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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/141

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atto terzo 135
concorde appien. T’ho per men vile almeno,

or che favelli, qual tiranno il debbe.
Or io, qual debbe un cittadin, favello.
Espressamente a rinunziarti io venni
l’amistá tua. Né duole a me, che m’abbi
deluso tu: se avessi io te deluso
dorriami assai, ch’uom veritier son io.
Timof. Io non rompo cosí d’amistá santa
gli alti vincoli antichi. — Echilo, m’odi. —
Mal tuo grado, convincer io ti posso,
che in me non era ogni virtú mentita,
e che può unirsi al comandar drittura.
Se il mio pensier, di voler farmi primo,
ti tacqui ognor, s’anco il negai, negarlo
dovev’io a te; tu non mel creder mai.
Uom lasciò mai sovrana possa? Errasti
forse tu allor che mi ti festi amico,
mentre aggiungendo io possa a possa andava:
ma, non men erri in questo dí, se cessi
d’esserlo, or quando è il mio poter giá tanto.
Echilo D’Archida dunque il sangue a me dovea
manifestar l’atroce animo tuo,
cui finor non conobbi? E fia pur vero,
ch’empio tanto tu sii?... Ma, oh ciel! s’io cesso
d’esserti amico, a te rimango io pure
ancor congiunto... Ah! sí; per la diletta
mia suora, a te non vile; per que’ figli
teneri e cari, ond’ella ti fe padre;
ten prego, abbi di lei, di lor pietade,
poiché di te, di noi, non l’hai. Corinto
non, qual tel pensi, ancor del tutto è muta:
breve pur troppo a te la gioja appresti,
a noi pianto lunghissimo. Deh! m’odi...
mira, ch’io piango; e per te piango. — Ancora
reo tant’oltre non sei, che ostacol nullo
piú non ravvisi; né innocente sei,