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atto secondo 257
Se oltraggio chiami il non veder piegarsi

ad ogni tuo pensier l’altrui pensiero,
certo, quí spesso, e mal mio grado sempre,
oltraggiato tu fosti. Hanno, tu il sai,
i re lor modi, e le lor leggi i regni,
cui nuoce a tutti oltrepassar: né ardiva
io vietarti il varcarle in altra guisa,
che come a me tolto lo avrei, se a possa
illimitata un mio voler non saggio
spinta mi avesse. Ma, consorte amato,
se pur di me, se del mio cor tu parli,
e del mio amore, e dei privati affetti,
di me qual parte non ti diedi io tutta?
Tu mio signor, tu mio sostegno, e prima,
e sola cura mia, dimmi, nol fosti? —
E il sei tuttor, sol che deposto il truce
sdegno non giusto, esser pur anco or vogli
del regno in quanto uso di legge il soffre,
di me, senza alcun limite, signore.
Arrigo Oltraggio chiamo io l’alterigia, i modi
superbi, usati a me dagli insolenti
ministri, o amici, o consiglieri, o schiavi;
ch’io ben non so come a nomar me gli abbia,
quei che intorno ti stanno. E oltraggi chiamo
quanti ogni giorno a me si fan; del nome
appellarmi di re, mentre mi è tolto,
non che il poter, perfin la inutil pompa
apparente di re; vedermi sempre
piú a servitú che a libertá vicino;
e i miei passi, e i miei detti opre e pensieri,
tutto esplorarsi, e riferirsi tutto;
e ogni dolcezza togliermi di padre;
e il mio figliuol, non che a mio senno io ’l possa
educar, né il vederlo essermi dato;
e a me solo vietarsi. — Or, che piú dico? —
Ad uno ad uno annoverar gli oltraggi


 V. Alfieri, Tragedie - II. 17