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102 | vii - cecco angiolieri |
LXXVIII
Infatti, il poeta fa esperienza di quest’amara veritá.
Or udite, signor, s’i’ ho ragione
ben di dovermi impiccar per la gola:
poi che la povertá mi tèn a scola,
4madonna m’ha piú a vile, ch’un muscione;
ché l’ho sincerata a molte stagione,
e quando accompagnata e quando sola:
e, s’eo li dico pur una parola,
8mi fa vergogna piú, ch’a un ladrone.
E tutto mel fa far la povertate!
Quand’avea denar, non solea venire,
11poi ch’avea en borsa la gran degnitate:
ciò è ’l fioriti, che fammi risbaldire,
ed a mia donna mi tòl la viltatc,
14quando non dice che mi vói servire.
LXXIX
E si dispera perché non ha quattrini in tasca.
Un danaio, non che far cottardita,
avessi sol, tristo’ ne la mia borsa:
ché mi convèn far di quelle de l’orsa,
4che per la fame si lecca le dita;
e non avrò giá tanto a la mia vita,
o lasso me! ch’io ne faccia gran torsa,
da poi che la ventura m’è si scorsa,
8ch’andando per la via ogn’uom m’addita.
Or dunque, che vita sará la mia,
se non di comperare una ritorta
11e d’appiccarmi sopr’esso una via,
e lar tutte le morti ad una volta,
ell’i’ne fo ben cento milia la dia?
14Ma solo il gran peccato mi sconforta.