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tumultuosamente l’esercito di Vittorio Amedeo, dopo quella tremenda disfatta, protetto ancora nella fuga dal coraggio tranquillo del principe Eugenio. Ma non c’è dunque altre memorie che di batoste e d’ingiurie straniere in questo disgraziato paese? Che roba è questa, signor professore?... Un momento. Eravamo rimasti a Moretta. A Moretta passa la Varaita. Non c’è legato qualche buon ricordo a questa Varaita?... Ma sì, corpo d’un cannone da costa. Una grande giornata, una sfolgorante vittoria, l’esercito di Luigi XIII, accorso in aiuto del duca di Nevers, assalito, sfondato, sbaragliato, ricacciato come una mandra atterrita al di là delle Alpi da Carlo Emanuele I, nell’anno di grazia milleseicento e vent’otto. Dalla parte di Dio! Ecco quasi accomodate le partite. Ero lì lì per buttarmi via, in parola d’onore. — Che gliene pare? — mi disse forbendo le frasi il professore. — È davvero una specola istorica la rocca di Cavour. Io ci vengo una volta ogni anno, tutto solo, e mi assido su questi rottami a rimirar la pianura, e a riandar meco stesso le mie letture predilette; e facendo con la fantasia armeggiare gli eserciti e tuonare le bastite, rivivo, per dir così, nel passato, e in me stesso m’esalto.... come dice il divino Alighieri. —



— Ebbene, cosa ne dice? — mi domandò il faccione dell’agronomo, avvicinandosi. — Son buoni terreni, glielo assicuro io. Terreni da