Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/212

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206 la divina commedia

     Come a man destra, per salire al monte
dove siede la chiesa che soggioga
102la ben guidata sopra Rubaconte,
     si rompe del montar l’ardita foga
per le scalee che si fero ad etade
105ch’era sicuro il quaderno e la doga;
     cosí s’allenta la ripa che cade
quivi ben ratta da l’altro girone;
108ma quinci e quindi l’alta pietra rade.
     Noi volgendo ivi le nostre persone,
Beati pauperes spiritu! ’ voci
111cantaron sí, che nol diría sermone.
     Ahi quanto son diverse quelle foci
da l’infernali! ché quivi per canti
I4s’entra, e lá giú per lamenti feroci.
     Giá montavam su per li scaglion santi,
ed esser mi parea troppo piú lieve
117che per lo pian non mi parea davanti.
     Ond’io: «Maestro, dí, qual cosa greve
levata s’è da me, che nulla quasi
120per me fatica, andando, si riceve?»
     Rispose: «Quando i P che son rimasi
ancor nel volto tuo presso che stinti,
123saranno come l’un del tutto rasi,
     fier li tuoi piè dal buon voler sí vinti,
che non pur non fatica sentiranno,
126ma fia diletto loro esser su spinti».
     Allor fec’io come color che vanno
con cosa in capo non da lor saputa,
129se non che’ cenni altrui sospecciar fanno;
     per che la mano ad accertar s’aiuta,
e cerca e trova e quello officio adempie
132che non si può fornir per la veduta;
     e con le dita de la destra scempie
trovai pur sei le lettere che ’ncise
135quel da le chiavi a me sovra le tempie:
     a che guardando il mio duca sorrise.