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230 vittorio alfieri


L’ultima volta che il suo messo audace
D’infame amore favellarmi ardiva,
Non per ripulse mie men pertinace,
Mentr’ei da me scacciato a forza usciva,
D’umani affetti esplorator sagace,
Con questi detti il core ei mi partiva:
Pensa, o donzella, che al tuo sposo amante
Può tôr la vita il prence ad ogni istante.

Misi uno strido a tal minaccia, e in forse
Stetti piangendo e pregando per esso:
Ma ratto era il fellone allora a tôrse
Dagli occhi miei con artificio espresso.
Quel vil per certo al signor suo sen corse
A riferir l’alto terror che impresso
M’avea nel core, e a dir che palma avranne
Se arditamente ei stesso a me verranne.

Tremai, nol niego; e tuttavia pur tremo
Per lui, che in van mi prometteste sposo:
Misero! il tragge ora al periglio estremo
L’amor mio che già ’l fe’ tanto gioioso:
Ma in tomba entrambi pria chiusi n’andremo,
Che rïunirci in modo obbrobrïoso.
Nutre il tiranno in cor contraria spene;
Quindi in persona or forse a me sen viene.

Sì, venga ei pur, grida Lorenzo, ei venga:
Molto aspettato giunge, e accolto fia.
Come esser può ch’io qui l’iniquo spenga,
Chiaro or comprendo, e prego il ciel che sia:
E spero ch’oggi la grand’ombra attenga
Ciò che il labro profetico m’apría.
Qui tace, e taccion tutti: e dubbio e speme
Ora il cor loro innalza ed or lo preme.

Giunta è l’ora frattanto: e il duca solo,
Dal buon messo d’amore preceduto,
Di sfrenato desir sull’ali a volo
Ardito e baldo al vicolo è venuto:
Ivi il veron due braccia alto dal suolo
Vede chiuso, e dintorno il tutto è muto:
Tosto ei dice al fedel che il segno faccia
Che al rio Filen così gran ben procaccia.