Pagina:AA. VV. - Lirici marinisti.djvu/450

Da Wikisource.
444 lirici marinisti

     Pruine di cerussa ella delude
e di cinabro invetrïate fiamme,
ché non piú brama adulterar le mamme
e vuol di stranio ardor le gote ignude.
     Sdegna quanto pria volle. Al mar di Gnido
non piú le squadre imprigionate invola,
né per servir l’ambizïosa gola
agli augelli di Colchi insidia il nido.
     Giá le crapule sue son l’astinenze
per dar legge frugale a’ lussi sciolti;
richiama a sanitá sensi piú stolti
e dánno economie le penitenze.
     Le dovizie detesta e le divide
a povertá, ch’è della fame afflitta;
cieca spelonca agli anni suoi prescritta,
agli anni suoi bel paradiso arride.
     Fugge dalle cittá, fugge alle selve
e cangia in cavo speco i suoi palagi;
e se gli uomini pria trovò malvagi,
ora bontá san palesar le belve.
     Tra l’angustie piú corte aduna i passi
ed ama calpestar dumi spinosi.
Vuol poi, per disturbar lenti riposi,
piume le paglie ed origlieri i sassi.
     Qui su roso macigno altar dispone,
dove invece d’incenso offre i sospiri,
e con ostie di sangue e di martíri
memorie di clemenza al cielo espone.
     Vive cosí piú lustri. Ed un sol grato
raggio consolator appena vede,
ed ha, s’è d’ombre eterne un antro erede,
sepolcro alla sua morte anticipato.
     Del manto a lei co’ piú sdruciti velli
tempo divorator non fa piú scudo;
ma pure all’onestá del corpo ignudo
fanno splendida veste i suoi capelli.