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Pagina:Alamanni - Avarchide.djvu/25

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lxvii
     E qual poi di lontan la fiamma appare
Ch’a’ boschi depredar le chiome suole,
Tal delle lucid’armi il lampeggiare
Si vede tremolar che muove il sole;
Nè tante le stagion più belle e care
Han frondi, erbette, fior, rose e vïole
Nè tante ha stelle in ciel, quanta si vede
Gente sopra i destrieri e gente a piede.
lxviii
     E come il buon pastor che le sue gregge
Sopra gli erbosi colli a pascer mena,
Che con la verga in man muove e corregge
Mentre che quella spinge e quella affrena;
Così la schiera sua governa e regge,
Talor loda porgendo e talor pena,
Ogni onorato duce, e guarda intorno
Come l’ordin miglior più venga adorno.
lxix
     Poi più di tutti Arturo, il re sovrano,
Pien di divino onore andar si vede,
Il cui sembiante alteramente umano
Di Giove al sacro aspetto ivi non cede:
Nell’altre membra a Marte prossimano
E nel petto a Nettuno esser si crede,
E qual l’invitto tauro a i bassi armenti,
Tal quel dì si mostrava all’altre genti.
lxx
     Or voi figlie chiarissime di Giove,
Sacrate Muse cui nïente è scuro,
Cantate a me, perch’io gli canti altrove,
I duci e i re che seguitaro Arturo:
Ch’a narrar l’altro stuol che seco muove
Voce aver converria di ferro duro,
Con mille lingue e mille bocche poi;
Ond’io dirò quei soli, e gli altri voi.
lxxi
     Del paese Nortumbrio, ove a Boote
Spande il Tueda le sue frigid’onde
E ’l tien diviso dalle terre Scote,
Là dove il Chevïota il dì gli asconde,
Non lontan dalla Tina, che percuote
Dall’Austro il fianco con l’erbose sponde,
Voller le genti aver per duce loro
Solo il re valoroso Pelinoro.
lxxii
     Sei chiare insegne avea spiegate al vento,
Ove sotto ogni due mille contaro
Guerrier pedestri, e ciascun mille cento
Cavalier d’esso e d’altri seguitaro;
Poi Gargantin, ch’avea tanto ardimento
Che ’l teneva al suo re pregiato e caro,
Quei di Dunelmia e Ricciamondia mena,
Ove la Tesa e ’l Vere empie l’arena.
lxxiii
     Seco eran di Darlingia e d’Alertone
E dell’altre cittadi e ville intorno
Per sangue e per virtù quelle persone
Ch’avean più il nome di chiarezza adorno:
Sopra cui sole quattro insegne pone,
Ch’a molte più di lor fariano scorno.
Appresso era Abondano il fortunato,
Che i guerrier d’Eborace avea da lato,
lxxiv
     Ove l’Usa e ’l Sual mischiano insieme
Le placid’acque, ove si gode in seno
La ricca e bella Udona, che non teme
Che ’l nutrimento suo le venga meno;
Ov’Ulla e Beverlai l’un l’altro preme
Per vicinanza in quel medesmo seno,
E dove Patrinton quel loco ingombra
Ove l’acque insalar si vede all’Ombra.
lxxv
     Quattro anch’ei sopra lor portava insegne,
Non men che l’altre di valore ornate.
Altrettante ne innalza, nè più indegne,
Agraven seco, di Gaveno il frate,
Sotto cui va la gente ch’oggi spegne
La sete di Dona alle sue gregge amate,
Dico Assolme e Lincolnia, e dove il Trenta
D’irrigar pure Ancastro s’argomenta.
lxxvi
     Lucano, il brutto ardito, aveva quelli,
Sotto il numero eguale alle primiere,
Più vicini all’Avon, ch’ampi ruscelli,
Nel principio assetato, veggion bere,
E tra i colli d’intorno erbosi e belli
Noringania e Lecestria risedere
E Nortantona, nel cui lito aprico
Son Butrone e Coventria e Varrivico.
lxxvii
     Ma in compagnia del primo duce diero,
Per meglio esser condotti all’opre rare,
Il possente Avirago e ’l buon Gundero,
Ch’han non men di Lucan le spade chiare.
Gli altri popoli poi, presso al sentiero
Ove più irato di Germania il mare
Combattendo gli scogli alto risuona,
Verso la Cantabrigia e l’Umtinctona,
lxxviii
     Ove da molti rivi cinta intorno
La vaga Eli qual’isoletta giace,
Ove lieta Valpole il destro corno
Ingombra, e ricche le sue valli face;
Dello scettro ducal fecero adorno
Il possente Agreval, che in guerra e ’n pace
Tal conobbero in lui senno e valore
Che ’l voller tutto solo a tanto onore.
lxxix
     Ma Ganesmoro il nero quelli avea,
Che son sopra l’oceano orïentale,
Di Nortfolcia e Soffolcia, che solea
Mostrar fra l’altre che più in arme vale,
Con quei di Nordovico, e gli reggea
Con la quinta bandiera, all’altro eguale.
Poi veniva il superbo re Gaveno,
Ch’alla pietrosa Orcania regge il freno.
lxxx
     Era figliuol costui del gran re Lotto
E della bella Elìa, suora d’Arturo,
E però venti insegne avea condotto,
Di stuol più ricco assai che in arme duro:
Ond’avea troppa invidia a Lancilotto,
Non sendo al par di lui forte e securo,
Che con ogni altro avuto ardire avrebbe
Di contrastar, come poi seco anch’ebbe;