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EPOCA TERZA. CAP. XII. | 215 |
quelie solitudini e moto continuato avrei versato [1771] un diluvio di rime: infinite essendo le riflessioni malinconiche e morali, come anche le imagini e terribili, e liete, e miste, e pazze che mi si andavano affacciando alla mente. Ma non possedendo io allora nessuna lingua, e non mi sognando neppure di dovere nè poter mai scrivere nessuna cosa nè in prosa nè in versi, io mi contentavadi ruminar fra me stesso, e di piangere alle volte dirottamente senza saper di che, e nello stesso modo di ridere: due cose che se non sono poi seguitate da scritto nessuno, son tenute per mera pazzia, e lo sono; se partoriscono scritti, si chiamano Poesia, e lo sono.
In questo modo me la passai in quel primo viaggio sino a Madrid; e tanto era il genio che era andato prendendo per quella vita di Zingaro, che subito in Madrid mi tediai, e non mi vi trattenni che a stento un mesetto; nè ci trattai nè conobbivi anima al mondo, eccetto un oriuolajo, giovine Spagnuolo che tornava allora di Olanda, dove era andato per l’arte iua. Questo giovinetto era pieno d’ingegno naturale, ed avendo un pocolino visto il mondo si mostrava meco addoloratissimo di tutte le tante e si diverse barbarie che ingombravano