Pagina:Alle porte d'Italia.djvu/327

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la rocca di cavour 313

dei giovani audaci e tristi, che salivano col presentimento della morte, pensando confusamente alla loro casa lontana; una lunghissima fila flessibile, come un mostruoso rettile nero, strisciante sotto la minaccia d’un tallone gigantesco; e andava su, il mostro, lento e orribile, ansando per cento bocche, e aggrappandosi alle rupi con cento artigli, e sbarrando tutti i suoi occhi verso la cima; sulla quale un altro mostro, nero e immobile, gravido di ferro e di fuoco, lo aspettava in silenzio, per folgorarlo nel buon momento, e seminar la rocca delle sue ossa rotte e delle sue viscere lacerate.... Ma non c’è dunque un palmo di terra dove non non s’abbia da dire, ripensando al passato: — Qui si scannò, si trucidò, si bruciò, si fece l’inferno! — In verità, dopo quattro mesi di passeggiate storiche, a furia di sentir ripetere da tutte le parti quello eterno ritornello del sangue, si finisce col non veder più che rosso, e non si prova più orrore, nè pietà; ma nausea e rabbia e odio; e si vorrebbe aver una voce miracolosa da farsi sentire a tutti gli esseri umani presenti e passati, per urlare: — Stupidi! Imbecilli! Bestie! Siete tanto bestie che avete fatto bene, che fate bene, che farete sempre bene ad ammazzarvi come le bestie! — Ma si avrebbe torto. A che cosa serve? Un’ora dopo saremmo tutti disposti a piantare la sciabola nel ventre a chi ci desse un urtone passando. Io dissi bene quelle parole in cima alla rocca di Cavour, ma il piccolo omicida che porto dentro anch’io come gli altri, mi rispose con una scrollata di spalle.