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il giovane galante d’altri tempi. Gli occhi piccini di un grigio freddo e duro guardavan sempre diritto, come quelli di un cocchiere che ha nelle mani dei cavalli cattivi su per una strada cattiva. Due modesti baffi quasi bianchi, d’un pelo duro e regolato, coprivano una bocca sottile senza labbri.

Vestiva con la trascurata proprietà d’un uomo d’affari, che può spendere e vestirsi bene, ma non ha tempo di spazzolarsi e di star sull’etichetta.

Tognino era primo cugino della defunta Carolina e da qualche tempo suo amministratore, suo factotum e suo braccio destro nei mille affari d’una grossa azienda domestica.

La Ratta, vedova d’un capo-mastro arricchitosi ai tempi dell’Austria con gli appalti militari, possedeva una bella sostanza valutata sulle quattrocentomila lire, parte in case, parte in titoli bancari, parte in fondi a San Donato presso Chiaravalle.

La vecchia Carolina nei quarant’anni di vedovanza aveva fatto dei risparmi, senza troppa fatica, largheggiando in elemosine, sostenendo la causa del sommo Pontefice, incoraggiando dei giovani sacerdoti, e favorendo colla sua pietà tutte quelle istituzioni che mirano specialmente a far guerra ai framassoni. Negli ultimi anni aveva finito col cadere in mano ai preti; ma furba la sua parte, cresciuta com’era in mezzo agli affari, quando capì che i preti e il famoso avvocato Baruffa, tutta roba dei preti anche lui, miravano a tirare troppo l’acqua al loro molino, un bel dì mandò a chiamare il cugino e gli disse:

— Guarda un po’, Tognino, io sono vecchia ma non voglio morire minchiona. Non ti pare che l’avvocato abusi della mia fiducia?