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avenga che l’arte, che vói rimbellire la natura, simiglia la temeritá di certe figliuole, che, nel presumere di amaestrare le madri, ne acquiston piú tosto nome di insolenti che di sagge. E però voi, con l’usare il giudizio de la cognizion naturale, date ad intendere a la curiositá de l’artificio il suo non esser bastante ad imprendere quel che non si può insegnare. Conciosiaché la profonditá del sapere legitimo si bee insieme col latte che ci notrisce, e chi l’otiiene altrimenti, è avveduto e non saputo; per la qual cosa sa cavillare assai e comprender poco. È ben vero che chi trae le aveftenze da la culta naturalitá risplende nel compimento de la perfezzione, che illustra la degna e nobile condizione di Vostra Signoria.

Di Vinezia, il 2 di luglio 1542.

DCCXXIX

AL DANESE SCULTORE

Si duole d’un tale, propostogli dal Danese, che, nemmeno su pegno, ha voluto fargli un prestito. Esorta poi l’amico a coltivar la poesia insieme con la scultura.

Due cose, figliuol mio, si son comprese nel servigio che in sul pegno non mi ha concesso Tuoni clic sapete: la sua avarizia e la mia povertá. Benché non invidio la commoditá di lui, essendo tale, iinpercioché il povero ha carestia di molte cose e l’avaro di tutte. Ma, da che la felicitá trae la origine da la virtú, anch’io, per non trovarmi ignorante, posso sperar di acquetarmi. Ma, quando io non fossi mai altro che liberale, non sono io assai? Or, perché la maggior bestemia, che si possa mandare ai professori de la miseria, c l’augurargli la lunghezza del vivere, prego Dio che esso viva mille anni, accioché sia piú continuo il suo esser schiavo a si bestiai vizio. Il difetto de la cui natura tanto manca di quel che tiene quanto di ciò che non possedè. Io, per me, ho quel che voglio, da che