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CCXIII

A MESSER FERRAGUTO DI LAZZARA

Ora, che ha superate le avversitá, non può non ricordare l’amico, che non l’ha mai abbandonato nelle disgrazie. Ecco, fratello, che Iddio ha pur voluto ch’io vinca con la pazienza e con la vertú la perversitá dei tempi, l’avarizia dei principi e l’invidia degli uomini. Ecco che le tristizie, che sban dirono le mie bontá di Roma, son restate ne la lor natura e ne l’arte loro. E io, sodisfatto dai propri onori, volando tuttavia con le ale de l’ottima faina, son dal mondo conosciuto de la complessione che fino al tempo di Leone mi conosceste voi. Onde, congiugnendovi meco con quella vera amistá che mai non defrauda il nome, sempre patiste, ne le mie persecuzioni, quel ch’io provava in cotali fastidi. Né mai sospirai né mai mi dolsi del torto fatto a la mia ragione, ch’io non vedessi il cor vostro sospirarne e dolersene. Hovvi anco visto, negli accidenti dei tradimenti usatimi, lasciar piú tosto il servigio del Cornaro e del Rangone, vostri reverendissimi padroni, che la mia cura, parendovi gran peccato e gran vergogna lo abbandonar l’amico, mostrando a chi avea tolto a sette anni de la mia servitú fino a la speranza, che la sorte non era sufficiente a rubarmi la vostra amicizia, la quale non si è mai diseparata da me ne le fortune e ne le tempeste, ma ne le bonacce e ne le tranquillitá si. E ciò fate, perché la letizia non ha bisogno di conforti, né chi sta dritto, di sostegno. Veramente, io prepongo la mia ventura a le vittorie de l’imperadore, poiché ho saputo acquistarmi e mantenermi cosi fatto amico. E vi è piú gloria Tesser tale, che se voi foste vaso d’ogni sapienza. E il zelo di chi sa essercitar la caritá de la benivolenzia è di piú merito che non sono l’opre che escono de l’anima a la misericordia. Diasi il titol di santo e di miracoloso a l’amico ottimo, da che gli uffici de le sue tenerezze producono frutti santi e miracolosi. Come gli producano santi, il bene, che ne séguita, il prova;