Opere (Lorenzo de' Medici)/XIV. Simposio ovvero i beoni/Capitolo VI.

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Capitolo VI.

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CAPITOLO VI


     Come campana che a distesa suona,
poi c’ha finito di sonar, si sente
un pezzo il rimbombar, quand’ella è buona:
     cosí il parlar di Strozzo veramente
resta agli orecchi spaventati e sordi;5
tal che udir piú non potevam niente.
     Pur ci svegliò cosí tristi e balordi
dua colle labra secche ed assetate,
con un valletto; anzi tre ebri tordi.
     Disse il mio duca: — Non fu fido Acate10
al pio Enea, come il Pecoraccia
e Anton Vettori tutta sua etate.
     Sí volentier il can lepre non caccia,
come costui e beccafichi e starne;
ed ogni ben per empierlo procaccia.15
     Questo di detto Anton può fede farne;
le labra molle e sempre acqua alla bocca:
tanto il mangiar gli giova e ’l ragionarne!
     Se fortuna una trappola gli scocca
che ’l Pecoraccia manchi a questa coppia,20
resteran poi come una cosa sciocca.
     Non ti dico del ber, perch’ei raddoppia,
come tu sai, quanto altri piú divora:
adunque come gli altri questo alloppia.
     Chi sia ’l compagno suo nol dico ancora,25
perché son certo lo conosci a punto.
Mal per lui, se a conoscer l’avessi ora.

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     Nell’arte nostra niun sí sottil punto,
è, che non l’abbino a perfezione:
per lunga sperienza v’hanno aggiunto.30
     E’ mi ricorda giá in disputazione
Bartol fe’ cheto star e ’l Belfradello,
quando gli dottorammo in collazione.
     Ve’ ser Agnol Bardin dolciato e bello,
il qual, per esser grasso, par suspinto;35
e l’uno e l’altro Tier ne vien con quello.
     — Colui che par di tanti pensier cinto
— diss’io al duca mio — dimmi chi sia,
c’ha il viso di verzin bagnato e tinto? —
     Rispose allor a me la scorta mia:40
— Né pensier ha, né quel vedi, è verzino:
ond’io non vo’ che in tanto error piú stia.
     Come al pane insalato il pecorino,
cosí il mio Arrigo al bere: e come ’l volto
giá è di vin, fia presto tutto vino.45
     — Chi è colui che non gli è drieto molto
con gran mascelle ed occhi di civetta,
che par che la mocceca l’abbi còlto?
     — Quel che tu di’, Baccio è di mona Betta:
se tu ’l vedessi a desco ben fornito,50
mocceca non parre’, sí ben s’assetta.
     Costui è ’l piú perfetto parassito
che noi abbiam, piú vero e naturale:
credo che allo spedal terre’ lo ’nvito.
     Certamente in quest’arte tanto vale,55
quanto alcun altro ch’io sappia o conosca.
Se quel che drieto gli è non l’ha per male.
     Botticel, la cui fama non è fosca,
Botticel dico, Botticello ingordo,
ch’è piú impronto e piú ghiotto ch’una mosca.60
     Oh di quante suo ciance mi ricordo!
S’egli è invitato a desinare o cena,
quel che l’invita non lo dice a sordo.

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     Non s’apre allo invitar la bocca appena,
ched al pappar la bocca sua non sogna;65
va Botticello e torna botte piena.
     Preso partito gli ha della vergogna:
e sol si duol che troppo corto ha il collo,
ché lo vorrebbe aver d’una cicogna.
     E’ non è mai sí pinzo e sí satollo,70
che non vi resti luogo a nova gente,
e dopo cena ha giá mangiato un pollo.
     Stu vedessi il suo corpo onnipotente
quanto e’ divora! e’ non ne porta piue
una galea che si stivi in Ponente.75
     Non piú di lui. Diciam di questi due,
che dove vanno, è sempre di vendemia:
guarda se a lor concessa è gran virtue.
     Sappi che al vino e’ sono una bestemia:
e duolsi l’un di questi dua arlotti,80
che ’l ben fare a suo modo non si premia;
     non veggon prima il vin, ch’ambo son cotti.
Ma bisogna sia presto per trist’occhio,
ch’è il comparone e ’l mio Ridolfo Lotti:
     il nostro comparon, ch’è piú capocchio,85
crebbe ventotto libbre alla baccale,
e restavagli a ber poi col finocchio.
     Qual maraviglia è, s’egli ha poi per male
non esser premiato? Io mi vergogno
ch’e’ non sia coronato carnesciale.90
     L’altro dormendo l’ho veduto in sogno,
in un sogno ch’io fe’ presso al mattino,
che gli cadea, non che la goccia, il cogno.
     Se son nimici capital del vino,
il vino è poi lor capital nimico,95
che al capo drizza il suo furor divino.
     Sbandito gli hanno la ciriegia e ’l fico
ed ogni cosa che non dá buon bere;
ciascun giovane è d’anni, al bere antico.

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     Allora io mi rivolsi al mio buon sere,100
e dissi: — Dimmi: chi è l’altra coppia,
che si son posti qui presso a sedere? —
     Disse ’l mio duca: — La gente raddoppia.
Quello sfibbiato è Pippo Giugni mio;
posasi un po’ che pel cammino scoppia.105
     E l’altro è ’l Pandolfin, c’ha gran disio
quell’arco dirizzar, se ’l gioco dura;
vienne calando al cavalier suo zio.
     Costui a libbre ’l vin, che bee, misura:
fu capitan della baccal battaglia,110
e degnamente prese quella cura.
     La sete lor non è fuoco di paglia,
né la sete bugiarda di Bertoldo,
ma naturale, e par ognor piú vaglia.
     Quel Pippo è veramente un manigoldo115
del vin, tanto ne ’mbotta e tanto s’empie;
che per la zucca poi svapora il soldo,
     e però sempre ha sucide le tempie.