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326 lirici marinisti

VIII

LA LAVANDAIA

     Su quel margo mirai donna, anzi dea,
succinta in veste, il crin disciolto ai venti,
ch’assisa in curvo pin fra i puri argenti
gl’immondi panni al fiumicel tergea.
     Se da l’umido lin l’onde spremea
la mano al cui candor le nevi algenti
s’annerano, il ruscel con rochi accenti,
amando la prigion, sciolto fremea.
     Piú pure a lei correan l’acque sul lido,
ch’ai volto la credean di Cipro il nume
che le bende lavasse al suo Cupido.
     Di beltá cosí rara al dolce lume
arsi tradito in elemento infido,
e crebbi le mie fiamme in mezzo al fiume.

IX

ALL’ADIGE

     Figlio de l’Alpi, ondoso peregrino,
che con orme di gel stampi il viaggio,
e qual umido serpe ov’hai passaggio
lasci strisce d’argento in sul camino;
     al tuo liquido vetro e cristallino
l’olmo s’inchioma e si riveste il faggio;
a la tua reggia illustre eterno omaggio
paga divoto ogni ruscel vicino.
     Dal mormorio che formi in son sí chiaro,
tanto m’alletti il senso e l’alma bèi,
ch’io, benché mergo, esser canoro imparo.
     Per tue glorie emular dir piú devrei;
ma che scriver poss’io, se dolci al paro
non son de l’acque tue gl’inchiostri miei?