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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/130

Da Wikisource.

liii
     Qual più ricco trofeo, qual spoglia opima
Può bramare in fra noi duce onorato
Che ’l vedersi ripor di lode in cima
Dallo istesso parlar che l’ha sprezzato?
E doppiato l’onor che aveva in prima
Dalla medesma man che l’ha furato?
E sentirsi chiamar per sua difesa
Da chi fatta gli avea primiero offesa?
liv
     Scacciate, alto guerrier, l’ira e lo sdegno,
E del re ricevete il prego umile:
Che ’l soverchio esser duro passa il segno
Del generoso spirito e gentile,
E d’orgoglioso nome si fa degno
Vie più che di magnanimo e virile;
Chè come il contrastare è bel talora
Così ’l non ceder mai si biasma ognora.
lv
     Di mille alte vittorie ornato sète
Più d’altro cavalier sotto la luna:
Ma il numero maggior comune avete
Con l’arme, co i guerrier, con la fortuna;
Or, se voi sol voi stesso vincerete,
Nè di lor nè d’altrui fia parte alcuna:
Vostro il consiglio fia, l’opra e la palma
E del divino onor l’eterna salma.
lvi
     Fate ch’ei corra il grido in ogni parte
Che ’n voi sia più che gemino il valore,
E se l’armata man non cede a Marte
Non s’arrende a minerva il saggio core;
E che la cortesia, le grazie sparte
In qual regno mai fu di vero amore
Verso il patrio terreno e i signor suoi
Più ch’altrove già mai splendano in voi;
lvii
     E prendete or del re le rare offerte,
Non perch’un tal guerrier l’apprezzi molto
Nè perchè ’l vostro ardir vie più non merte,
Ch’ha il duro giogo alla Britannia tolto;
Ma per far de’ mortai le menti certe
Ch’avete un cotal re con pace accolto
Come fa il peccator grazia divina
Che co i devoti doni a lei s’inchina.
lviii
     Nè vogliate soffrir che tali amici,
Qual vedete noi tre che quinci semo,
Riportiamo aspri detti a gli infelici
E compagni e signor nel punto estremo:
Ma che saran più che già mai felici
Per l’oprar vostro, e ’l rio Clodasso scemo
D’ogni sua terra, e l’empio Segurano
Avrà con meno ardir più lenta mano.
lix
     Qui finio Maligante, e ’n tai parole
Il duro Lancilotto gli rispose:
Perchè sprezzando il dir, dell’opre sole
Alto desire in me natura pose,
Voi, che sète fra noi lo speglio e ’l sole
Del saggio dimostrar le altere cose,
Scusate il mio parlar semplice e greve,
S’assai fia del dever più rozzo e breve.
lx
     Non pensate o famoso re di Gorre,
Che mai più per Arturo io stringa spada,
Nè ch’io possa anco mai lo sdegno porre
Sì ch’al cospetto suo chiamato vada:
Onde altre forze al suo periglio sciorre,
Altra aita procacce, e in altra strada
Cerchi i suoi buon guerrier, cerchi Gaveno
Che in largo minacciar tien gli altri a freno;
lxi
     Chè l’altezza del cor, la cortesia
Ch’è compagna la valor, come diceste,
Usar conviene ove raccolta sia
Dall’alme chiare e non a i buon moleste
A cui invidia e viltà chiuggia la via
Di discernere il ben, qual voi vedeste
Avvenir d’esso a me, che l’altro giorno
Ebbi del bene oprar vergogna e scorno,
lxii
     Ch’or con prezzo vilissimo l’ingrato
Pensa di ristorar di terra e d’oro:
Nè si ricorda ben ch’io sono usato
Di dare, e non di tòr, regni e tesoro;
E senza suoi guerrieri o legno armato
D’Euro al nido lontan, d’Austro e di Coro
Non mi manca l’ardir di farmi strada
Col mio buon Galealto e con la spada.
lxiii
     Nè voglio io Logadante, la sorella
Di Ginevra onorata, aver mogliera,
Come troppo per me leggiadra e bella,
Di virtude, d’onor, di sangue altera.
D’altrui sia sposa a cui benigna stella
Il cielo allumi, e non turbata e fera
Come a me face ognor, sì ch’aggia vita,
Quant’io bassa e ’nfelice, alta e gradita.
lxiv
     E s’alcun mi dirà che la pietate
Ch’aver debbo di voi m’aggiunga sprone,
Risponderò che a torto fabbricate
Del vostro mal voi stessi la cagione.
E perchè folli omai non ritrovate
Ciascun la sua nativa regione
Più tosto che servire ingrato ed empio
Che si fa sol onor del vostro scempio?
lxv
     E, se non fosse pur ch’io temerei
D’esser tenuto vil da Segurano,
Son molti giorni omai ch’io calcherei
Altro nuovo sentier di qui lontano:
Sì che con mio dolor non udirei
Chi di servo tornar mi prega in vano:
E col breve poter che sarìa meco
Forse avria di me luce il mondo cieco.
lxvi
     Or potete tornar, diletti frati,
E di noi riportar la ferma voglia,
Certi d’esser da me non meno amati
Che le sue proprie luci e ’l cor si soglia.
Restan dell’alme lor quasi privati
I tre buon cavalier, colmi di doglia,
Udendo il fer voler di Lancilotto
Ch’avea già il suo parlar tacendo rotto.