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atto quinto | 99 |
era per me... Neron giá forse in lui
il furor suo... Ma, oh gioja! Eccolo, ei viene.
SCENA SECONDA
Ottavia, Seneca.
Vieni, o mio piú che padre... E che? nel volto
men tristo sembri: oh! che mi arrechi?
Seneca Intatta,
godi, è pur sempre la innocenza tua.
Le tue tante virtú d’alcun lor raggio
infiammato a virtude hanno i piú bassi
servili cori. Infra martíri atroci,
fra strazj orrendi, le tue ancelle a un grido,
tutte negaro il tuo supposto fallo.
Marzia fra loro era da udirsi: in fermo
viril libero aspetto (e da far onta
a noi schiavi tremanti) in Neron fitti
gl’imperterriti sguardi, ora a vicenda
Tigellino, or Nerone, ad alta voce
mentitor empj iva nomando: e piena
di generosa rabbia, inni solenni
di tua santa onestá cantando, salda
ella ai tormenti, da forte spirava.
Ottav. Misera! ahi degna di miglior destino!...
Ma ciò, che vale? A ricomprar mio sangue,
havvi sangue che basti?
Seneca Or, piú che pria,
scabro a Neron fassi il versarlo. Hai tratto
lustro ed onor donde sperò l’iniquo
che infamia trar tu ne dovresti, e morte.
Eucero stesso, benedire ei s’ode
il suo morire. Or giuramenti orrendi,