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92 | vii - cecco angiolieri |
LVIII
Se ha perduto l’amore della donna, ben gli sta: è colpa sua propria.
Io vorre’ ’nanzi ’n grazia ritornare
di quella donna, che m’ha’n signoria,
com’io fu’giá, ch’i’non vorrei trovare
4un fiume, che menass’òr tuttavia:
ché non è cuor, che potessi pensare
quanta allegrezza sarebbe la mia;
ed or sanza ’l su’ amor mi pare stare
8come colu’, cli’a la morte s’avvia.
Avvegna ched e’m’è bene’nvestito,
ché io medesmo la colpa me n’abbo,
11po’ch’i’non fo vendetta del marito,
che le fa peggio, ch’a me non fa ’l babbo:
ed io, dolente! son si’mpoverito,
14ch’udendol dir si me ne rido e gabbo.
LIX
Quest’amara veritá gli ripete la stessa Becchiua.
— Becchina, poi che tu mi fosti tolta,
che giá è du’ anni e páionmi ben cento,
sempre l’anima mia è stata ’nvolta
4d’angoscia, di dolor e di tormento.
— Cecco, la pena tua credo sia molta,
ma piú sarebbe per lo mi’talento;
s’i’dico tort’o dritto, pur ascolta:
8perché non hai chi mi ti tolse spento?
— Becchina, ’l core non mi può soffrire,
po’ che per tua cagion ebbe la gioia,
11a neun modo, di farlo morire.
— Cecco, s’una cittá come fu Troia
oggima’ mi donassi, a lo ver dire,
14non la vorre’ per cavarti di noia. —