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satira seconda. 163

39Che più che dalla peste me gl’involo.
     Nè il verno altrove s’abita in cotesto
Paese; vi si mangia, giuoca e bee,
42E vi si dorme e vi si fa anco il resto.1
     Chi quindi vien,2 come sorbir si dee
L’aria che tien sempre in travaglio il fiato
45Delle montagne prossime Rifee?
     Dal vapor che, dal stomaco elevato,
Fa catarro alla testa e cala al petto,
48Mi rimarre’ una notte soffocato.
     E il vin fumoso, a me vie più interdetto
Che ’l tôsco, costì a inviti si tracanna,
51E sacrilegio è non ber molto e schietto.
     Tutti li cibi son con pepe e canna
Di amomo, e d’altri aromati che tutti,
54Come nocivi, il medico mi danna.
     Qui, mi potreste dir ch’io avrei ridutti,
Dove sotto il cammin sedería al fôco,
57Nè piei nè ascelle odorerei nè rutti;
     E le vivande condiríami il cuoco
Come io volessi, ed inacquarmi il vino
60Potre’ a mia posta, e nulla berne o poco.
     Dunque, voi altri insieme, io dal mattino
Alla sera starei solo alla cella.
63Solo alla mensa, come un certosino?
     Bisogneríano pentole e vasella
Da cucina e da camera, e dotarme
66Di masserizie qual sposa novella.
     Se separatamente cucinarme
Vorrà mastro Pasino3 una o due volte,
69Quattro e sei mi farà ’l viso dell’arme.
     S’io vorrò delle cose ch’avrà tolte
Francesco di Siver4 per la famiglia,
72Potrò mattina e sera averne molte.


  1. L’autore avea prima fatto: Fuor che dormir, vi si fa tutto il resto; e così leggono le prime edizioni e il Rolli. Di poi corresse come qui si vede. — (Molini.)
  2. Leggiamo col Rolli ed altri, accettando la correzione proposta dal Molini stesso, che legge, col manoscritto: Che. Non così l’interpretazione di alcuni: chi viene dall’Italia; ma invece quella del Barotti: chi viene dalle stufe già dette.
  3. Era il cuoco del cardinale Ippolito — (Molini.)
  4. Era lo spenditore del medesimo — (Molini.)