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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/210

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xxxvii
     Ma qual crudo leon, quando si senta
Dal rozzo orso impiagar più che non soglia,
Che sdegnoso e rabbioso ne diventa,
E d’ira micidiale arma la voglia;
Poi doppiato il furor, ratto s’avventa
Di morir fermo o di portarne spoglia,
E ruggendo e fremendo fa temere
Quanti il ponno ivi udire uomini e fere.
xxxviii
     Tale il figlio onorato del re Bano
Tutta d’ira infiammato a lui si getta,
Gridando: Tronchi il ciel la pigra mano,
Se del nostro dolor non fa vendetta;
E percuote il guerriero, e non in vano,
Nel braccio, onde tenea la spada stretta;
Che fè piega profonda, ma non tale,
Che ’l danno che ne vien gli sia mortale.
xxxix
     Opra ben sì, che ’l brando, che non era,
Come solea, di valida catena
Congiunto al braccio, la percossa fera
Scorra da lui lontan sopra l’arena;
Ma quella alma onorata, invitta, altera,
Che non cura periglio o sente pena,
Impedito qual è, l’altro riprende,
Che d’un’altra cintura al collo pende;
xl
     E gli viene a cader su ’l lato manco,
Più alto alquanto, ove impedir non puote
Quella, che vien più bassa sotto il fianco;
E dell’albergo suo ratto lo scuote;
Indi senza mostrarse afflitto o stanco,
Più che mai l’avversario suo percuote;
Ma ’l colpo, che scendea dritto alla testa,
Dallo scudo interrotto in alto resta.
xli
     E fu tale il furore, ond’egli scese,
Che non ebbe a’ suoi dì simile assalto;
E quanto il taglio fulminando prese,
Che fu il terzo di lui nè cadde d’alto;
E Lancilotto a più spietate offese
Armato ha il nobil cor di crudo smalto;
E per dar fine alla dubbiosa guerra,
Vie più stretto che mai con lui si serra.
xlii
     E senza altra di sè cura tenere
Raddoppia i colpi e non s’arresta mai;
Or sopra l’elmo, or nella spalla il fere,
Or fa al braccio sentir nuovi altri guai;
Non s’abbandona quel, quantunque intere
Non aggia il miserel le forze omai,
Perchè ’l braccio ha pur frale e ’n più d’un loco
Sente il sangue versarse a poco a poco.
xliii
     E Lancilotto al fin di cruda punta
Gli ha drizzata la spada nella gola;
Ch’ove gli spirti van, vibrando spunta,
Per formar tra le labbra la parola.
All’estremo confin l’anima giunta
Trista e rabbiosa in altra parte vola,
Libera in tutto del corporeo nodo,
Che a terra scorse in miserabil modo.
xliv
     Tosto che ’l vide steso Lancilotto,
Del suo fero destin mosso a pietade
Seco si duol d’avere a tale indotto
Un de’ miglior guerrier di quella etade;
E per chiaro saver, se ’l fil gli ha rotto
La Parca ria, dall’arenose strade
Aiutato da’ suoi l’innalza e scioglie
L’elmo d’intorno e dalla fronte il toglie.
xlv
     Indi, che scorge pur pallido il volto,
Le labbra essere esangui e gli occhi attorti,
Dice quasi piangendo: O mondo stolto,
Che ’nganni ancor quei, che più sieno accorti,
Oggi è di vita parimente sciolto
Il fior de i cavalieri arditi e forti,
Come il più vil suo servo, nè gli valse
L’alta virtù, di cui sola gli calse.
xlvi
     E così ragionando Elen richiama,
E gli dice: Or si porti al padiglione
Fra molti anco costui che d’alta fama
Di preporsi ad ogni altro è ben ragione,
Con Brunadasso; e quel, come chi brama
D’obbedire al signor, tosto ripone
Sopra gli omer di molti il doppio incarco,
Che ’l portar tosto al comandato varco.
xlvii
     Il chiaro Lancilotto su ’l destriero,
Che gli presenta appresso, rimontato,
Più che fosse ancor mai gravoso e fero
A ricercar l’Iberno torna irato;
E seco si dolea dentro al pensiero
Delle palme, onde allor giva onorato,
Dicendo: Or fia però questa mia mano
In ogni altro crudel, che ’n Segurano?
xlviii
     E ch’uccisi aggia omai cotanti amici,
E sì gran cavalier di sommo onore,
Ch’io bramava vedere alti e felici,
E che cari mi fur quanto il mio core?
E questo sol per tutte le pendici,
Ov’or m’avvolga il mio fallace errore,
Non possa ritrovare in alcun loco,
Tal prende i miei desir fortuna in gioco?
xlix
     E ’n tale immaginare il cammin prende,
Ove fuggia ciascun verso le mura;
Or già Clodin da Bustarino intende
Dell’Ebrido rettor la morte dura,
Il qual gli dice: Or sovra noi distende,
Se ’l ciel non ha di ciò più larga cura,
Fortuna in tutto l’ultima ruina,
Che minacciosa omai ratta s’inchina.
l
     Morto è il gran Brunadasso e morto ancora,
Ch’a gli stessi occhi miei do fede a pena,
Quel che del vecchio Atlante e della aurora
Ciascuna riva del suo nome ha piena;
L’altero Palamede, che ’n brev’ora
Vid’io, lasso, disteso su l’arena
Dal crudo Lancilotto in guisa tale,
Ch’è dal fero leone aspro cinghiale.