Pagina:Alfieri, Vittorio – Tragedie, Vol. III, 1947 – BEIC 1728689.djvu/345

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si va a rischio per lo piú di non piacere né ai presenti, schiavi, né ai futuri liberi popoli.

Marco è la principal macchia di questa tragedia, perché non è in nulla romano, né lo può, né lo deve essere. Ma pure, essendo egli parte necessaria dell’azione, non voglio riportarne io il carico della viltá sua. Questo personaggio è figlio della tirannide d’Appio; sovr’esso se ne dee riversare l’odiositá; e all’autore si dee tener conto del non averlo intromesso mai, se non brevissimamente dove era necessario.

Scorsi cosí i personaggi, e trovatili tutti quali debbono essere, non conchiudo io per ciò che la tragedia non abbia difetti. Due principalissimi ne ha; il primo, per quanto mi pare, si dee mezzo attribuire al soggetto; l’altro, interamente all’autore. I due primi atti sono caldi, destano la maggior commozione, e crescono a segno, che se si andasse con quella progressione ascendendo, (come si dee) o converrebbe finir la tragedia al terzo, o la mente e il cuore degli spettatori non resisterebbero a una tensione cosí feroce e continua. Dopo due atti, di cui il primo contiene un sommovimento popolare, e diverse parlate alla plebe, a fine di accenderla; il secondo, un pomposo giudizio, in cui il popolo viene esortato, minacciato, incitato e raffrenato a vicenda; dopo due tali atti, qual può essere lo stato e la progressione di una azione, che non riesca languida e fredda? Questa è la metá del difetto, che io dissi esser posta nel tema stesso; perché tra un giudizio e l’altro bisogna assolutamente interporre uno spazio. L’altra metá che su l’autore ricade, si è, che bisognava forse distribuire la materia in tal modo, che in vece di due atti di spazio, ve ne rimanesse uno solo. Ho supplito nel terzo, col toccare altri tasti del cuore umano, sviluppandovi l’interno stato d’una famiglia appassionata, costumata, ed oppressa dalla pubblica nascente tirannide: e credo, che questo terz’atto possa, benché senza tumulto, esser caldo in un’altra maniera quanto i due precedenti.

Ma nel venire al quarto, confesso che questo è il difetto capitalissimo di questa tragedia, e spetta interamente all’autore. Virginia non ha quart’atto: quei versi che ne usurpano il luogo, molto otterranno, se, benché pochi, non parranno moltissimi; stante che l’azione per via di essi non viene niente affatto inoltrata. Ma pure, io che un tal difetto discopro per semplice amore di veritá, prego ad un tempo stesso il pubblico di non lo dire a nessuno, fuorché alla gente dell’arte, affinché facciano essi meglio,