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Pagina:AA.VV. - Commedie del Cinquecento, Vol. I, Laterza, 1912.djvu/30

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22 la calandria


Samia. Fulvia.

Ruffo. Donna di Calandro?

Samia. Quella, si.

Ruffo. Che vuol da me?

Samia. Ella tei dirá.

Ruffo. Non sta la su la piazza?

Samia. Ci son due passi. Andianne.

Ruffo. Vattene innanzi ed io drieto a te ne vengo. Sarebbe mai costei nel numero dell’altre scempie a credere che io sia negromante e abbia quello spirito che molte sciocche dicano? Non posso errare ad intendere quel che la vuole. Ed in casa sua me n’entro prima che qui arrivi colui che in qua viene.

SCENA VII

Fessenio servo, Calandro.

Fessenio. Or vedo ben che ancor li dèi hanno, come li mortali, del buffone. Ecco, Amore, che suole inviscare solo i cori gentili, s’è in Calandro pecora posto, che da lui non si parte; che ben mostra Cupido aver poca faccenda poi che entra in si egregio babuasso. Ma il fa perché costui sia tra gli amanti come l’asino tra le scimie. E forse che non l’ha messo in bone mane? Ma la piuma è cascata nella pania.

Calandro. O Fessenio! Fessenio!

Fessenio. Chi mi chiama? Oh padrone!

Calandro. Hai tu vista Santilla?

Fessenio. Ho.

Calandro. Che te ne pare?

Fessenio. Tu hai gusto. In fine, io credo che ’l fatto suo sia la piú sollazzevol cosa che si trovi in Maremma. Fa’ ogni cosa per ottenerla.

Calandro. Io l’arò, se io dovessi andar nudo e scalzo.

Fessenio. Imparate, amanti, questi bei detti.

Calandro. Se io l’ho mai, tutta me la mangerò.