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Pagina:Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871).djvu/442

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436 rassegna bibliografica

più antico; un foglio doveva strapparsi a tutte le storie letterarie, e le scuole di Giovenazzo, che si intitolavano col nome di Matteo Spinello, dovevano quindi innanzi cercare il loro protettore nel Dizionario delle favole!

Lo scritto del Bernhardi fu conosciuto in Italia principalmente per la traduzione che ne pubblicò il sig. Achille Coen sul Propugnatore di Bologna diretto dallo Zambrini; ed anche fra noi non mancò di fare assai viva impressione sull’animo dei leggitori. Ai più attenti e scaltriti parve però di scorgere, in quell’apparato critico ed in quella così risoluta dimostrazione, alcun che di specioso e di sofìstico. Quanti e quali fossero i giornali nostri che ne discorressero, non sappiamo; non molti certo, e forse pochissimi. Ne parlarono bensì il prof. d’Ancona nella Nuova Antologia, sulla scorta di una rivista francese, cui la conclusione del tedesco era parsa della maggiore evidenza; ed il barone Reumont in questo stesso Archivio, nelle sue Notizie bibliografiche dei lavori storici pubblicati in Germania sulle cose d’Italia. Ma il d’Ancona ed il Coen non si mostrarono così persuasi dell’inappellabilità del giudizio pronunziato dal critico tedesco, che l’uno nell’annunziarla in quel modo, l’altro nel dare tradotta l’opera di lui, non esprimessero il desiderio che il tema fosse studiato di nuovo, ed i critici italiani dicessero una volta la loro parola. Anche il dottissimo Reumont, non disprezzatore degli studiosi italiani, parlò con animo sospeso del lavoro del suo compaesano, e rammaricando che l’edizione dello Spinello illustrata dal Minieri Riccio gli fosse rimasta ignota, conchiudeva «che non sarebbe superfluo nuovo esame, confrontando l’uno coll’altro».

Ora questo nuovo esame è fatto, e lo dobbiamo appunto allo stesso Minieri Riccio; il quale ha mostrato (ed anche per ciò solamente sarebbe a lodarsi) che nell’odierna Italia, tanto distratta e tanto scaduta negli studi severi, vi è pur sempre chi li coltiva e mantiene il seme, che in altri tempi, giova sperarlo, produrrà frutti più numerosi. Praticissimo della storia del medioevo napoletano, si è, come dicono, inchiodato per più mesi ad un tavolino del Grande Archivio di Napoli, ed ivi ha rifrustrate le vecchie carte de’ tempi svevi