta oste, scesono nel piano di Casentino guastando le terre del conte Guido Novello, ch’era podestà d’Arezzo. Sentendo ciò il vescovo d’Arezzo, cogli altri capitani di parte ghibellina, che assai v’aveva de’ nominati, presono partito di venire con tutta loro oste a Bibbiena, perché non ricevesse il guasto, e furono VIIIc cavalieri e VIIIm pedoni, molto bella gente, e di molti savi capitani di guerra ch’avea tra·lloro, che v’era il fiore de’ Ghibellini di Toscana, della Marca, e del Ducato, e di Romagna, e tutta gente costumati in arme e in guerra; sì richiesono di battaglia i Fiorentini, non temendo perché i Fiorentini fossono due cotanti cavalieri di loro, ma dispregiandogli, dicendo che·ssi lisciavano come donne, e pettinavano le zazzere, e gli aveano a schifo e per niente. Bene ci fu anche cagione perché gli Aretini si misono a battaglia co’ Fiorentini, essendo due cotanti cavalieri di loro, per tema d’uno trattato che ’l vescovo d’Arezzo avea tenuto co’ Fiorentini, menato per messer Marsilio de’ Vecchietti, di dare in guardia a’ Fiorentini Bibbiena, Civitella, e tutte le castella del suo vescovado, avendo ogn’anno a sua vita Vm fiorini d’oro, sicuro in su la compagnia de’ Cerchi. il quale trattato messer Guiglielmino Pazzo suo nipote isturbò, perché il vescovo non fosse morto da’ caporali ghibellini; e però avacciarono la battaglia, e menarvi il detto vescovo, ov’egli rimase morto cogli altri insieme; e così fu pulito del suo tradimento il vescovo, ch’a un’ora trattava di tradire i Fiorentini e’ suoi Aretini. E ricevuto per gli Fiorentini allegramente il gaggio della battaglia, di concordia si schierarono e affrontarono le due osti più ordinatamente per l’una parte e per l’altra, che mai s’affrontasse battaglia in Italia, nel piano a piè di Poppio nella contrada detta Certomondo, che così si chiama il luogo, e una chiesa de’ frati minori che v’è presso, e in uno piano che·ssi chiama Campaldino; e ciò fu un sabato mattina, a dì XI del mese di giugno, il dì di santo Barnaba appostolo. Messer Amerigo e gli altri capitani de’ Fiorentini si schierarono bene e ordinatamente, faccendo CL feditori de’ migliori dell’oste, de’ quali furono XX cavalieri novelli, che si feciono allora; e essendo messer Vieti de’ Cerchi de’ capitani, e malato di sua gamba, non lasciò perciò di volere essere de’ feditori; e convenendoli eleggere per lo suo sesto, nullo volle di ciò gravare più che·ssi volesse di volontà, ma elesse sé e ’l figliuolo e’ nipoti; la qual cosa gli fu messa in grande pregio, e per suo buono esemplo e per vergogna molti altri nobili cittadini si misono tra’ feditori. E ciò fatto, fasciandogli di costa da ciascuna ala della schiera de’ pavesari, e balestrieri, e di pedoni a lance lunghe, e la schiera grossa di dietro a’ feditori ancora fasciata di pedoni, e dietro tutta la salmeria raunata per ritenere la schiera grossa, e di fuori della detta schiera misono CC cavalieri e pedoni Lucchesi e Pistolesi e altri forestieri, onde fu capitano messer Corso Donati, ch’allora era podestà de’ Pistolesi, e ordinaro, che se bisognasse, fedisse per costa sopra i nemici. Gli Aretini dalla loro parte ordinarono saviamente loro schiere, però che v’avea, come detto avemo, buoni capitani di guerra, e feciono molti feditori in quantità di IIIc, intra’ quali avea eletti XII de’ maggiori caporali che si faceano chiamare i XII paladini. E dato il nome ciascuna parte alla sua oste, i Fiorentini: «Nerbona cavaliere», e gli Aretini: «San Donato cavaliere», i feditori degli Aretini si mossono con grande baldanza a sproni battuti a fedire sopra l’oste de’ Fiorentini, e l’altra loro schiera conseguente appresso, salvo che ’l conte Guido Novello, ch’era con una schiera di CL cavalieri per fedire di costa, non s’ardì di mettere alla battaglia, ma rimase, e poi si fuggì a sue castella. E la mossa e assalire che feciono gli Aretini sopra i Fiorentini fu, stimandosi come valente gente d’arme, che per loro buona pugna di rompere alla prima affrontata i Fiorentini e mettergli in volta; e fu sì forte la percossa, che i più de’ feditori de’ Fiorentini furono scavallati, e la schiera grossa rinculò buon pezzo del campo, ma però non si smagarono né ruppono, ma costanti e forti ricevettono i nemici; e coll’ale ordinate da ciascuna parte de’ pedoni rinchiusono tra·lloro i nemici, combattendo aspramente buona pezza. E messer Corso Donati, ch’era di parte co’ Lucchesi e Pistolesi, e avea comandamento di stare fermo, e non fedire, sotto pena della testa, quando vide cominciata la battaglia, disse come valente uomo: «Se noi perdiamo, io voglio morire nella battaglia co’ miei cittadini; e se noi vinciamo, chi vuole vegna a noi a Pistoia per la condannagione»; e francamente mosse sua schiera, e fedì i nemici per costa, e fu grande cagione della loro rotta. E ciò fatto, come piacque a·dDio, i Fiorentini ebbono la vittoria, e gli Aretini furono rotti e sconfitti, e furonne morti più di MDCC tra a cavallo e a piè, e presi più di MM, onde molti ne furono trabaldati pur de’ migliori, chi per amistà, e chi per ricomperarsi per danari; ma in Firenze ne vennero legati VIIcXL. Intra’ morti rimase messer Guiglielmino degli Ubertini vescovo d’Arezzo, il quale fu uno grande guerriere, e messer Guiglielmino de’ Pazzi di Valdarno e’ suoi nipoti, il quale fu il migliore e ’l più avisato capitano di guerra che fosse in Italia al suo tempo, e morivvi Bonconte figliuolo del conte Guido da Montefeltro, e tre degli Uberti, e uno degli Abati, e due de’ Griffoni da Fegghine, e più altri usciti di Firenze, e Guiderello d’Allessandro d’Orbivieto, nominato capitano, che portava la ’nsegna imperiale, e più altri. Dalla parte de’ Fiorentini non vi rimase uomo morto di rinnomea, se non messer Guiglielmo Berardi balio di messer Amerigo di Nerbona, e messer Bindo del Baschiera de’ Tosinghi, e Tici de’ Visdomini; ma molti altri cittadini e forestieri furono fediti. La novella della detta vittoria venne in Firenze il giomo medesimo, a quella medesima ora ch’ella fu; che dopo mangiare essendo i signori priori iti a dormire e a riposarsi, per la sollecitudine e vegghiare della notte passata, subitamente fu percosso l’uscio della camera con grida: «Levate suso, che gli Aretini sono sconfitti!»; e levati, e aperto, non trovarono persona, e i loro famigliari di fuori non ne sentirono nulla; onde fu grande maraviglia e notabile tenuta, che innanzi che persona venisse dell’oste colla novella, fu ad ora di vespro. E questo fu il vero, ch’io l’udì e vidi, e tutti i Fiorentini s’amirarono onde ciò fosse venuto, e istavano in sentore. Ma quando giunsono coloro che venieno dell’oste, e raportarono la novella in Firenze, si fece grande festa e allegrezza; e poteasi fare per ragione, che alla detta sconfitta rimasono molti capitani e valenti uomini di parte ghibellina, e nemici del Comune di Firenze, e funne abbattuto l’orgoglio e superbia non solamente degli Aretini, ma di tutta parte ghibellina e d’imperio.
CXXXII Come i Fiorentini assediarono e guastarono intorno la città d’Arezzo.
Avuta la detta vittoria il Comune di Firenze sopra quello d’Arezzo, sonata colle trombe la ritratta della caccia dietro a’ fuggiti, si schierò l’oste de’ Fiorentini in su il campo, e ciò fatto, se n’andarono a Bibbiena, e quella ebbono sanza nullo contasto; e rubata e spogliata d’ogni sustanzia e di molta preda, le feciono disfare le mura e le case forti infino alle fondamenta, e più altre castelletta intorno, soggiornatovi VIII dì. Che se lo seguente dì fosse l’oste de’ Fiorentini cavalcata ad Arezzo, sanza niuno dubbio s’avea la terra; ma in quello soggiorno gli scampati della battaglia vi ritornarono, e de’ contadini d’intorno vi fuggirono, e presono ordine al riparo e guardia della terra. L’oste de’ Fiorentini vi venne alquanti giorni appresso, e puosono l’assedio intorno alla città, faccendo il guasto al continuo, e prendendo le loro castella, che quasi tutte s’ebbono, quali per forza, e quali s’arrenderono a patti; e molte ne feciono disfare i Fiorentini, e ritennero Castiglione Aretino, e Montecchio, e Rondine, e Civitella, e Laterino, e Monte Sansavino. E andarono in quella oste due de’ priori di Firenze a provedere; e’ Sanesi vennero per comune molto isforzatamente, popolo e cavalieri, dopo la sconfitta fatta, per racquistare loro terre prese per gli Aretini; e ebbono Licignano d’Arezzo e Chiusura di Valdichiane a patti. E stando la detta oste de’ Fiorentini ad Arezzo, in sul vescovado vecchio, per XX dì, la guastarono tutta intorno, e fecionvi correre il palio per la festa di san Giovanni, e rizzarvisi più dificii, e manganarvisi asini colla mitra in capo, per dispetto e rimproccio del loro vescovo; e ordinarvisi molte torri di legname e altri ingegni per combattere la terra, e dandovisi aspra battaglia, grande pezza dello steccato, che non v’avea allora altro muro da quella parte, fu arso e abbattuto; e se i capitani dell’oste avessono ben fatto pugnare a’ combattitori, per forza s’avea la terra, ma quando doveano combattere, feciono sonare la ritratta, onde furono abominati, che ciò fu fatto per guadagneria; per la qual cosa il popolo e’ combattitori amollati si ritrassono da’ badalucchi e dalle guardie; onde la notte vegnente quegli d’Arezzo uscirono fuori, e misero fuoco in più torri di legname, e arsolle con molti altri dificii. E ciò fatto, i Fiorentini perduta la speranza d’avere la terra per battaglia, per lo migliore si partì l’oste, lasciando fornite le sopradette castella forti, perché guerreggiassono al continuo la terra; e tornò l’oste in Firenze a dì XXIII di luglio con grande allegrezza e triunfo, andando loro incontro il chericato a processione, e’ gentili uomini armeggiando, e ’l popolo colle insegne e gonfaloni di ciascuna arte con sua compagnia, e recossi palio di drappo ad oro sopra capo di messer Amerigo di Nerbona, portato sopra bigordi per più cavalieri, e simile sopra messer Ugolino de’ Rossi da Parma, ch’allora era podestà di Firenze. E nota che tutta la spesa della detta oste si fornì per lo nostro Comune per una libbra di libbre VI e soldi V il centinaio, che montò più di XXXVIm di fiorini d’oro, sì era allora bene ordinato l’estimo della città e del contado, con altre cose e rendite del Comune simiglianti bene ordinate. Bene avenne che tornata la detta oste, i popolani ebbono sospetto de’ grandi, che per orgoglio della detta vittoria non gli gravassono oltre al modo usato; e per questa cagione le VII arti maggiori si rallegarono con loro le V arti consequenti, e feciono tra·lloro imporre arme, e pavesi, e certe insegne, e fu quasi uno cominciamento di popolo, onde poi si prese la forma del popolo che·ssi cominciò nel MCCLXXXXII, come innanzi fareno memoria. Della sopradetta vittoria la città di Firenze esaltò molto, e venne in felice e buono stato, il migliore ch’ella avesse avuto infino a quelli tempi; e crebbe molto di genti e di ricchezze, ch’ognuno guadagnava d’ogni mercatantia, arte, o mestieri; e durò in pacefico e tranquillo stato più anni appresso, ogni dì montando. E per allegrezza e buono stato ogni anno per calen di maggio si faceano le brigate e compagnie di genti giovani vestiti di nuovo, e faccendo corti coperte di zendadi e di drappi, e chiuse di legname in più parti della città; e simile di donne e di pulcelle, andando per la terra ballando con ordine, e signore accoppiati, cogli stormenti e colle ghirlande di fiori in capo, stando in giuochi e in allegrezze, e in desinari e cene.
CXXXIII D’una fiera e aspra battaglia la quale fu tra ’l duca di Brabante e ’l conte di Luzzimborgo
Nel detto tempo e mese di giugno, essendo nata una grande discordia tra ’l duca di Brabante e il conte di Luzzimborgo per cagione del ducato di Lamborgo il quale era vacato, e ciascuno de’ detti signori vi cusava ragione; il conte di Luzzimborgo, perch’era stato di genti di suo lignaggio, e co·llui tenea l’arcivescovo di Cologna e più altri signori, e ’l duca di Brabante vi cusava ragione per retaggio di donna. E per questa tenza sì nacque tra·lloro gaggio di battaglia, e ciascheduno fece sua raunata, la quale fu per la parte del duca di Brabante di MD cavalieri, de’ migliori che fossono in Brabante, in Fiandra, e in Analdo, e di Francia. E d’altra parte il conte di Luzzimborgo fu con MCCC cavalieri, de’ migliori e de’ più rinnomati di Valdelreno e d’Alamagna. E raccozzate le due osti tra il fiume del Reno e quello della Mosa nel luogo detto Avurone, sanza niuno pedone d’arme ch’a piè fosse, si cominciò la detta battaglia, e fu sì aspra e sì crudele, che durò dalla mattina al sole levante infino al coricare del sole; però che a modo di torniamento si ruppono e si rallegarono più volte il giorno, non possendosi giudicare chi avesse il peggiore. Alla fine fu sconfitto il conte di Luzzimborgo per la buona cavalleria che messer Gottifredi di Brabante fratello del duca avea menata di Francia, che vi fu il conastabole, e ’l maliscalco, e altri grandi baroni di Francia, con tutto il fiore de’ baccellieri d’arme del reame, i quali v’erano venuti co·llui a priego della reina Maria, moglie che fu del re Filippo di Francia, e serocchia del detto duca e di messer Gottifredi di Brabante. E rimasono in sul campo morti, che d’una parte e che d’altra, Vc e più de’ migliori cavalieri del mondo; ma i più della parte del conte di Luzzimborgo; ch’egli con tre suoi fratelli carnali vi rimasono morti, e il conte di Ghelleri, e quello di Les, e più altri baroni del Reno e d’Alamagna, e in grande quantità presi, che per la fierezza de’ buoni cavalieri nullo quasi fuggì di campo, onde bene n’è da·ffare notevole memoria, però che appena si truova di tanta poca gente, a comparazione, sì aspra battaglia come fu quella. Per la quale vittoria il duca di Brabante e suo paese montò in grande fama di buona cavalleria e di grande stato, e conquistò il ducato di Lamborgo ond’era la quistione; e d’allora innanzi il duca di Brabante acrebbe la sua arme, e fecela a quartieri: l’uno il campo nero e leone ad oro, cioè l’arme del duca di Brabante; l’altro il campo ad argento e leone vermiglio per la ducea di Lamborgo. Ma poi pace faccendo, e per non esser disertato, Arrigo, giovane fanciullo rimaso del conte di Luzzimborgo, per consiglio de’ parenti e amici tolse per moglie la figliuola del duca di Brabante. Questo Arrigo crebbe poi in tante virtù e valore, che fu imperadore di Roma, come innanzi al suo tempo la nostra cronica farà menzione.
CXXXIV Come don Giamo venne di Cicilia in Calavra con sua armata, e ricevettevi alcuno danno, e poi si puose ad assedio a Gaeta.
Nel detto anno e mese di giugno, essendo il conte d’Artese maliscalco della gente del re Carlo in Calavra ad oste al castello di Catarzano ch’era rubellato al re Carlo, e s’era arrenduto a don Giamo d’Araona, il quale si facea chiamare re di Cicilia, il detto don Giamo col suo amiraglio Ruggieri di Loria, per soccorrere e levare l’assedio dal detto castello, vennero di Cicilia con loro armata da L tra galee e uscieri, e con gente d’arme e cavagli puosono in terra. E messer Ruggieri di Loria scese, e ne fu capitano di Vc cavalieri catalani, ov’ebbe una battaglia tra’ Franceschi e’ Catalani, ma per la buona cavalleria de’ Franceschi ch’avea seco, il conte d’Artese ne fu vincitore, e rimasorvi tra morti e presi intorno di CC Catalani a cavallo. Messer Ruggieri si ricolse a galee col rimanente. E nota che ’l detto messer Ruggieri non fu vinto mai né prima né poscia in battaglia di terra o di mare, se non in quella, ma fue il più bene aventuroso che amiraglio che mai si ricordi, come le sue memorie hanno fatto e faranno per innanzi menzione. Come don Giamo vide che non potea niente avanzare in Calavra, si partì per mare con sua armata, lasciando là l’oste e gente del re Carlo, e sì s’avvisò d’assalire e prendere la città di Gaeta, e per fare levare l’oste di Catarzano in Calavra, e puosesi del mese di luglio ad assedio della detta città di Gaeta in sul monte che v’è d’incontro, assai forte luogo e sicuro, con VIc cavalieri e con popolo e balestrieri assai, e rizzòvi difici, gittandovi dentro. I Gaetani si tennero francamente, e mandarono per soccorso al re Carlo, il quale si mosse da Napoli con tutto suo podere di gente d’arme a cavallo e a piè; il conte d’Artese vi venne di Calavra colla cavalleria, lasciando fornito l’assedio, e di Campagna e di terra di Roma vi venne molta gente a cavallo e a piè al soldo della Chiesa. Don Giamo sentendo venire il re Carlo sopra lui con tanta potenzia, e temendo che per fortuna di mare non gli fallisse vivanda, fece domandare triegue al re Carlo, promettendo di partirsi da Gaeta; le quali il re accettò dal dì insino a la Tusanti vegnente a due anni, salvo che in Calavra. La qual triegua al conte d’Artese e agli altri baroni franceschi non piacque, però che per la loro potenzia parea loro avere preso don Giamo e vinta la guerra; ma lo re Carlo conoscendo che non si potea levare l’assedio sanza pericolo, non avendo armata in mare, prese le triegue, e però fu cagione di tornarsi in Francia il conte d’Artese e più baroni. E fatte le dette triegue, don Giamo con sua armata si ricolse, e partissi a dì XXV d’agosto MCCLXXXVIIII, e tornarsi sani e salvi in Cicilia. E perché i Gaetani si portarono all’assedio francamente, e come franchi uomini, lo re gli fece franchi d’ogni gravezza X anni.
CXXXV Come Carlo Martello fu coronato del reame d’Ungaria.
Compiute e ferme le dette triegue, le quali furono molto utoli al regno di Puglia per dare alquanto silenzio alla guerra ond’erano molto agravati, il re Carlo si tornò a Napoli; e ’l giorno di nostra Donna di settembre prossimo il detto re fece in Napoli grande corte e festa, e fece cavaliere Carlo Martello suo primogenito figliuolo, e fecelo coronare del reame d’Ungaria per uno cardinale legato del papa, e per più vescovi e arcivescovi. E per la detta coronazione e festa più altri cavalieri novelli si feciono il giorno, Franceschi, e Provenzali, e del Regno, e spezialmente Napoletani, per lo re e per lo figliuolo; e fu grande corte e onorevole, e ciò fece lo re Carlo, però ch’era morto il re d’Ungheria in quello anno, del quale non rimase niuno figliuolo maschio né altra reda, che·lla reina Maria moglie del detto re Carlo, e madre del detto Carlo Martello, a·ccui succedeva per ereditaggio il detto reame d’Ungheria. Ma morto il detto re d’Ungheria, Andreasso, disceso per legnaggio della casa d’Ungaria, entrò nel reame, e la maggiore parte tra per forza e per amore ne conquistò, e fecesene fare signore e re. Lasceremo alquanto de’ fatti del regno di Cicilia e d’Ungheria, e tornereno a’ fatti che in que’ tempi furono in Toscana.
CXXXVI Come que’ di Chiusi furono sconfitti, e rimisono i Guelfi in Chiusi.
Nel detto anno, a dì XVI d’agosto, i Ghibellini ch’erano in Chiusi, ond’era capitano messer Lapo Farinata degli Uberti, uscirono fuori popolo e cavalieri, e con difici e scale per combattere il ponte e torri di Santa Mosteruola a piè di Chiusi in su le Chiane, il quale si tenea per gli Guelfi usciti di Chiusi. E sentendo la detta ordine, mandarono per soccorso a Siena e a Montepulciano, onde subitamente vi mandarono i Sanesi messer Berardo da Rieti con C cavalieri, e di Montepulciano vi trasse messer Benghi Bondelmonti che n’era podestà, con gente a cavallo e a piè assai; e trovando la detta oste de’ Chiusini, gli asalirono francamente, e gli misono inn-isconfitta, e rimasonne morti da CXX, e presi più di CC; per la quale sconfitta e per riavere i loro pregioni, quegli di Chiusi rimisono il settembre vegnente i Guelfi in Chiusi, e mandarne messer Lapo Farinata e la masnada de’ Ghibellini d’Arezzo.
CXXXVII Come i Lucchesi colla forza de’ Fiorentini feciono oste sopra la città di Pisa.
Nel detto anno MCCLXXXVIIII, del mese d’agosto, i Lucchesi feciono oste sopra la città di Pisa colla forza de’ Fiorentini, che v’andarono IIIIc cavalieri di cavallate, e IIm pedoni di Firenze, e la taglia di loro e dell’altre terre di parte guelfa di Toscana, e andarono insino alle porte di Pisa, e fecionvi i Lucchesi correre il palio per la loro festa di san Regolo, e guastarla intorno in XXV dì che vi stettono ad oste, e presono il castello di Caprona, e guastarlo, e tutta la valle di Calci, e quella di Buti, e guastarono intorno Vicopisano, e dieronvi più battaglie, ma no·llo ebbono, e tornarsi a casa sani e salvi, e di Pisa nonn-uscì persona d’arme a·lloro contrario.
CXXXVIII D’una cavalcata che feciono i Fiorentini, che dovea loro esser dato Arezzo.
Nel detto anno, del mese di novembre, essendo menato uno segreto trattato per gli Fiorentini d’avere la città d’Arezzo per tradimento, subitamente in su l’ora di vespro sonando la campana a martello, e ponendo la candela alla porta accesa, pena grandissima chi non fosse cavalcato innanzi ch’ella fosse consumata, i cittadini ch’aveano le cavallate incontanente cavalcaro e con loro soldati, e tutta la notte infino a Montevarchi, e la mattina a Civitella; e venia fornito il trattato, se non che uno che ’l menava cadde d’uno sporto, e veggendosi a la morte, in confessione il manifestò al suo confessoro frate, e quegli il rivelò a messer Tarlato, onde prese di coloro che sentirono il tradimento, e fecene giustizia, e fue discoperto, onde i Fiorentini, ch’erano però cavalcati a Civitella, riposati alquanti dì, si tornarono in Firenze.
CXXXIX D’uno grande fuoco che s’apprese in Firenze in casa i Pegolotti.
Negli anni di Cristo MCCLXXXX, a dì XXVIIII di maggio, s’apprese il fuoco a casa de’ Pegolotti Oltrarno di là dal ponte Vecchio, e arsono le loro case e la torre e case de’ loro vicini d’incontro, e arsevi messer Neri Pegolotti con uno suo figliuolo, e una donna di loro con III suoi figliuoli, e una fante; onde fu allora una grande pietà e dammaggio di persone e d’avere, che poi fu quasi spento quello legnaggio, ch’erano antichi e orrevoli cittadini.
CXL Come i Fiorentini co·lloro amistà feciono la terza oste sopra la città d’Arezzo.
Negli anni di Cristo MCCLXXXX i Fiorentini uscirono fuori il primo dì di giugno, e feciono oste sopra la città d’Arezzo coll’aiuto della taglia e dell’amistà delle terra guelfe di Toscana: furono MD cavalieri e VIm pedoni. E al dare delle ’nsegne della detta oste si diede di prima il pennone de’ feditori, mezzo l’arme del re, e mezzo il campo d’argento e giglio rosso; e stettono ad oste XXVIIII dì, e guastarlo da capo: intorno intorno ad Arezzo VI miglia non vi rimase né vigna, né albero, né biada; e corsonvi il palio il dì di santo Giovanni alle porte d’Arezzo. E era allora podestà di Firenze messer Rosso Gabrielli d’Agobbio, e fu il primo che fosse per VI mesi, che innanzi erano le podestadi per uno anno; per lo meglio del Comune si fece allora quello decreto, che poi seguì sempre. E tornando la detta oste, feciono la via di Casentino guastando le terre del conte Guido Novello, e disfeciongli la rocca, e palazzi di Poppio, ch’erano forti e maravigliosi, e Castello Santo Angelo, e quello di Ghiazzuolo, e Cetica, e Monte Aguto di Valdarno. E in questo venne l’esecuzione della profezia che ’l conte Tegrimo il vecchio disse al conte Guido Novello dopo la sconfitta de’ Fiorentini a Monte Aperti, essendo in grande stato e prosperità il detto conte Guido, e per proverbio si dicea in Firenze: «Tu stai più ad agio che ’l conte in Poppi»; e mostrandogli il cassero di Poppi, nella cui camera dell’arme avea tutte le buone balestra, e altri arnesi d’arme e d’oste che’ Fiorentini aveano perduti alla detta sconfitta, e ancora quello che trovò in Firenze quando fu vicario; e domandando il conte Guido il conte Tegrimo che gliene parea, il detto conte Tegrimo rispuose improviso e sùbito al conte Guido uno bello motto e notabile, e disse: «Parmene bene, se non ch’io intendo che’ Fiorentini sono grandi prestatori ad usura».
CXLI Come fu preso e guasto Porto Pisano per gli Fiorentini, e Genovesi, e Lucchesi.
Nel detto anno, a dì II di settembre, i Fiorentini uscirono ad oste sopra la città di Pisa, lasciando fornito il Valdarno di sopra di CCC cavalieri, tra cittadini e soldati e pedoni assai, acciò che gli Aretini non potessono per la detta oste correre in Valdarno; e ciò fatto, con ordine de’ Genovesi, che vi vennono per mare con XL galee armate (e’ Lucchesi vi furono con tutto loro podere), e presono per forza Porto Pisano e Livorno, e guastarlo tutto, e guastarono le IIII torri ch’erano in mare alla guardia del porto, e il fanale della Meloria, e feciolle cadere e rovesciare in mare cogli uomini che su v’erano a guardia. E’ Genovesi sursono a la bocca e entrata del porto più legni grossi carichi di pietre, e ruppono i palizzi, perché il detto porto non si potesse usare. E partita la detta oste di Porto, i Genovesi si tornarono a Genova, e Lucchesi a Lucca sani e salvi, e’ Fiorentini tornarono per la Valdera, e presono e disfeciono più castella, e lasciarono uno capitano in Valdera. Ma tornati i Fiorentini in Firenze, il conte Guido da Montefeltro colle masnade di Pisa cavalcarono in Valdera, e ripresono il castello di Montefoscoli e quello di Montecchio, e presono il capitano che v’aveano lasciato i Fiorentini; e ciò sentendosi in Firenze, cavalcarono i Fiorentini a Volterra, popolo e cavalieri; e sentendolo i Pisani, si tornarono a Pisa.
CXLII Come fu preso il marchese di Monferrato da quegli d’Allessandra.
Nel detto tempo il marchese di Monferrato, il quale essendo venuto nella città d’Allessandra in Lombardia, ch’egli tenea sotto sua signoria, i cittadini di quella, a petizione e sommossa degli Astigiani, di cui egli era nimico (e ciò fu per gli molti danari ch’egli spesono ne’ traditori d’Allessandra), i quali per tradimento presono il detto marchese e misollo in pregione, per la cui presura i Melanesi presono...
CXLIII D’uno grande miracolo ch’avenne in Parigi del corpo di Cristo.
Nel detto anno, essendo in Parigi uno Giudeo ch’avea prestato ad usura a una Cristiana sopra sua roba, e quella volendola ricogliere per averla indosso il dì di Pasqua, il Giudeo le disse: «Se tu mi rechi il corpo del vostro Cristo, io ti renderò i tuoi panni sanza danari». La semplice femmina e covidosa il promise, e la mattina di Pasqua, andandosi a comunicare, ritenne il sagramento e recollo al Giudeo; il quale messo una padella a fuoco con acqua bogliente, gittò il corpo di Cristo dentro, e no·llo potea consumare; e ciò veggendo, il fedì più volte col coltello, il quale fece abondevolemente sangue, sì che tutta l’acqua divenne vermiglia; e di quella il trasse, e miselo in acqua fredda, e simile divenne vermiglia. E sopravegnendovi Cristiani per improntare danari, s’accorsono del sacrilegio del Giudeo, e il santo corpo per sé medesimo saltò in su una tavola. E ciò sentito, il Giudeo fu preso e arso, e il santo corpo ricolto per lo prete a grande reverenzia, e di quella casa dove avenne il miracolo si fece una chiesa che si chiama il Salvatore del Bogliente.
CXLIV Come i Ravignani presono il conte di Romagna che v’era per la Chiesa.
Nel detto anno, a dì XVI di novembre, gli cittadini di Ravenna presono messer Stefano da Ginazzano di casa i Colonnesi di Roma, il quale era conte di Romagna per lo papa e per la Chiesa di Roma, e uccisono e rubarono e presono tutta sua masnada e famiglia. Per la quale rubellazione tutte le terre di Romagna si commossono a guerra e rubellazione, salvo la città di Forlì; e Maghinardo da Susinana prese la città di Faenza. Per la quale cosa i Bolognesi cavalcarono a Imola, e disfeciono gli steccati, e rappianarono i fossi d’intorno a la terra. Dopo queste novità surte in Romagna il papa vi mandò per conte messer Bandino de’ conti Guidi da Romena vescovo d’Arezzo, il quale in poco tempo appresso tutte le terre di Romagna recò per pace e accordo a sua obbedienza, e della Chiesa.
CXLV Come il soldano di Babbillonia vinse per forza la città d’Acri con grande danno de’ Cristiani.
Negli anni di Cristo MCCLXXXXI, del mese d’aprile, il soldano di Babbillonia d’Egitto, avendo prima fatto sua guernigione e fornimento in Soria, sì passò il diserto, e venne nella detta Soria con sua oste, e puosesi ad assedio alla città d’Acri, la quale anticamente la Scrittura chiamava Tolomadia, e oggi in latino si chiama Acon, e fu con sì grande gente a piè e a cavallo il soldano, che·lla sua oste tenea più di XII miglia. Ma inanzi che più diciamo della perdita d’Acri, sì diremo la cagione perché il soldano vi venne ad assedio e la prese, avutane relazione da uomini degni di fede nostri cittadini e mercatanti che in quegli tempi erano in Acri. Egli è vero che, perché i Saracini aveano ne’ tempi dinanzi tolte a’ Cristiani la città d’Antioccia, e quella di Tripoli, e quella di Suri, e più altre terre che’ Cristiani teneano alla marina, la città d’Acri era molto cresciuta di genti e di podere, però ch’altra terra non si tenea in Soria per gli Cristiani, sì che per lo re di Gerusalem, e per quello di Cipri, e il prenze d’Antioccia, e quello di Suri, e di Tripoli, e la magione del Tempio e dello Spedale, e l’altre magioni, e’ legati del papa, e quegli ch’erano oltremare per lo re di Francia e per quello d’Inghilterra, tutti faceano capo in Acri e aveavi XVII signorie di sangue, la quale era una grande confusione. E in quegli tempi triegue erano state prese tra’ Cristiani e’ Saracini, e avevavi più di XVIIIm d’uomini pellegrini crociati; e falliti i loro soldi, e non potendoli avere da’ signori e Comuni per cui v’erano, parte di loro, uomeni dileggiati e sanza ragione, si misero a rompere le triegue, e rubare, e uccidere tutti i Saracini che veniano in Acri sotto la sicurtà della triegua co·lloro mercatantie e vittuaglie; e corsono per simile modo rubando e uccidendo i Saracini di più casali d’intorno ad Acri. Per la qual cosa il soldano tegnendosi molto gravato, mandò suoi ambasciadori in Acri a que’ signori, richeggendo l’amenda de’ danni dati e per suo onore e soddisfacimento di sue genti, gli fossono mandati alquanti de’ cominciatori e caporali di quelli ch’aveano rotte le triegue per farne giustizia: le quali richeste gli furono dinegate; per la qual cosa vi venne ad oste, come detto avemo, e per moltitudine di gente ch’avea, per forza riempié parte de’ fossi ch’erano dalla faccia di terra molto profondi, e presono il primo giro delle mura, e l’altro girone con cave e difici feciono in parte cadere; e presono la grande torre che·ssi chiamava la Maladetta, che per alcuna profezia si dicie che per quella si dovea perdere Acri. Ma per tutto questo non si potea perdere la città, che perché i Saracini rompessono le mura il dì, la notte erano riparate e stoppate o con tavole o con sacca di lana e di cotono, e difese il dì appresso vigorosamente per lo valente e savio uomo frate Guiglielmo di Belgiù maestro del Tempio, il quale era capitano generale della guerra, e della guardia della terra, e con molta prodezza e provedenza e sollecitudine avea vigorosamente guardata la terra. Ma come piacque a·dDio, e per pulire le peccata degli abitanti d’Acri, il detto maestro del Tempio levando il braccio ritto combattendo, gli fu per alcuno Saracino saettata una saetta avelenata, la quale gli entrò nella giuntura delle corazze, per la qual fedita poco appresso morìo, per la cui morte tutta la terra fu iscommossa e impaurita, e per la loro confusione delle tante signorie e capitani, come dicemmo dinanzi, si disordinò, e furono in discordia della guardia e difensione della terra; e ciascuno, chi potéo, intese a sua salvazione, e ricogliendosi in navi e altri legni ch’erano nel porto. Per la qual cagione i Saracini continuando di dì e di notte le battaglie, entrarono per forza nella terra, e quella corsono e rubarono tutta, e uccisono chiunque si parò loro innanzi, e giovani uomini e femmine menarono in servaggio per ischiavi, i quali furono tra morti e presi, uomini e femmine e fanciugli, più di LXm; e ’l dammaggio d’avere e di preda fu infinito. E raccolte le prede e’ tesori, e tratte le genti prese della terra, si abbatterono le mura e le fortezze della terra, e misorvi fuoco, e guastarla tutta, onde la Cristianità ricevette uno grandissimo dammaggio, che per la perdita d’Acri non rimase nella Terrasanta neuna terra per gli Cristiani; e tutte le buone terre di mercatantia che sono alle nostre marine e frontiere mai poi non valsono la metà a profitto di mercatantia e d’arti per lo buono sito dov’era la città d’Acri, però ch’ell’era nella fronte del nostro mare e in mezzo di Soria, e quasi nel mezzo del mondo abitato, presso a Gerusalem LXX miglia, e fontana e porto d’ogni mercatantia sì del levante come del ponente; e di tutte le generazioni delle genti del mondo v’usavano per fare mercatantia, e turcimanni v’avea di tutte le lingue del mondo sì ch’ell’era quasi com’uno alimento al mondo. E questo pericolo non fu sanza grande e giusto giudizio d’Iddio, che quella città era piena di più peccatori, uomini e femmine, d’ogni dissoluto peccato, che terra che fosse tra’ Cristiani. Venuta la dolorosa novella in ponente, e il papa ordinò grandi indulgenzie e perdoni a chi facesse aiuto e soccorso alla Terrasanta, mandando a tutti i signori de’ Cristiani che volea ordinare passaggio generale, e difese con grandi processi e scomuniche quale Cristiano andasse in Allessandria o in terra d’Egitto con mercatantia, o vittuaglia, o legname, o ferro, o desse per alcuno modo aiuto o favore.
CXLVI Della morte del re Ridolfo d’Alamagna.
Nel detto anno MCCLXXXXI morìo il re Ridolfo d’Alamagna, ma non pervenne alla benedizione imperiale, perché sempre intese a crescere suo stato e signoria in Alamagna, lasciando le ’mprese d’Italia per acrescere terra e podere a’ figliuoli, che per suo procaccio e valore di piccolo conte divenne imperadore, e aquistò in propio il ducato d’Ostaricchi, e grande parte di quello di Soavia.
CXLVII Come il re Filippo di Francia fece prendere e ricomperare tutti gl’Italiani.
Nel detto anno, la notte di calen di maggio, il re Filippo il Bello di Francia, per consiglio di Biccio e Musciatto Franzesi, fece prendere tutti gl’Italiani ch’erano in suo reame, sotto protesto di prendere i prestatori; ma così fece prendere e rimedire i buoni mercatanti come i prestatori; onde molto fu ripreso e in grande abbominazione, e d’allora innanzi il reame di Francia sempre andò abassando e peggiorando. E nota che tra la perdita d’Acri e questa presura di Francia i mercatanti di Firenze ricevettono grande danno e ruina di loro avere.
CXLVIII Come i Pisani ripresono il castello del Ponte ad Era.
Nel detto anno, la notte di domenica, a dì XXIII di dicembre, il conte Guido da Montefeltro signore in Pisa, sentendo che ’l castello del Ponte ad Era era male guardato, e molti de’ fanti venutisene a·fFirenze a pasquare, e per trattato del conte, con certi terrazzani del detto castello del Ponte ad Era, il quale teneano i Fiorentini, venne con suo isforzo a quello, il quale era molto forte di mura e di spesse torri, e con larghi fossi pieni d’acqua, e datali la salita d’una delle torri, con navicelle per loro recate passati i gran fossi, e con iscale di funi salirono in su le mura, e per difalta di mala guardia, e dissesi per alcuni per baratteria de’ castellani, che non vi teneano la gente ond’erano pagati, il detto castello male difeso fu preso per gli Pisani, e morti i castellani e tutta loro compagnia, che v’erano da L fanti, che doveano esser CL. E’ castellani, l’uno era di casa i Rossi, messere Guido Bigherelli che fu preso, e ’l Bingota suo nipote morto, e Nerino de’ Tizzoni; e così la loro avarizia, se in ciò peccarono, gli fece morire con vergogna del Comune di Firenze ch’era il più forte castello d’Italia che fosse in piano. E in quello tempo i Pisani feciono rubellare a’ Samminiatesi il castello di Vignale in Camporena, onde v’andarono ad oste le tre sestora de’ cavalieri di Firenze, con molto popolo, gittandovi difici. Alla fine non potendosi più tenere, e non avendo soccorso da’ Pisani, una notte ch’era una grande fortuna di tempo, se n’uscirono quegli del castello sani e salvi per mezza l’oste de’ Fiorentini, onde a quegli che v’erano fu recato a grande vergogna. Per la qual cosa s’ordinò in Firenze generale oste sopra Pisa, e diedonsi le ’nsegne, e messer Corso Donati ebbe la reale; ma qual si fosse la cagione, non seguì, onde in Firenze n’ebbe grande ripitio, dicendosi che certi grandi n’aveano avuti danari da’ Pisani; per la qual cosa, e sollecitudine di messer Vieri de’ Cerchi allora capitano di parte, si rifece la detta oste, e andossi insino a Castello del Bosco, e là attendati, venne in VIII dì continui tanta pioggia, che per necessità si ritornò la della oste addietro, e appena si poterono ricogliere e stendere.
CXLIX Come la città di Forlì in Romagna fu presa per Maghinardo da Susinana.
Nel detto anno, essendo tutta la contea di Romagna all’obedienza di santa Chiesa sotto la guardia del vescovo d’Arezzo che n’era conte per lo papa, Maghinardo da Susinana con certi gentili e grandi uomini di Romagna per furto presono la città di Forlì, e in quella presono il conte Aghinolfo da Romena co’ figliuoli, il quale era fratello del detto conte e vescovo d’Arezzo, e assediò il detto conte e vescovo in Cesena, onde surse grande guerra in Romagna. Il detto Maghinardo fu uno grande e savio tiranno, e dalla contrada tra Casentino e Romagna grande castellano, e con molti fedeli; savio fu di guerra e bene aventuroso in più battaglie, e al suo tempo fece grandi cose. Ghibellino era di sua nazione e in sue opere, ma co’ Fiorentini era Guelfo e nimico di tutti i loro nimici, o Guelfi o Ghibellini che fossono; e in ogni oste e battaglia che’ Fiorentini facessono, mentre fu in vita, fu con sua gente a·lloro servigio, e capitano; e ciò fu, che morto il padre, che Piero Pagano avea nome, grande gentile uomo, rimanendo il detto Maghinardo piccolo fanciullo e con molti nimici, conti Guidi, e Ubaldini, e altri signori di Romagna, il detto suo padre il lasciò alla guardia e tuteria del popolo e Comune di Firenze, lui e le sue terre; dal qual Comune benignamente fu cresciuto, e guardato, e migliorato suo patrimonio, e per questa cagione era grato e fedelissimo al Comune di Firenze in ogni sua bisogna.
CL Come i Fiorentini ebbono il castello d’Ampinana.
Nel detto anno, essendo rubellato e riposto per lo conte Manfredi figliuolo del conte Guido Novello il castello d’Ampinana in Mugello, ch’era di loro giuridizione, e molto forte, per contrario de’ Fiorentini e del conte a Battifolle che tenea Gattaia, sì vi si puose l’oste, e per più tempo assediato, gittandovi più difici, sì·ss’arrendé a patti al Comune di Firenze, avendone il detto conte IIIm fiorini d’oro; e partendosi co’ suoi masnadieri, il detto castello per gli Fiorentini fu fatto disfare insino a’ fondamenti; e d’allora innanzi il Comune di Firenze cusò ragione ne’ popoli e villate del detto castello, e recò sotto sua signoria, faccendo loro pagare libbre e fazioni.
CLI Come morì papa Niccola d’Ascoli.
Nell’anno MCCLXXXXII morì papa Niccola d’Ascoli nella città di Roma, e là fu soppellito a Santo... Questi fu buono uomo e di santa vita, dell’ordine de’ frati minori, ma molto favorò i Ghibellini. E dopo la sua morte vacò la Chiesa di papa, per discordia de’ cardinali, XXVII mesi, che l’una parte volea papa a petizione del re Carlo, ond’era capo messer Matteo Rosso degli Orsini, e l’altra parte il contrario, ed era messer Jacopo della Colonna capo.
CLII Sì come arse tutta la città di Noione in Francia.
Nel detto anno MCCLXXXXII s’apprese il fuoco nella città di Noione in Francia, cioè nella terra onde fu il beato santo Loi di Noione, e fu sì impetuoso fuoco, che non rimase quasi casa né chiesa nella città che non ardesse, e eziandio la mastra chiesa di nostra Donna, ove fu la casa e fabbrica di santo Loi, e dov’è il corpo suo; la qual città è della grandezza della terra di Prato o più, nella quale si ricevette grandissimo dammaggio di case, arnesi, e tesori, e di persone che vi morirono.
CLIII Come fue eletto Attaulfo a re de’ Romani.
Nel detto anno MCCLXXXXII fue eletto per gli prencipi della Magna a re de’ Romani Attaulfo, detto in latino Andeulfo, conte da Nassi della Magna; ma non pervenne a dignità imperiale, anzi fu morto per Alberto dogio di Starlichi, figliuolo del re Ridolfo in battaglia.
CLIV Come i Fiorentini feciono oste sopra la città di Pisa.
Nel detto anno, del mese di giugno, i Fiorentini co·lloro amistà, che furono XXVc di cavalieri e VIIIm pedoni, per vendetta della perdita del Ponte ad Era feciono oste sopra la città di Pisa, della quale oste fu capitano messer Gentile degli Orsini di Roma, che venne con CC cavalieri tra Romani e Campagnini; e la ’nsegna reale ebbe messer Geri Spini, e il pennone de’ feditori messer Vanni de’ Mozzi. E fu una ricca e una magna oste, delle più ch’avesse a que’ tempi fatta il Comune di Firenze; e stettonvi ad oste XXXIII dì, e andarono di là dalla badia a San Savino, e a quella badia disfeciono il campanile, e tagliarono uno grandissimo e bello albero di savina per dispetto de’ Pisani, e per la festa di santo Giovanni feciono correre il palio presso alle porte di Pisa. E fatto intorno a Pisa grande guasto, e arso il borgo dal fosso Arnonico a Pisa, il quale era nobilemente acasato e ingiardinato, si tornarono in Firenze sani e salvi, sanza contasto o riparo de’ nimici; e sì era in Pisa il conte da Montefeltro con VIIIc cavalieri, e non s’ardì a mostrare per la viltà che sentiva ne’ Pisani, e stette pure alla guardia della cittade.
CLV De’ miracoli che apparirono in Firenze per santa Maria d’Orto Sammichele.
Nel detto anno, a dì III del mese di luglio, si cominciarono a mostrare grandi e aperti miracoli nella città di Firenze per una figura dipinta di santa Maria in uno pilastro della loggia d’Orto Sammichele, ove si vende il grano, sanando infermi, e rizzando attratti, e isgombrare imperversati visibilemente in grande quantità. Ma i frati predicatori e ancora i minori per invidia o per altra cagione non vi davano fede, onde caddono in grande infamia de’ Fiorentini. In quello luogo d’Orto Sammichele si truova che fu anticamente la chiesa di Sammichele in Orto, la quale era sotto la badia di Nonantola in Lombardia, e fu disfatta per farvi piazza; ma per usanza e devozione alla detta figura ogni sera per laici si cantavano laude; e crebbe tanto la fama de’ detti miracoli e meriti di nostra Donna, che di tutta Toscana vi venia la gente in peregrinaggio per le feste di santa Maria, recando diverse ’magine di cera per miracoli fatti, onde grande parte della loggia dinanzi e intorno alla detta figura s’empié, e crebbe tanto lo stato di quella compagnia, ov’erano buona parte della migliore gente di Firenze, che molti benificii e limosine, per offerere e lasci fatti, ne seguirono a’ poveri, l’anno più di libbre VIm; e seguissi a’ dì nostri, sanza aquistare nulla possessione, con troppa maggiore entrata, distribuendosi tutta a’ poveri.
Qui finisce l’ottavo libro