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atto quarto 315



SCENA QUINTA

Agamennone, Clitennestra.

Agam. Vieni, consorte, vieni; e di cor trammi,

che il puoi tu sola, ogni spiacevol dubbio,
ch’Elettra in cor lasciommi.
Cliten.   Elettra?... Dubbj?...
Che ti diss’ella?... Oh ciel!... cotanto t’ama,
e in questo giorno funestar ti vuole
con falsi dubbj?... Eppur, quai dubbj?...
Agam.   Egisto...
Cliten. Che sento?
Agam.   Egisto, onde a me mai non t’odo
parlar, d’Elettra la quíete e il senno
par che conturbi.
Cliten.   ...E nol cacciasti in bando?...
Di lui che teme Elettra?
Agam.   Ah! tu del sangue
d’Atréo non sei, come il siam noi: non cape
in mente altrui qual sia l’orror, che inspira
al nostro sangue di Tieste il sangue.
Pure al terror di timida donzella
non m’arrendo cosí, che nulla io cangi
al giá prefisso: andrá lontano Egisto,
e ciò mi basta. Il cor di cure scarco
avrommi omai. — Tempo saria, ben tempo,
consorte amata mia, che tu mi aprissi
il dolor grave, che il core ti preme,
e ch’io ti leggo, mal tuo grado, in volto.
Se a me il nascondi, a chi lo narri? Ov’io
sia cagion del tuo piangere, chi meglio
può di me rimediarvi, o ammenda farne,
o dividerlo teco? Oh ciel! tu taci?
Neppur dal suol gli occhi rimovi? immoti
stan, di lagrime pregni... Oimè! pur troppo