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140 l’aridosia


Erminio. Oh Dio! La poverina debbe essere fuor di sé.

Lucido. Fuor di te sei tu.

Erminio. Che ho io a far, Lucido?

Lucido. Adesso avete a desinare. Poi penseremo quel che sia da fare. Io vi ricordo che ’l darsi tanto dispiacere delle cose non serve ad altro che a farsi male.

Erminio. I’ non posso far altro. Tu hai un bel dir, tu, che non ci hai passione nissuna!

Lucido. Dunque credete voi che le vostre passioni non sien passioni ancor a me? V vi giuro che, tutta questa notte, non ho mai dormito per pensare a qualche via che vi liberi da tanta molestia e vi contenti. Ed ancora non mi dispero di poter trovar qualcosa di buono.

Erminio. Eh! Dio el volessi!

Lucido. Andiamo adesso a desinare, che Tiberio v’aspetta.

Erminio. E dove è Tiberio?

Lucido. Lá drento, colla sua bracciata. E fate conto che adesso sono a’ ferri.

Erminio. Oh infelice a me! Lui, che non ha commoditá nissuna e che ha un padre si ritroso, senza danari, senza pratiche, si gode li sua amori; ed a me, che ho tutte queste cose ed ogni omo propizio, mi mancano colla speranza insieme d’averli piú a godere.

Lucido. Lassatela adesso passare e desinate in pace. Poi penseremo a qualche cosa. Voi sapete che la fortuna aiuta i giovani.

Erminio. Tu hai una gran cura che questo desinar non si freddi. Per l’amor di Dio, va’ ordina. Io son qui innanzi all’uscio. Chiamami.

Lucido. Questo importa un po’ piú.

Erminio. Io vo meco medesimo spesso pensando quella che, nello amore, sia di queste dua piú infelice condizione: o l’amare senza essere amato; o, amando e sendo amato, e desiderando una medesima cosa, essere proibito da muri, ferri, porte e guardie, come io provo con Fiammetta mia la qual so che non ha altro desiderio che trovarsi meco. Ed al fine io mi risolvo che la mia è piú infelice sorte: perché, non ostante che ci sia el