Pagina:AA. VV. – Sonetti burleschi e realistici dei primi due secoli, Vol. I, 1920 – BEIC 1928288.djvu/26

Da Wikisource.
20 i - rustico filippi

XXXVIII

Le sue pene amorose sono grandi fuor d’ogni paragone.

L’affanno e ’l gran dolor, ch’io meco porto,
mi dovria mille fiate avere auciso;
ma, per la dismisura, non son morto:
4ché men dolor m’avria morto e conquiso.
Ch’io son degli smarruti capo e porto,
si come d’ogni gioia paradiso;
adunque, chi ha pena e disconforto
8con meco in nullo logo sia commiso.
Per ch’io voglio esser de l’altrui mal miro,
e voglio a ciaschedun dar guerisgione,
11veggendo lo mio pianto e lo sospiro.
Non avran mai dolor né pensasgione,
tant’è lo male, ch’io con meco tiro:
14per che di meo morir non è stasgione.

XXXIX

Se il suo cuor dolente parlasse, per la pietá farebbe piangere Amore.

Tant’è lo core meo pien di dolore
e tant’è forte la doglia, ch’eo sento,
ca, se de la mia pena mi lamento,
4la lingua il dice si, che par dolzore.
A me fora mistier che lo mio core
parlass’e che mostrasse il suo tormento:
eo credo certo, sanza fallimento,
8ca di pietá ne piangerebbe Amore.
Oi core meo e occhi, che farete?
Cor, come sofferrai dolor cotanto,
11ed occhi, voi, che si spesso piangete?
Amor, merzé, ch’alleni lo mio pianto;
e voi per Dio, madonna, provvedete,
14ché lo dolor del cor ritorni in canto.