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atto quarto 145
odi or dunque, qual sia. — Mirami: in ceppi,

piú inerme assai di te, piú vinto e ignudo
di senno io sono, e assai men re. Giá tolto
mi avevi il regno tu, ma allor per tanto
tu vincitor di me non eri: ardente,
instancabil nemico io risorgeva
piú fero ognor dalle sconfitte mie;
fin che a vicenda io vincitor tornato,
il mio riebbi, e a te il tuo regno io tolsi. —
Ma godi tu, trionfa; intera palma
di me ti dá questa sublime donna,
ch’or ben due volte a Massinissa hai tolta.
Sofon. E vuoi, ch’io pur del debil tuo coraggio
arrossisca?...
Massin.   Non diedi a voi per anco
del mio coraggio prova: ei pur fia pari
al dolor mio. — Voi state (io ben lo veggo)
securi in voi, per la prefissa morte.
Degno è d’ambo il proposto; ed io l’intendo
quant’altri; e a voi, ciascun per se, conviensi.
Tu, prigioniero re, non vuoi, né il dei,
viver piú omai: tu, di Siface moglie,
e di Asdrubale figlia, in faccia a Roma
pompa vuoi far d’intrepid’alma ed alta;
né affetto ascolti, altro che l’odio e l’ira.
Ma Siface, che t’ama; ei, che all’intera
rovina sua per te, per te soltanto,
s’è tratto; ei ch’alto e nobil cor, non meno
che infiammato, rinserra; oh ciel! deh!... come,
come può udir, che l’amata sua donna
abbia a perire?...
Sofon.   E potrebb’egli or tormi
dal mio dover, s’anco il volesse?
Siface   E donde
noto esser puovvi il pensier mio?
Massin.   Guidato


 V. Alfieri, Tragedie - III. 10