Opere (Lorenzo de' Medici)/VII. Capitoli/Capitolo II.

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II. Capitolo fatto a Giovanfrancesco Ventura per la morte di una sua figliuola.

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II. Capitolo fatto a Giovanfrancesco Ventura per la morte di una sua figliuola.
VII. Capitoli - Capitolo I. VIII. Amori di Venere e Marte
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II

Capitolo fatto a Giovanfrancesco Ventura

per la morte di una sua figliuola.


     L’amoroso mio stil, quel dolce canto,
qual, come volle il mio cieco disio,
un tempo lieto fu, or vòlto è in pianto.
     Flebile e mesto ha fatto il verso mio
quell’acerbo dolor, quale in me sparse5
disio piú vero, amor piú santo e pio.
     Questa fiamma d’amor che nel petto arse,
non patí mie pupille esser digiune
di pianto, o cheto in tal suo danno starse;
     ma quando ha viste l’avverse fortune,10
di quelle e del dolor tal parte assunse,
qual mostrassi ogni cosa esser comune:
     onde gran doglia il cor offese e punse,
amico, per la tua mal fausta sorte,
perché al proprio dolor il tuo s’aggiunse;15
     quando sentí troppo immatura morte
dalla tua cara e tanto amata figlia,
le cui fila fe’ Cloto troppo corte;
     se non che accorse alla mia mental ciglia
con la tua passion la tua prudenza,20
ch’al corrente dolor dee por la briglia.
     Cercando confortarti a pazienza,
dar quel non ti potea, che in me non era:
tanto avea la tua doglia in me potenza.
     Dunque se in te la miglior parte impera,25
leva dal cor quel mal che troppo il preme,
con la comun ragion, benché sia vera.

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     Cercasi indarno, si disia e geme
quel che l’inesorabil morte fura:
e ’n van quel, ch’esser dee, si fugge e teme:30
     ella sta immota sempre, ferma e dura:
né tu doler ti déi, se a quella ha fatto
quel ch’a ciascun per nostra o sua natura.
     Non fu mai violato alcun suo patto,
né pate eccezion l’antica legge,35
che chiunche nasce, sia cosí disfatto.
     Poi che il Monarca, ch’ogni cosa regge,
per la sua caritá ardente e torrida
non trasse sé, non trarrá alcun di gregge.
     Tu mi dirai: — L’etá sua verde e florida,40
l’indole, e di sé data opinione
la súbita rapina fa piú orrida. —
     Qui vinca il tuo appetito la ragione:
perché conosce piú l’amor divino,
che noi, il tempo della salvazione.45
     S’una morte è questo mortal cammino
all’etá immaculata, pura e netta,
vita è lasciar di vita ogni confino:
     se l’etá brieve, eterna e piú perfetta
fussi, il dolor non saria forse a torto;50
ma chi è quel, che tanto a sé prometta?
     Dunque, se de’ cader qualunche ha orto,
poco è da dir, rispetto al tempo eterno,
del lungo termin della vita al corto:
     anzi chi piú sta al mondo e in suo governo,55
deturpa piú sua candida bianchezza,
giugnendo legne al foco sempiterno.
     Però non ti doler s’è in giovinezza
salita a maggior ben, che par offizio
di chi il suo mal piú che l’altrui ben prezza.60
     Tuo piacer brieve, eterno suo supplizio
era sua vita, che quel giorno ha sciolto
di questa fine e di migliore inizio.

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     Se per lei bagni di lagrime il volto,
qui resti il pianto; perché a maggior bene65
tirata l’ha Colui, che a te l’ha tolto.
     Né ti facci doler concetta spene
di piú contento, ché da dolce fiore
il frutto spesse volte amaro viene.
     Se pur il proprio mal ti dá dolore,70
ch’è transitorio, e sua gloria infinita,
sarebbe invidia, non giá vero amore.
     Facci da te ogni dolor partita:
e se pur pianger déi, piangi te stesso,
non lei, perch’è trascesa a miglior vita.75
     Piangi tua dura sorte, che concesso
non t’ha, che sia al bel cammin suo scorta:
ch’or fia tua, quando sará permesso.
     Ed anco di te stesso ti conforta,
pur che per questo esemplo sia piú saggio80
a non amar tanto una cosa morta.
     Giá non t’ha fatto la fortuna oltraggio:
quel, ch’era in suo poter, messo ha ad effetto,
quando è venuto il fin del suo viaggio.
     Ma tu perché ponesti tanto affetto85
a mortal cosa, fragile e caduca,
come se eterno fussi il suo diletto?
     E ’l nostro sommo bene, il vero duca
spesso il mortal cammin rompe e traversa,
perché il suo lume in nostro oscur piú luca.90
     Sare’ di lui ogni memoria persa,
tanto sono i mortali al cader proni,
se non venissi qualche cosa avversa.
     Dunque il divino amor con questi sproni
nostra prostrata mente al ciel rileva,95
perché se stessa al fin non abbandoni.
     Questo grieve dolor del cor tuo lieva,
né prendi tanto danno a tua salute,
qual, se non ora, ad altra etá giugneva.

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     Non ti doler, se piú cose vedute100
quella non ha, o a piú tempo aggiunto;
ché piena d’ogni male è senettute.
     Tu lo pruovi or, e piú sapra ’lo appunto,
quanto piú lá ti condurrá tua Parca,
che ’l viver lieto è il vero mortal punto.105
     Quanto piú oltre nostra vita varca,
tanto truova al cammin piú duri i passi,
e di dannosa soma piú si carca.
     E poi giugnendo al nostro estremo lassi,
quando il tornar e ’l penter poco vale,110
conosciam chiaro aver perduti i passi.
     Ah quanto è troppo incomportabil male
quel tristo pentimento, che non giova!
e di piú alto cade, chi piú sale.
     Folle è colui, che quasi ognora pruova115
del mondo cieco qualche gabbo o inganno,
e stimal sempre, come cosa nuova.
     Ov’è minor affetto, è manco affanno:
ov’è manco speranza, è minor doglia:
quel che poco si prezza, fa men danno.120
     La troppa accesa e sviscerata voglia
della salute di tua figlia cara,
d’ogni dolcezza il cor tuo priva e spoglia.
     Da questo esemplo in tutti gli altri appara:
ricordati esser viro, onde s’appella125
quella virtú, ch’è tanto degna e chiara.
     Perché piú dura condizione è quella
della virtú per molti tempi esperta,
che dell’occulta, incognita e novella.
     Tanto piú diligenzia e sudor merta130
l’opra di quel, che opinione ha dato,
che sia la sua virtú piú ferma e certa.
     Piú s’aspetta da quel che ha piú provato;
anzi come per debito si chiede
l’operar grave, saggio e moderato.135

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     Poi che virtú tuo buon destin ti diede,
se in te stesso prima non fa’ l’opra,
ch’ad altri giovar possa, non si crede.
     Onde la miglior parte, ch’è di sopra,
la nebbia de’ sospir, l’acqua de’ pianti140
levi dagli occhi, sí che il sol si scuopra.
     Questo con gli splendor suoi radianti
scorga la guida di tua cara salma,
dove si gode in Ciel con gli altri santi,
     come conviensi a benemerit’alma.145