Pagina:Archivio storico italiano, serie 3, volume 13 (1871).djvu/508

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502 concetto storico, civile e morale

parlata, O mihi sola mei super Astyanactis imago; scorci, che tanto ne ha di bisogno L’affettò, e li compie di sè.

Turno, per il vecchio padre, si umilia a pregare il nemico, pregarlo con dignità: nec deprecor.... Utere sorte tua. Enea, vedendo che il padre non vuol sopravvivere alla sua patria nè sopportare l’esilio, vuole anch’egli morire e avventarsi tra l’armi nemiche; ma sulla soglia la moglie si getta a’ suoi ginocchi, e tende al padre il piccolo Julo; e già poco innanzi la madre dea lo rattiene dallo sfogare in Elena la vendetta, con tutto che non sia impresa memoranda il punire una femmina, lo rattiene coll’immagine del padre e della consorte e del figlio, attorniati da spade e da fiamme1. Un segno celeste, un fuoco dell’alto, vince le resistenze d’Anchise, che adora quel cenno: «patrii Dei, salvate la mia famiglia, salvate il nipote». E il guerriero lo porta sulle sue spalle: comune il pericolo, uno a tutti e comune lo scampo. Il padre sugli omeri, il figliuoletto per mano, dietro a loro la moglie; ma, lei smarrita, e’ pone in sicuro e raccomanda ai compagni dell’esilio i pegni cari, e riprende le armi, e rientra nell’incendio e nella strage, e riempie del suo grido le vie fumanti e i palagi disertati dalla nemica rapina. Volendo, rotta la ragione de’ tempi, congiungere insieme la fondazione della grandezza cartaginese e della romana, e porre nel suo poema le radici dell’odio secolare tra Africa e Italia (che aveva radici storiche anch’esso, come il favoleggiato d’Asia e di Grecia), non si poteva far luogo all’amore d’Enea con maggiore riverenza agli affetti domestici, facendo sacra e poco men che divina l’immagine della madre di Julo. E, d’altra parte, se sopra i misfatti di Mezenzio non poteva poesia di Pagano versare maggiore abbondanza di quasi espiatrice commiserazione, non poteva il fallo della regina fenicia essere meno da pagana poesia lusingato nè da compassione umana più piamente compianto.

Eleno chiama felice Anchise, felice nell’esilio calamitoso, mercè d’un figlio di tanta pietà2; e questa pietà spira, come da campo fiorente e fruttifero, da tutto il poema. Enea

  1. E. 2.
  2. E. 3.