Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/259

Da Wikisource.

atto terzo 251

          quel che dice ’l diverbio che «de rebus
          que male diviserunt?wn gaudebis
          tertius heredes».
          Crisaulo  Va’; sta’ pur discosto:
          meco non partirai.
          Pilastrino  Oh che dolcezza
          a maneggiar queste patacche gialle!
          Ne giova piú che del fuoco l’inverno
          e del fresco l’estate e d’un buon greco
          quando son riscaldato nel parlare.
          i Oro, piú dolce che ’l zuccaro e ’l mele
          e piú assai che ’l mangiare a la taverna
          e poi dormire! perché, senza questi,
          quel paradiso è chiuso e ne intraviene
          com’a’ viandanti, ne’ tempi di peste,
          senza la fede. Io non vorrei qui, ora,
          il piú bel cui che mai mostrasse augello
          pelato ne lo spiedi o ver di donna
          vergine abbracciamenti. Questo è degno
          piú d’ogni cosa e tanto dolce e amabile
          che mi fa tutto qui struggere in oglio.
          Or non mi meraviglio se quel vecchio
          tanto è vivuto piú che non deveva
          senza mangiare o ber; perché mi penso
          che si pascesse d’está dolcitudine,
          come farebbe ognun.
          Crisaulo  Guarda che in te
          non facciano il contrario; che, anzi ’l tempo,
          non ti faccin morir con un capestro:
          che sai ben che a la fin...
          Pilastrino  Tu hai poco ingegno.
          Dch! Non mi ricordare i morti, a tavola.
          Or credo ben che quel Giupiter, Giove,
          quando s’innamorò, si rivolgesse
          in questa forma. Guarda gran fatica
          ch’ebbe, a far ch’una donna l’abbracciasse!