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atto quinto 271
traditor è, chi figlia e sposa niega

prostituire a lui. Convinti appieno
non siete ancor di sua libidin cruda? —
Romani, deh! benché innocente io sia,
me con Icilio, e con mill’altri, a morte
trar lasciate: ma sola oggi si salvi
l’onorata donzella; a lei sovrasta
peggio che morte assai. Per me non prego;
io tremo sol per lei; per lei sol piango.
Numit. E al nostro pianto tutti non piangete?
Che vi s’aspetti, o padri, oggi da noi
imparatelo... Oh duri!... ognun si tace?... —
Madri, uditemi dunque: o voi, che sole
davvero amate quei che alimentaste
entro alle vostre viscere, creati
del vostro sangue: il procrear quí figli
troppo è gran fallo, o madri; omai, se il vostro,
se il loro onor vi cale, al nascer loro,
vibrate un ferro entro ai lor petti.
Appio   Udite
amor di madre? udite? Or, chi nol vede,
che supposta è la madre, e che ingannato
n’è il genitore? — A me il chiedeste, e giusto
ben era, che Virginio a tanta lite
presente fosse: eccolo, ei v’è: ma torre
può il suo venir, ch’io appien giustizia renda? —
Esaminati ho i testimonj, e Marco;
concordano. Di Marco è chiaro il dritto:
io ’l giuro al popol; io: piú che convinta
la falsa madre è da tai prove; ond’ella
cerca or ragion nel popolar tumulto. —
Dover d’inganno trar misero padre,
che tal si crede, duolmi; eppure il deggio. —
Marco, Virginia è tua; ragion non posso
negare a te nella tua schiava.
Numit.   Oh! dove