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Pagina:Alberti, Leon Battista – Opere volgari, Vol. I, 1960 – BEIC 1723036.djvu/250

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244 i libri della famiglia


Adovardo. Che ragionamenti sono stati e’ vostri?

Lionardo. E’ più nobili, Adovardo, e’ più utili; e quanto ti sarebbe piaciuto avere udito infiniti perfettissimi suoi ragionamenti!

Adovardo. Bene so io, dove tu sia, mai si ragiona di cose se non molto nobilissime, e conosco in tutti e’ suoi ragionamenti Giannozzo essere da udirlo molto volentieri.

Lionardo. In tutte l’altre cose sempre fu Giannozzo da essere ascoltato, ma in questa una più che nell’altre ti sarebbe veduto e da ’scoltarlo e da maravigliartene, tante sono state le sue sentenze alla masserizia elegantissime e maturissime, innumerabili, inaudite.

Adovardo. Quanto vorrei esserci stato!

Lionardo. Gioverebbeti, ché aresti inteso come la masserizia non manco sta in usare le cose che in serballe, e come quelle delle quali si dee fare più che dell’altre masserizia sono le cose più che tutte l’altre proprie nostre; e aresti udito come la roba, la famiglia, l’onore e l’amicizie non in tutto sono nostre, e aresti impreso in che modo di queste si debba essere massaio; giudicaresti questo dì esserti felicissimo.

Adovardo. Duolmi altrove essere stato occupato, ché niuna cosa a me sarebbe più cara che avermi trovato con questi vostro discipolo, Giannozzo, a imparare quel che oggimai m’accade, diventare buono massaio, ché così mi pare si convenga a noi, quanto prima diventiamo padri, crescendo in famiglia simile si cresca in masserizia.

Giannozzo. Non ti lasciare così leggiere persuadere, Adovardo, quello che non è. Lionardo qui sempre fu in me troppo affezionato, e forse gli sono piaciuto ragionando della masserizia, la quale cosa per ancora non gli accade interamente provare; piacegli udirne come di cosa nuova. E se io sono a lui in questi nostri passati ragionamenti piaciuto più che le mie parole né meritavano, né cercavano, non lo imputate a me, ma giudicate che la troppa affezione di Lionardo in me fa che ogni mia parola gli pare sentenziosa. Di mie parole che grazia posso io porgere apresso di voi litterati e