che da ogni lato si distendono e circondano un’altura elittica, pure
tutta sparsa di attendamenti, e la cui vetta è cinta da una muraglia
sulla quale si innalzano alcune acacie e qualche tetto conico.
È questa la reggia; è là che fra pochi minuti ci troveremo
al cospetto del re dei re. Attraversiamo il forte dell’accampamento;
tende e capanne meschine, ma a migliaia; soldati che
se ne stanno rannicchiati a crocchi, altri che ci vengono incontro
per curiosità, donne che lavorano alla farina, al pane, al tecc,
altri che stanno costruendo il loro tugurio. Il movimento e
l’originalità non sono certo gli elementi che fanno difetto; peccato
che gli occhi nostri non bastino ad abbracciare tanta immensità
di cose belle, nuove, grandiose, e tanto meno la penna
possa ritrarle in modo da rendere solo una lontana idea di quanto
ci si parava dinanzi. A pochi passi dalla vetta ci fermiamo e
scendiamo da cavallo; una folla immensa ne circonda e mille
commenti si fanno su noi; siamo invitati a proseguire. Un imberbe,
dall’occhio vivace e dal naso arcuato ne viene incontro,
saluta con enfasi Naretti e ci annuncia che eravamo aspettati
solo domani; è il primo cerimoniere di Sua Maestà. Per una piccola
porta custodita da soldati entriamo nella cinta; attraversiamo
un gran tucul in cui stanno molti soldati seduti a discutere e giuocare
e custodire le artiglierie che scorgiamo in un angolo; passiamo
in altro vasto tucul in cui stanno cavalli e mule del re e
il trono delle udienze coperto con tela, ma del quale mi è dato
scorgere qualche lembo di stoffa di seta e ricami in argento. Il
momento sublime è imminente e l’emozione prende una gran
parte alla freddezza che sarebbe necessaria, quando per osservare
si vorrebbe essere tutt’occhi e tutt’orecchi. Usciti da questo secondo
tucul, a pochi passi se ne presenta un terzo in cui siamo
immediatamente ammessi; piccolino, ma di una eleganza originale;
il suolo coperto da tappeti d’Europa: sopra un divano fra
cuscini di seta, accovacciato all’abissinese, avvolto nel suo scemma,