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132 la divina commedia

     Li ruscelletti che de’ verdi colli
del Casentin discendon giuso in Arno,
66facendo i lor canali freddi e molli,
     sempre mi stanno innanzi, e non indarno,
ché l’imagine lor vie piú m’asciuga
69che ’l male ond’io nel volto mi discarno.
     La rigida giustizia che mi fruga
tragge cagion del loco ov’io peccai
72a metter piú li miei sospiri in fuga.
     Ivi è Romena, lá dov’io falsai
la lega suggellata del Battista;
75per ch’io il corpo su arso lasciai.
     Ma s’io vedessi qui l’anima trista
di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
78per Fonte Branda non darei la vista.
     Dentro c’è l'una giá, se l’arrabbiate
ombre che vanno intorno dicon vero;
81ma che mi val, c’ho le membra legate?
     S’io fossi pur di tanto ancor leggero
ch’i’ potessi in cent’anni andare un’oncia,
84io sarei messo giá per lo sentiero,
     cercando lui tra questa gente sconcia,
con tutto ch’ella volge undici miglia,
87e men d’un mezzo di traverso non ci ha.
     Io son per lor tra sí fatta famiglia:
e’ m’indussero a batter li fiorini
90ch’avevan tre carati di mondiglia».
     E io a lui: «Chi son li due tapini
che fumman come man bagnate ’l verno,
93giacendo stretti a’ tuoi destri confini?»
     «Qui li trovai, e poi volta non dierno»
rispose «quando piovvi in questo greppo,
96e non credo che dieno in sempiterno.
     L’una è la falsa ch’accusò Giuseppo;
l’altr’è il falso Sinon greco da Troia:
99per febbre aguta gittan tanto leppo».