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atto secondo | 313 |
SCENA TERZA
Lorenzo, Giuliano, Guglielmo.
fa ch’ei meglio si adatti; e a ciò gli giova
coll’esempio tuo stesso. Al par di lui
tu pur ci abborri, e a noi cedesti, e cedi:
dotto il fa del tuo senno. Io non pretendo
amor da voi; mal fingereste; e nulla
io ’l curo: odiate, ma obbedite; ed anco
obbedendo, tremate. Or vanne, e narra
a codesto tuo finto picciol Bruto,
che il vero Bruto invan con Roma ei cadde.
Gugl. Incauto è il figlio, il veggio. Eppur di padre
ognor con lui le sagge parti adopro;
soffrir gl’insegno; ei non l’impara. Antica
non è fra noi molto quest’arte ancora:
degno è di scusa il giovenil fallire;
si ammenderá. — Ma tu, Giulian, che alquanto
sei di fortuna e di poter men ebro,
tu il fratello rattempra: e a lui pur narra,
che se un Bruto non fea riviver Roma,
pria di Roma e di Bruto altri pur cadde.
SCENA QUARTA
Lorenzo, Giuliano.
Loren. Odo.
Favellan molto, indi ognor men li temo.
Giul. Tramar può ognun...
Loren. Pochi eseguir...
Giul. Quell’uno
esser potria Raimondo.
Loren. Anzi, ch’ei sia