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Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. II, 1946 – BEIC 1727862.djvu/335

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atto quarto 329



SCENA TERZA

Guglielmo, Giuliano.

Giul. Guglielmo, o tu, che esperíenza, ed anni,

e senno hai piú che altr’uom; tu, che i presenti
dritti, e i passati, della patria nostra
conosci, intendi, e scerni; or deh! mi ascolta. —
Giá, per poter ch’io m’abbia, io non son cieco,
né dato a iniqua oblivíone ho il nome
di cittadino: io so, quanto sien brevi,
e dubbj i doni della instabil sorte:
so...
Gugl.   Qual tu sii, chi ’l sa? Vero è, ti mostri
piú mite assai, che il fratel tuo; ma tanto
del volgo schiavo è il giudicar corrotto,
ch’ei men non t’odia, ancor ch’ei men ti tema.
Forse a popol ben servo è assai piú a grado
chi lo sforza a obbedir, che chi nel prega.
Giul. Cauto non è, quale il vorrei, Lorenzo;
ma, né quanto sel tien, Raimondo è invitto:
parliam, piú umani, noi. — Tu sai, che istrutto
il cittadin dalla licenza antica,
e sbigottito, in nostra man depose
di libertá il soverchio; onde poi fosse
la miglior parte eternamente intatta...
Gugl. Quai tessi ad arte parolette accorte,
di senso vuote? Ha servitú il suo nome.
Chiama il servir, servaggio.
Giul.   E la licenza,
tu libertade appella: io quí non venni
a disputar tai cose...
Gugl.   È ver, che sempre
mal sen contende in detti.
Giul.   Odimi or dunque,
pria che co’ fatti io il mostri. Alta ira bolle