Pagina:Alighieri, Dante – La Divina Commedia, 1933 – BEIC 1730903.djvu/429

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paradiso - canto xxiv 423

     E io: «La prova che ’l ver mi dischiude
son l’opere seguite, a che natura
102non scalda ferro mai né batte incude».
     Risposto fummi: «Dí, chi t’assicura
che quell’opere fosser? Quel medesmo
105che vuol provarsi, non altri, il ti giura».
     «Se ’l mondo si rivolse al cristianesmo»
diss’io «senza miracoli, quest’uno
108è tal, che li altri non sono il centesmo;
     ché tu intrasti povero e digiuno
in campo, a seminar la buona pianta
111che fu giá vite e ora è fatta pruno».
     Finito questo, l’alta corte santa
risonò per le spere un ‛ Dio laudamo ’
114ne la melode che lá su si canta.
     E quel baron che sí di ramo in ramo,
esaminando, giá tratto m’avea,
117che a l’ultime fronde appressavamo,
     ricominciò: «La Grazia, che donnea
con la tua mente, la bocca t’aperse
120infino a qui come aprir si dovea,
     sí ch’io approvo ciò che fuori emerse:
ma or convien espremer quel che credi,
123e onde a la credenza tua s’offerse».
     «O santo padre, spirito che vedi
ciò che credesti sí che tu vincesti
126ver lo sepulcro piú giovani piedi,»
     comincia’ io «tu vuo’ ch’io manifesti
la forma qui del pronto creder mio,
129e anche la cagion di lui chiedesti.
     E io rispondo: Io credo in uno Dio
solo ed eterno, che tutto il ciel move,
132non moto, con amore e con disio.
     E a tal creder non ho io pur prove
fisice e metafisice, ma dálmi
135anche la veritá, che quinci piove