Orlando innamorato/Libro primo/Canto ventesimonono

Da Wikisource.
Libro primo

Canto ventesimonono

../Canto ventesimottavo ../../Libro secondo IncludiIntestazione 22 settembre 2009 75% Poemi epici

Libro primo - Canto ventesimottavo Libro secondo

 
1   Ne l’altro canto io ve contai che Orlando
     Vide il bel pino a lato alla riviera,
     Dove la dama impesa lacrimando
     Avria mosso a pietate un cor di fiera;
     E mentre che lui stava riguardando,
     Quello altro campïon con voce altiera
     Gli disse: - Cavallier, va alla tua via,
     Né dare aiuto a quella dama ria.

2   La quale adesso ha ben tutta sua voglia,
     Poi che sta impesa con le chiome al vento,
     E voltasi leggier come una foglia;
     E ben fo questo sempre il suo talento:
     Or con vana speranza, or certa doglia
     Tenir li amanti in estremo tormento.
     Come al vento si volge per se stessa,
     Così sempre rivolse ogni promessa. -

3   Rispose il franco conte: - In veritate,
     Nella mia mente non posso pensare,
     Non che aprir gli occhi a tanta crudeltate;
     In ogni modo la voglio campare,
     Né credo che abbi in te tanta viltate,
     Che a questa cosa debbi contrastare.
     Se offeso sei e di vendetta hai brama,
     Ciò non conviene oprar sopra a una dama. -

4   - Questa donzella - disse il cavalliero
     - Fo sempre sì crudele e dispietata,
     E tanto vana e d’animo leggiero,
     Che drittamente è quivi condennata.
     Ma tu forse, baron, tu forastiero
     Non sai la istoria di questa contrata,
     Però pietà te muove a dar soccorso
     A quella che è crudel più che alcuno orso.

5   Ascolta, ch’io te prego, in qual mainera
     Ben iustamente e per dritta ragione
     Fosse nel pino impesa quella fiera.
     Lei nacque meco in una regïone,
     E fo per sua beltade tanto altiera,
     Che mai non fo mirato alcun pavone
     Che avesse più superbia nella coda,
     Quando la sparge al sole ed ha chi ’l loda.

6   Origille è il suo nome, e la citade
     Dove nascemmo Batria è nominata.
     Io l’amai sempre dalla prima etade,
     Come piacque a mia sorte isventurata;
     Lei or con sdegni, or con finta pietade,
     Promettendo e negando alcuna fiata,
     Me incese di tal fiamma a poco a poco,
     Che tutto ardevo, anzi ero io tutto un foco.

7   Un altro giovanetto ancor l’amava;
     Non più di me, ché più non se può dire,
     Ma giorni e notti sempre lacrimava,
     Quasi condutto a l’ultimo morire.
     Locrino il cavallier si nominava,
     Qual soffrea per amor tanto martìre,
     Che giorno e notte, lacrimando forte,
     Chiedea per suo ristor sempre la morte.

8   Lei l’uno e l’altro con bone parole
     E tristi fatti al laccio tenìa preso,
     Mostrandoci nel verno le vïole,
     E il giaccio nella state al sole acceso;
     E benché spesso, come far si suole,
     Fosse l’inganno suo da noi compreso,
     Non fo l’amor d’alcuno abandonato,
     Credendo più ciascuno essere amato.

9   Più volte avante a lei mi presentai,
     Formando le parole nel mio petto,
     Ma poi redirle non puote’ giamai,
     Ché, come io fu’ condutto al suo cospetto,
     Quel che pensato avea, domenticai,
     E sì perdei la voce e l’intelletto
     E tutti e sentimenti per vergogna,
     Ch’era il mio ragionar d’un om che sogna.

10 Pur mi diè amore al fin tanta baldanza,
     Che un tal parlare a lei da me fu mosso:
     "Se voi credesti, dolce mia speranza,
     Ch’io potessi soffrir quel che io non posso,
     E che la vita mia fosse a bastanza
     Del foco che m’ha roso insino a l’osso,
     Lasciati tal pensiero in abandono,
     Ché se aiuto non ho, morto già sono.

11 Ciò vi giuro, ed è vero, e non ve inganno;
     E pensar ben doveti in vostro core
     Che l’uom die’ sostener l’estremo danno
     Prima che ’l provi il suo amico maggiore;
     Perché essendo ingannato, ogni altro affanno,
     Anci la morte, è ben pena minore,
     Perché alla fine ogni martìre avanza
     Trovarsi vana l’ultima speranza.

12 Ben lo sa Dio che in altri non ho spene,
     E che voi seti quella che più amo;
     Soffrir non posso ormai cotante pene:
     A l’estremo dolor mercè vi chiamo.
     Camparme al vostro onor ben si conviene,
     Ché sol per voi servir la vita bramo,
     E, se aiuto non dati al mio gran male,
     Io moro, e voi perdeti un cor leale."

13 Non fuor queste parole simulate,
     Anci tratte al mio cor della radice;
     Lei, che femina è ben in veritate,
     (Che tutte son peggior che non se dice),
     Fece risposta con gran falsitate,
     Per farme più dolente ed infelice,
     Dicendo: "Uldarno - (ché così mi chiamo)
     - Più che ’l mio spirto e più che gli occhi v’amo.

14 E se io potessi mostrarne la prova,
     Come io posso in voce proferire,
     Cosa non ho nel cor che sì me mova,
     Quanto al vostro desio poter servire;
     E se alcun modo o forma se ritrova,
     Ch’io possa contentar questo disire,
     Io sono apparecchiata a tutte l’ore,
     Pur che si servi insieme il nostro onore.

15 Ma certamente io vedo una sol via
     (Volendo, come io dico, riservare
     Nel vostro onor la nominanza mia)
     Che ce possiamo insieme ritrovare.
     Come sapete, la fortuna ria
     Fece a la morte insieme disfidare
     Oringo, il cavallier tanto inumano,
     Contra a Corbino, mio franco germano.

16 E fo quel damigello al campo morto,
     Dico Corbino, e contra alla ragione,
     Ché ancor non era ben ne l’arme scorto,
     E l’altro fo più volte al parangone.
     Ora per vendicar cotanto torto
     Mio patre va cercando un campïone,
     Proferendo a ciascuno estremo merto,
     Ed hal trovato, o trovaral di certo.

17 Voi, che portate adunque l’arme indosso
     D’Oringo e la sua insegna e il suo cimero,
     Fuor de la terra vi serete mosso,
     Là dove scontrarete un cavalliero.
     Poi che l’un l’altro ve areti percosso,
     Pigliar vi lasciareti di legiero,
     E questo è solo il modo e la maniera
     A far contenta vostra voglia intiera.

18 Però che quivi sereti menato
     Da l’altro cavallier, che ve avrà preso;
     Sotto mia guarda stareti legato,
     E non temeti già de essere offeso,
     Ché a vostra posta vi darò combiato.
     E benché ’l patre mio sia d’ira acceso,
     Ed abbia molta voluntate e fretta
     Di far del suo figliolo aspra vendetta,

19 Nulla di manco ho già preso il partito
     Di poter vosco alquanto dimorare,
     Poi mostrarò che via siati fuggito."
     Così la falsa m’ebbe a ragionare,
     Ed io ben presto presi questo invito,
     Né a periglio o fatica ebbi a pensare,
     Ché, per trovarme seco ad un sol loco,
     Passato avria per mezo un mar di foco.

20 Addobbato mi fu’ subitamente
     L’arme de Oringo ed ogni sua divisa;
     Ma, come io fu’ partito, incontinente
     Costei, che del mio mal facea gran risa,
     Come quella che è troppo fraudolente
     E perfida e crudel for d’ogni guisa,
     Partito, come io dico, a lei davante,
     Fece chiamare a sé quell’altro amante.

21 Ciò fu Locrino, de chi ragionai,
     Che a un tempo meco questa falsa amava,
     E con promesse e con parole assai,
     Come sapea ben far, lo alosingava,
     Dicendo, se sperar dovea giamai
     Guidardon de l’amor che gli mostrava,
     Che per un giorno sia suo campïone:
     Dïagli Oringo morto, o ver pregione.

22 Il loco li raconta, ove mandato
     M’avea lei stessa fuor de la citate,
     E tanto fece al fin, che l’ebbe armato
     De insegne contrafatte e divisate,
     E fuora venne per trovarmi al prato.
     Nel scudo verde ha due corne dorate
     E nella sopravesta e nel cimiero,
     Come portava un altro cavalliero.

23 Quel cavallier avea nome Arïante,
     Che per insegna le corne portava,
     Tanto animoso e di membre aiutante
     Che forse un altro par non attrovava.
     Questo era d’Origille anco esso amante,
     Ed averla per moglie procacciava;
     E già col patre de essa stabilito
     Avea per patto d’esser suo marito.

24 Ma prima Oringo dovea conquistare,
     Ed a lui presentarlo, o morto o preso.
     Or, per far breve il nostro ragionare,
     Questo ne venne a quel prato, disteso,
     Là dove io stava armato ad aspettare:
     Dopo lieve battaglia io mi fui reso.
     Credendo a questa falsa esser menato,
     Feci poca diffesa e fui pigliato.

25 Locrino, in questo tempo, il giovanetto,
     Nel vero Oringo a caso fu inscontrato,
     Né menarno la zuffa da diletto,
     Questo d’amore e quel ch’era infiammato.
     Fu ferito Locrino a mezo il petto,
     Oringo nella testa e nel costato;
     E fu l’assalto lor sì crudo e forte,
     Che ciascun d’essi quasi ebbe la morte;

26 Abench’al fine Oringo fu pregione,
     Ché uno amoroso cor vince ogni cosa.
     Ora intervenne che ’l crudo vecchione,
     Il quale è patre a questa dolorosa,
     Avea di far vendetta il cor fellone,
     E notte e giorno mai non stava in posa.
     Sempre guardando, cerca con gran pena
     Se ’l suo campione Oringo ancor li mena.

27 Ed ecco avanti lo vide venire,
     Con la man disarmata e senza brando,
     Come colui ch’è preso, a non mentire.
     Andogli incontra pallido e tremando,
     E apena se ritenne de ferire;
     Ma poi, dapresso con lor ragionando,
     Cognobbe nella voce e nel sembiante
     Che Locrino era quel, non Arïante.

28 Ben sapea il vecchio che quel giovanetto
     La sua figliola avea molto ad amare,
     E però gli diceva: "Io ti prometto,
     Se questo tuo pregion me vôi donare,
     Contento ti farò di quel diletto
     Qual più nel mondo mostri desïare.
     Se vero è che mia figlia cotanto ami,
     Io te contentarò di quel che brami."

29 Locrino paccio fu presto accordato,
     Benché darli il pregion non gli era onore;
     Tanto già lui d’amore era spronato,
     Che gli avria dato parte del suo core.
     Essendo già tra lor fatto il mercato,
     La nostra gionta gli pose in errore,
     Perché Arïante ed io, che ero pregione,
     Giongemmo avanti a quel crudo vecchione.

30 Quivi la cosa fu tutta palese
     E la cagion de l’arme tramutate.
     Alora Oringo molto me riprese,
     Che in dosso le sue insegne avea portate;
     E tra noi quattro fur molte contese,
     E quasi ne venemmo a trar le spate,
     Perché Arïante ancor se lamentava
     Pur de Locrin, che sua insegna portava.

31 Nel regno nostro è legge manifesta
     Che chiunque porta scudo o ver cimero
     D’un altro campïone o d’altra gesta,
     È disfamato con gran vitupero,
     E se non ha perdon, perde la testa.
     Benché ’l statuto sia crudele e fero,
     Ché la pena è maggior che la fallanza,
     Pur è servata per antiqua usanza.

32 Avanti al re fu tratta la querella;
     Il qual, veggendo tutta la cagione
     Essere uscita da questa donzella,
     Qual li avea indotto a quella guarnisone,
     E con le insegne altrui montare in sella,
     Prese consiglio, con molta ragione,
     Che, avendo ogniom di noi fatto gran male,
     Tutti dian voce a pena capitale:

33 Oringo, perché morto avea Corbino,
     Ch’era garzone, e lui già di gran fama;
     Ed Arïante, sì come assassino,
     Qual per avere il prezo d’una dama
     Avea promesso a quel vecchio mastino
     La morte di colui che tanto brama.
     Così meco Locrino ad una guisa,
     Ché avevamo portata altrui divisa.

34 Sì iudicati tutti quattro a morte,
     Fummo obligati sotto a sacramento
     Non uscir for de Batria delle porte,
     Sin che non è il iudicio a compimento;
     E fece il re da poi ponere a sorte
     Chi menar debba la dama al tormento,
     Perché lei, che è cagion di tanto errore,
     Non aggia morte, ma pena maggiore.

35 Come tu vedi, per le chiome impesa
     Sopra a quel pino al vento se trastulla,
     E per farla campare è bene attesa
     D’ogni vivanda, e non gli manca nulla.
     La prima sorte a me dette la impresa
     De stare in guardia alla falsa fanciulla,
     E così già tre giorni ho combattuto
     Contra a ciascun che gli vuol dare aiuto.

36 E sette cavallieri ho tratto a fine:
     E nomi tutti non te vo’ contare;
     Mira quei scudi e l’armi peregrine,
     Qual ciascadun di lor suolea portare.
     Tutti han perduto l’anime tapine
     Per voler questa dama liberare;
     Il scudo de ciascuno e l’elmo e ’l corno
     Sono attaccati a quel troncon d’intorno.

37 E se caso averrà ch’io pur sia morto,
     Oringo e poi Locrino ed Arïante
     Verran l’un dopo l’altro a questo porto,
     Ciascun di me più fiero ed aiutante;
     E però, cavalliero, io te conforto
     Che non te curi di passare avante,
     Perché qualunche al ponte non se attiene,
     Aver battaglia meco li conviene. -

38 Orlando stava attento al cavalliero
     Che avea contata lunga diceria;
     Ma la donzella da quel pino altiero
     Forte piangendo il cavallier mentia,
     Dicendo che malvaggio era e sì fiero,
     Che la tormenta sol per fellonia,
     E perché è dama e non può far diffesa,
     La tien per crudeltate al pino appesa.

39 E che sette baroni a tradimento
     Aveva occiso, e non per sua virtute,
     E per dar tema agli altri e gran spavento
     Tenea quei scudi in mostra e le barbute.
     Così dicea la dama, e con lamento
     Parlava al conte per la sua salute,
     Per Dio pregando e sempre per pietate,
     Che non la lasci in tanta crudeltate.

40 Non stette Orlando già molto a pensare,
     Perché pietà lo mosse incontinente,
     Dicendo a Uldarno o che l’abbia a spiccare,
     O che prenda battaglia di presente.
     Così l’un l’altro s’ebbe a disfidare;
     Ciascadun volta il suo destrier corrente,
     E vengonsi a ferir con cruda guerra:
     Al primo incontro Orlando il pose in terra.

41 Poi che fu il cavallier caduto al piano,
     Il conte prestamente al pino andava.
     Sopra una torre a quel ponte era un nano,
     Che incontinente un gran corno suonava;
     Dopo quel suono apparve a mano a mano
     Un cavalliero armato, che cridava,
     E morte al conte e gran pena minaccia,
     Se s’avicina al pino a vinte braccia.

42 Il conte aveva integra ancor sua lanza;
     Presto se volta, e quella al fianco arresta,
     E ferisce al baron con tal possanza,
     Che sopra al prato il fie’ batter la testa.
     Ma far nova battaglia ancor gli avanza,
     Ché ’l nano suona il corno a gran tempesta,
     E gionge il terzo cavalliero armato:
     Sì come gli altri andò disteso al prato.

43 Sopra la torre il nano il corno suona:
     Il quarto cavallier ne vien palese.
     Orlando contra lui forte sperona,
     E con fraccasso a terra lo distese.
     Poi tutti come morti li abandona,
     E passa il ponte senza altre contese,
     E gionge al pino e smonta della sella:
     Salisce al tronco e spicca la donzella.

44 Giù per le rame la portava in braccio,
     E quella dama lo prese a pregare,
     Poiché tratta l’avea di tale impaccio,
     Che via con seco la voglia portare,
     Perché di lei serìa fatto gran straccio,
     Se quivi se lasciasse ritrovare.
     Orlando la assicura e la conforta,
     In croppa se la pone, e via la porta.

45 Era la dama di estrema beltate,
     Malicïosa e di losinghe piena;
     Le lacrime teneva apparecchiate
     Sempre a sua posta, com’acqua di vena.
     Promessa non fie’ mai con veritate,
     Mostrando a ciascadun faccia serena;
     E se in un giorno avesse mille amanti,
     Tutti li beffa con dolci sembianti.

46 Come io dissi, la porta il conte Orlando;
     E già partito essendo di quel loco,
     Lei con dolci parole ragionando
     Lo incese del suo amore a poco a poco.
     Esso non se ne avide e, rivoltando
     Pur spesso il viso a lei, prende più foco,
     E sì novo piacer gli entra nel core,
     Che non ramenta più l’antiquo amore.

47 La dama ben s’accorse incontinente,
     Come colei che è scorta oltra misura,
     Che quel baron d’amore è tutto ardente,
     Onde a infiamarlo più pone ogni cura;
     E con bei motti e con faccia ridente
     A ragionar con seco lo assicura;
     Però che ’l conte, ch’era mal usato,
     D’amor parlava come insonnïato.

48 Mille anni pare a lui che asconda il sole,
     Per non avere al scur tanta vergogna;
     Perché, benché non sappia dir parole,
     Pur spera de far fatti alla bisogna;
     Ma sol quel tempo d’aspettar gli dole,
     E fra se stesso quel giorno rampogna,
     Qual più de gli altri gli par longo assai,
     Né a quella sera crede gionger mai.

49 E così cavalcando a passo a passo,
     Ragionando più cose intra di loro,
     A mezo il prato ritrovarno un sasso,
     Che è scritto tutto intorno a littre d’oro,
     E trenta gradi, dalla cima al basso,
     Avea tagliato con netto lavoro;
     Per questi gradi in cima se saliva
     A quel petron, che asembra fiamma viva.

50 Disse la dama al conte: - Or te assicura,
     Se hai, come io credo, la virtù soprana,
     Che in questo sasso è la maggior ventura
     Che sia nel mondo tutto, e la più strana.
     Monta quei gradi e sopra quella altura:
     La pietra è aperta a guisa di fontana;
     Ivi te appoggia, e giù callando il viso
     Vedrai l’inferno e tutto il paradiso. -

51 Il conte non vi fece altro pensiero:
     Certo il demonio e Dio veder si crede,
     Ed alla dama lascia il suo destriero.
     Lei, come gionto sopra il sasso il vede,
     Forte ridendo disse: - Cavalliero,
     Non so se seti usato a gire a piede,
     Ma so ben dir che usar ve gli conviene:
     Io vado in qua; Dio ve conduca bene. -

52 Così dicendo volta per quel prato,
     E via fuggendo va la falsa dama.
     Rimase il conte tutto smemorato,
     E sé fuor d’intelletto e paccio chiama,
     Benché serìa ciascun stato ingannato,
     Ché di legier si crede a quel che s’ama;
     Ma lui la colpa dà pure a se stesso,
     Locchio e balordo nomandosi spesso.

53 Non sa più che se fare il paladino,
     Poi che perduto è il suo bon Brigliadoro.
     Torna a guardare il sasso marmorino,
     E va leggendo quelle littre d’oro.
     Quivi ritrova che sepolto è Nino,
     Qual fu già re di questo tenitoro,
     E fece Ninivè, l’alta citate,
     Che in ogni verso è lunga tre giornate.

54 Ma lui, che de guardare ha poca cura,
     Poi che ha perduto il suo destrier soprano,
     Smonta dolente della sepoltura;
     E, caminando a piede per il piano,
     La notte gionge e tutto il cel se oscura.
     Vede una gente, e non molto lontano;
     E così andando ognior più s’avicina,
     Perché la gente verso lui camina.

55 Dirovi tutta quanta poi la cosa,
     Qual gli incontrò, quando fu gionto al gioco,
     E serà di piacere e dilettosa;
     Ma poi la contaremo in altro loco,
     Perché il cantar della storia amorosa
     È necessario abandonare un poco,
     Per ritornare a Carlo imperatore,
     E ricontarvi cosa assai maggiore.

56 Cosa maggior, né di gloria cotanta
     Fu giamai scritta, né di più diletto,
     Ché del novo Rugier quivi si canta,
     Qual fu d’ogni virtute il più perfetto
     Di qualunche altro che al mondo si vanta.
     Sì che, segnori, ad ascoltar vi aspetto,
     Per farvi di piacer la mente sazia,
     Se Dio mi serva al fin la usata grazia.