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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/186

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lxxxi
     Risponde Marabon della Riviera,
Che ’l cercava per tutto: Egli è vicino
Della porta d’Avarco e quella spera
Col fuoco aprir, se ciò vorrà il destino;
Ma temo senza voi l’estrema sera
Veder del vecchio padre di Clodino,
Che con la figlia, lasso, e con la sposa
Di temenza e di duol non trova posa.
lxxxii
     E pur dice piangendo: Ove or si trova
Il nostro Seguran? la nostra speme?
Com’esser può, ch’al qui venir no ’l muova
Di noi lassi pietade e del suo seme?
Ma forse il buon voler poco ne giova,
Ch’oscura morte o dura piaga il preme;
E ’n tal timore e ’n tale angoscia oppresso,
Ch’io vi debba cercar m’avea commesso.
lxxxiii
     Fecesi in vista e ’n cor l’altero Iberno
All’udir le pungenti e pie parole,
Quale il fero mastin, ch’al fosco verno
Udìo la gregge che si lagna e duole;
Ch’ave il lupo vicin, che prende a scherno
La guardia antica, che salvar la suole;
Che ’n rabbioso gridar ratto s’avventa,
Ove chi spera in lui piange e paventa.
lxxxiv
     E più veloce assai ch’a Pelio in fronte
Il folgore dal ciel l’autunno cade,
Il traportan le vogli acerbe e pronte,
Ove per lui trovar mostran le strade;
Ma poi ch’omai vicin l’egregie e conte
Fattezze scerne, in cui l’altere e rade
Virtù di Lancilotto esser si crede,
Raffrena alquanto in sè l’animo e ’l piede.
lxxxv
     Qual scarco viator, che ’n fretta corre
Leve il colle varcando e la campagna,
Ch’al fin pervegna, ove al traverso scorre
Profondo e largo rio che ’nriga e bagna;
Che si vede in un punto il passo accorre,
E dal ratto pensier l’alma scompagna;
Poi dell’oltra passar l’arte e la guisa
Con più tardo consiglio in seno avvisa.
lxxxvi
     Tale al gran Segurano allora avvenne,
Quando il famoso re già presso scorge;
Che mentre al suo volar l’ali ritenne,
Con più aguto mirare il guardo porge;
E vedendol ferir, per certo tenne,
O che ’l primo valor più lento insorge,
Ch’ei non soleva o ch’alcun altro indotto
Sotto la forma sia di Lancilotto.
lxxxvii
     E riveste speranza e ’n sen riprende
L’intermesso furor, l’ira e l’ardire,
E grida in alto suon, ch’ogni uom l’intende:
Lassate il vile stuol securo gire;
Apprendasi a’ miglior, cui l’alma incende
Della fama immortal caldo desire;
Volga pure il suo brando a Segurano
Il magnanimo erede del re Bano.
lxxxviii
     Quando ciò ascolta il chiaro Galealto,
Ben che pien di valor, si cangia alquanto,
Chè sculto serba in cor di saldo smalto
Quel, di che Lancilotto il pregò tanto;
Pur s’apparecchia al suo fatale assalto,
E d’ogni altro desio spogliando il manto,
Quanto più leve può torna il destriero
Contra il superbo Iberno cavaliero.
lxxxix
     E quali aspri leon, che ’ntorno stanno
Alla comune lor già vinta preda,
Che ’ncontra irati l’uno a l’altro vanno,
Perchè ’l compagno a lui la parte ceda;
Che per l’unghia, o di morso estremo danno,
Alcun non è de’ duoi, che ’ndietro rieda,
In fin che ucciso l’uno, il vincitore
Del combattuto premio è possessore.
xc
     Col medesmo furor gli alti guerrieri,
E col medesmo fin dell’altrui morte,
Spronan tutti animosi i lor destrieri,
Ove gli sospingea valore e sorte;
E furo ambi al colpir sì grave e feri,
Che non apparve ben, chi sia più forte;
Chè l’uno e l’altro d’essi indietro scorse,
E di a terra cader si mise in forse.
xci
     Ma il candido Nifonte in un momento,
Quasi ontoso fra sè, vigor riprende,
Nè quel del negro Eton rimase spento,
Che più che fosse mai ratto s’accende;
E quale al minor di rabbioso vento,
Il passo questo a quel di nuovo stende;
E ’l buon re di Canaria fu il primiero,
Che ferì Seguran d’un colpo fero;
xcii
     Fero assai sopra l’elmo, ma non quale
Si credea di sentir l’invitto Iberno;
Che già da Lancilotto n’ebbe tale,
Che scender si pensò più giù ch’Averno;
Ora a quel comparaggio il trova frale
Sì, ch’ogni suo ferir quasi ave a scherno;
E nel medesmo loco il batte in guisa,
Che la fronte gli avria rotta o divisa;
xciii
     Se non fora il fin’elmo e ’l sacro incanto,
A cui forza mortal non nocque mai;
Non potè far che non piegasse alquanto,
E non sentisse allor dogliosi guai;
Pur l’onore e ’l valor l’aiutò tanto,
Che vie più che da prima ardito assai
Alla sinistra spalla il ripercosse
Sì, che del loco suo lo scudo mosse:
xciv
     E non picciola piaga in essa stampa,
Non tal però che l’impedisca molto,
Ma il crudo cavalier, che d’ira avvampa,
Gli risospinge il brando a mezzo il volto;
Ma la doppia visiera anco lo scampa;
Pur così dritto a pien gli venne colto,
Che se ben non l’impiaga, l’aspro peso
Gli ha la fronte e ’l veder soverchio offeso.