Pagina:Algarotti - Opere scelte 1.djvu/353

Da Wikisource.

di scrivere nella propria lingua 335

quando leggeva le cose de’ Romani, gli era avviso che un passerotto leggesse la storia delle aquile. Qual nuova disconvenevolezza adunque il vedere i fatti de’ Pieri, de’ Giovanni e de’ Mattei descritti con le frasi di Tito Livio e di Giulio Cesare, udire un pedante arringare i suoi ragazzi con quella gravità che un consolo parlava in Senato, voler suggellare le moderne imprese col regna adsignata, coll'orbis restitutori, col pace terra marique parta Janum clusit, e con altre simili antiche leggende, adattare alla picciolezza delle cose nostre la maestà del linguaggio di quel popolo re?

Ma diamo che tale e tanta sia la discrezione di giudizio in chi compone, ch’egli venga a schivare lo inconveniente della magniloquenza, che è quasi connaturale ai latini scrittori, dov’è colui che possa sedere a scranna e farsi a decidere della Crusca latina, sicché non ci rimanga scrupolo alcuno di aver usato il termine naturale e proprio; che è pur nello scrivere la importantissima cosa di tutte, onde nella mente dell’uditore si viene ad eccitare quella precisa idea che conviene, e non altra, ed equivale alla intonazione perfetta, al toccar giusto nella musica? A ciò fare ci vogliono altri maestri che i semplici libri. E il più delle volte la moltitudine è una miglior guida, che esser nol possono gli scrittori. Il Satirico francese, volendo dimostrare e mordere a un tratto la presunzione di coloro che si piccavano in Francia di scrivere latinamente, introduce in certo suo dialogo Orazio a parlare la lingua francese, da esso lui appresa nell’ozio degli Elisj per via