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144 vittorio alfieri


CCXV (1790).

Io, che già lungi di mia donna in meste
Rime troppe il doler disacerbava:
E, i lunghi dì piangendo, pur cantava,
Pregno il cor d’atre immagini funeste;

Io stesso poi, presso a quell’alme oneste
Luci sue, la cui vista il duol disgrava,
In muta gioja tacito mi stava
Ben anni, quasi a dire altro non reste.

E sì pur mai non è Letizia, meno
Che il sien le Cure, garrula loquace;
Mal cape anch’ella entro all’umano seno.

Dunque, or perchè la lira mia soggiace,
Vinta, diresti, dall’amor sereno? —
Pria che dir poco, immensa gioja tace.

CCXVI (1790).

Quanto più immensa, tanto men fia audace
D’amor la gioja, a cui forte aspro freno
È il creder sempre, o il paventare almeno,
Ch’abbia a troncarla ria sorte fallace.

Ond’io, quand’essa più il mio cuor compiace,
Se in rime avessi ad isfogarla appieno,
Il mio cantar sarìa tristo inameno,
Qual d’uom che in preda a grave dubbio giace.

Donna mia, per cui tanto io sospirava,
Or che le prische cure al cor moleste,
Tutte, lo averti al fianco mio, sgombrava;

Or mi si fanno in nuovo aspetto infeste.
Io sempre tremo, che la Morte prava,
Te pria furando, orridi guai mi appreste.